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I DON CHISCIOTTE DEI NUMERI: LA DISPUTA IN ATTO

 

GLI SCENARI E LA “POSIZIONE” DELLA COMMISSIONE EUROPEA

Lo strumento utilizzato dalla Commissione per valutare le conseguenze economiche del pacchetto clima, il modello Primes, non è l’unico in circolazione per questo tipo di esercizi. Al di là dei suoi meriti, data l’estrema rilevanza della posta in gioco, sarebbe stato auspicabile produrre risultati per lo stesso pacchetto con altri modelli di simulazione di altri istituti di ricerca europei al fine di valutare la robustezza dell’analisi.
Spesso diversi scenari sono simulati per vedere il grado di variabilità delle stime ottenute – in questo caso i costi –  rispetto a quelle centrali scelte come le più ragionevoli, realistiche o preferibili. Lo scenario su cui la Commissione europea ha basato le sue valutazioni è quello che prevede l’operatività dei vari meccanismi di flessibilità, in particolare lo scambio di garanzie di origine sulle rinnovabili e la possibilità (limitata) di accreditare alle imprese europee le minori emissioni associate a progetti e impianti che esse realizzassero nei paesi in via di sviluppo: si tratta dei cosiddetti Cdm previsti dal Trattato di Kyoto. Questo ricorso, ancora una volta, può essere per il singolo attore meno oneroso delle opzioni alternative di cui dispone per raggiungere il proprio target. I costi per l’Unione europea di questa strategia che sfrutta la flessibilità sono riportati nella tabella 1 qui sotto e variano tra lo 0,45 e lo 0,60 per cento del Pil. (1) Associato al caso della massima flessibilità vi è un costo per l’Italia compreso tra lo 0,51 e lo 0,66 per cento del proprio Pil.Èinteressante notare che tale tabella veniva già proposta come tabella 37 nel documento di valutazione di impatto del pacchetto clima che la Commissione pubblicava a febbraio 2008, all’indomani cioè delle proposta di direttiva. (2)
Non è dunque vero quanto affermato dal ministro Prestigiacomo che il nostro governo ha dovuto insistere presso la Commissione per ottenere i numeri dei costi delle proposte. Vero è invece che la Commissione non aveva reso noti i dati di costo di una serie di altri scenari simulati, ivi inclusi quelli che non prevedevano l’operatività di alcun meccanismo di flessibilità. Non c’è bisogno di un economista per comprendere che tali scenari portano a costi per i singoli paesi, Italia inclusa, maggiori di quelli con flessibilità. (3)

LA “POSIZIONE DELL’ITALIA”

All’indomani della presentazione della proposta, il Parlamento europeo ha iniziato l’analisi dei contenuti e, attraverso un processo di emendamenti e votazioni, è arrivato a fine settembre ad approvare il pacchetto in una versione sostanzialmente invariata. Nonostante le pressioni di vari europarlamentari, le Commissioni ambiente e industria hanno licenziato un testo che è arrivato perciò al Consiglio europeo del 15 ottobre scorso. Queste direttive  richiedono la doppia approvazione di Europarlamento e Consiglio europeo e possono prevedere, se emendate, un riesame. Inoltre potrebbero essere approvate anche a maggioranza qualificata del Consiglio, in codecisione con il Parlamento, rendendo dunque un eventuale veto dell’Italia un atto politico,  sicuramente serio e da evitare assolutamente, ma privo di rilievo giuridico.
Mentre l’Europarlamento era impegnato nell’esame del pacchetto, iniziava, soprattutto a cavallo dell’estate, il lavoro diplomatico dei nostri ministri, finalizzato alla ricerca di alleati da associare alla propria posizione negativa sul pacchetto, quanto a tempi di entrata in vigore ed entità dell’impegno richiesta a ciascun paese. Ma la strategia nazionale mirava anche alla Commissione europea cercando di mostrare come le analisi quantitative condotte non riproducono fedelmente i reali costi che l’Italia dovrebbe sostenere nel caso di approvazione del pacchetto.
A supporto della propria posizione, il ministero delle Attività produttive produceva un documento datato 8 settembre 2008 di stima dei costi basato su un’analisi condotta dal Rie, il centro ricerche di Bologna che fa capo ad Alberto Clô, ex ministro dell’Industria del primo esecutivo Prodi. Il documento forniva cifre di costo davvero impressionanti. Stimava per il periodo 2013-2020 un costo per lo sviluppo delle fonti rinnovabili pari a 50 miliardi di euro, una costo per la riduzione dell’intensità energetica addirittura di 120 miliardi e infine un costo associato alla riduzione delle emissioni per un importo di 23-27 miliardi. Nel complesso si tratta di 200 miliardi che su base annua ammontano a 25 miliardi circa. Il documento e le cifre in esso contenute venivano fatte proprie dalla Confindustria che, prendendo le mosse dalla considerazione della consistente base manifatturiera della nostra economia e del paventato rischio di delocalizzazione delle nostre imprese più energivore, affiancava il  governo nell’offensiva europea.
Il documento Matt-Rie per come i calcoli sono effettuati lascia adito a dubbi significativi. Anzitutto il pacchetto europeo non prevede attualmente interventi sull’efficienza energetica: togliendo i 120 miliardi e conteggiando solo l’intervento su emissioni e rinnovabili i costi cumulati scendono a 73-77 miliardi, cioè poco più di 9 miliardi l’anno. In secondo luogo i calcoli sono fatti considerando gli obiettivi uno alla volta indipendentemente dagli altri, secondo una procedura di mera moltiplicazione tra un prezzo ipotizzato della tonnellata di carbonio per le presunte emissioni risparmiate e di prezzo delle varie fonti rinnovabili per il corrispondente consumo stimato sulla base dei target previsti dalle direttive. Naturalmente questo è una procedura approssimativa, in quanto appare di tutta evidenza come senza modelli integrati che consentano di tenere conto di tutte le interazioni tra mercati, settori di attività e agenti, soprattutto in presenza di una pluralità di politiche, sia difficile fornire cifre dotate di una credibilità per lo meno analoga a quelle della stessa Commissione europea.

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LA “POSIZIONE DELL’ITALIA” RIVISTA

L’arma del nostro governo a sostegno della tesi della ridiscussione e del rinvio si è successivamente spostata su altri dati e su un’altra tabella, prodotta dallo stesso ministero, che è poi quella ripresa ripetutamente dalla stampa in questi giorni, ed è anche quella che permette di chiarire i termini della disputa. (4)
La Commissione stima i costi del pacchetto clima per l’Italia nell’ordine dello 0,51-0,66 per cento del Pil, l’Italia sostiene che sono pari al doppio, l’1,14 per cento del Pil, ossia 181,5 miliardi di euro cumulativamente ovvero 18,2 miliardi in media d’anno. Èimportante notare che questo ultimo dato non era stato fornito dalla Commissione europea a febbraio 2008 per la semplice ragione che corrisponde allo scenario privo di qualsiasi meccanismo di flessibilità per rinnovabili e Cdm.Èstato successivamente incluso in un documento di più di 900 pagine, solo tabelle e numeri, in cui vengono riprodotti paese per paese i risultati di tutti i vari scenari considerati nell’esercizio di simulazione, ivi incluso quello assunto a riferimento dal nostro governo. (5)
A essere precisi, verificando la corrispondenza tra documenti degli scenari e dei numeri per l’intera Unione, la Commissione calcola che il costo su base annua in questo caso ammonterebbe a 21,2 miliardi di euro. Questo è quanto presentato in un estratto del documento (a pagina 119) riportato qui sotto nella seconda tabella, mentre quello di flessibilità dell’Unione europea (a pagina 461) è ripreso nella terza tabella.

LA SINTESI

Non vi sono numeri inventati, fasulli o più veri. Vi sono solo numeri, corrispondenti a diverse ipotesi di scenario, ognuno associato a modalità di implementazione delle stesse direttive. Nessuna ipotesi mette in discussione l’impianto di fondo e i principi del pacchetto 20-20-20, ma guarda semplicemente all’impatto sui costi complessivi della presenza o meno, e in diversi gradi, dei meccanismi di flessibilità previsti. Èdunque singolare che il governo italiano, liberista sulla carta, vada a selezionare a sostegno delle proprie tesi proprio quello scenario che non prevede, anzi nega, un ruolo ai mercati e alla flessibilità. Questo lo porta anche a notare inutilmente che nello scenario Commissione europea i nostri targets fisici non sono raggiunti: questo è sicuramente vero, ma è precisamente il risultato dell’operare dei meccanismi di flessibilità. Non è un problema, poiché ciò che conta per l’intera strategia è che i targets europei siano centrati.  Non vi è una scenario giusto né uno sbagliato; ve ne sono diversi e ragionevolmente la Commissione europea ha selezionato quello che fa un favore agli Stati membri in quanto porta a minimizzare per essi i costi delle direttive proposte. Questo appare essere stato ben compreso dagli altri importanti paesi dell’Unione – Germania, Francia, Spagna – atteso che quest’ultima ha addirittura un costo stimato superiore al nostro ed atteso che la crisi finanziaria riguarda tutti quanti e non solo noi. Il presidente di turno Sarkozy, buon amico di Berlusconi, vuole chiudere entro dicembre con una decisione definitiva e ha messo in chiaro che l’arma del veto è spuntata, in quanto inefficace. I numeri assumono allora il valore di una scusa per cercare di prendere tempo e cercare di ottenere condizioni più vantaggiose nella ripartizione degli oneri tra paesi membri. Siamo in compagnia di otto paesi dell’Europa dell’Est, unico tra i fondatori ad adottare una posizione di scontro e chiusura con la Commissione e gli altri stati membri che contano. Non è una bella cosa. La partita poteva essere giocata meglio e si doveva tenere presente che tutti i nostri partner hanno visto il comportamento da cicala delle emissioni che l’Italia, governi di centrosinistra o di centrodestra, ha tenuto finora e che ci colloca ampiamente fuori rotta rispetto all’appuntamento di Kyoto.
Quanto alla posizione di Confindustria non si può non riconoscere che svolte nella politica energetica e del clima di questo tipo, la cui importanza e necessità è da tutti riconosciuta, comportano aggiustamenti nell’economia, che riguardano anche i settori produttivi. L’industria delle rinnovabili fiorisce, le industrie energivore soffrono: riallocazioni sono dolorose ma necessarie. L’esigenza è favorirle attutendo per quanto possibile i costi. Ma le proposte di direttiva, con l’assegnazione gratuita, almeno all’inizio, dei permessi di emissione , la possibilità di opting-out per le piccole imprese dal mercato delle emissioni, fino alla discussa possibilità di imporre border tax adjustments (cioè dazi all’import) per le produzioni più a rischio di perdita di competitività, svolgono esattamente quella funzione.
Più in generale, infine, i numeri da tutti citati enfatizzano i costi, ma non tengono adeguato conto dei benefici. Quale è l’entità dei danni dei cambiamenti climatici evitati dalle direttive se dovessero entrare in vigore? Quale è l’entità dei cosiddetti co-benefici rappresentati da guadagni occupazionali netti, da proventi connessi all’innovazione tecnologica? Quale il costo di interventi alternativi come tasse sul carbonio, quali i benefici in termini di minori emissioni di altri inquinanti connessi al pacchetto? Non varrebbe la pena di dirigere maggiori sforzi verso una più accurata valutazione dei benefici, oltre che dei costi?

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(1) Si tratta della tabella 11 del documento di sintesi ottenibile all’indirizzo  http://ec.europa.eu/environment/climat/pdf/climat_action/analysis.pdf
(2) http://ec.europa.eu/environment/climat/pdf/climat_action/climate_package_ia_annex.pdf
(3) I vari documenti del pacchetto clima si trovano alla pagina “Climate Action” della Commissione europea:  http://ec.europa.eu/environment/climat/climate_action.htm
(4) http://www.minambiente.it/moduli/output_immagine.php?id=2388
(5)http://ec.europa.eu/environment/climat/pdf/climat_action/analysis.pdf e http://ec.europa.eu/environment/climat/pdf/climat_action/analysis_appendix.pdf

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SE IL LAVORATORE NON SI RIALLOCA

  1. Stefano Strozzieri

    L’autore ha chiaramente dimostrato che la resistenza del governo italiano non è fondata su questioni economiche razionalmente sostenibili. Si parla dunque di ragioni politiche ma ad essere ancora più corretti dovremmo dire che si tratta della politica dell’orticello. A mio modo sarebbe più corretto parlare chiaramente di difesa di interessi particolari di alcuni settori della nostra economia.

  2. Antonio Massarutto

    Tutti a parlare di costi e solo di costi. E così pochi, invece, a ricordare che questi costi sono in realtà degli investimenti sui quali si fonda la modernizzazione del nostro sistema industriale. La Germania, negli anni 70, fece la scommessa di approvare norme ambientali molto più severe degli altri. In apparenza, un tentativo di suicidio. Nei fatti, una delle più lungimiranti strategie di politica industriale degli ultimi decenni. Grazie al vantaggio del first mover, la Germania è da allora saldamente leader mondiale delle tecnologie ambientali e delle produzioni pulite. Più ancora che la cialtroneria di chi ci governa, stupisce la miopia di Confindustria. La quale parla molto di ambiente (a parole) ma poi quando il gioco si fa duro riesce a declinare solo il tema dei costi, facendo proprie le posizioni dei settori più retrivi, che per anni si sono battuti per rinviare, dilazionare e nascondere, agitando il fantasma occupazionale come arma di ricatto nei confronti della politica. E non capendo che, spendendosi solo in difesa di costoro, al nostro settore manifatturiero non rimarrà che un inesorabile declino.

  3. Carlo Stagnaro

    Gentile professor Galeotti, Trovo molto interessanti le questioni con cui chiude. Le sarei estremamente grato se, dunque, potesse conseguentemente rispondere a due delle domande che lei stesso pone. (a) Lei si chiede: "Quale è l’entità dei danni dei cambiamenti climatici evitati dalle direttive se dovessero entrare in vigore?". Potrebbe per cortesia fornire delle stime sull’effetto ambientale delle politiche climatiche europee? Non le sto chiedendo il beneficio della riduzione delle emissioni globali: sto chiedendo di quanti gradi, decimi di grado, o centesimi di grado verrà rallentato il riscaldamento globale se, a parità di altri elementi, l’Unione europea ridurrà del 20 per cento le sue emissioni. Le chiedo anche quale possa essere l’affidabilità di tale stima. (b) Lei si chiede: "è l’entità dei cosiddetti co-benefici rappresentati da guadagni occupazionali netti, da proventi connessi all’innovazione tecnologica?". Le giro la domanda: a quanto ammontano tali benefici *netti*? Cioè, a livello europeo – non solo tedesco – è stato finora e sarà nel futuro maggiore il valore dell’occupazione creata, o il valore degli extracosti sul sistema energetico e produttivo?

  4. Rinaldo Sorgenti

    Importante approfondire il tema e confrontarsi sullo stesso con dati concreti. Ora, a pochi è noto (perchè chi parla di ambiente non lo dice) che l’Italia ha la migliore efficienza energetica, sia storica che attuale, quindi la nostra industria già consuma meno combustibili per unità di prodotto, rispetto a DE, UK, FR, ES. Ancor di più: se si calcola l’indice di emissioni di C02 procapite: – Italia = 9,7 – Germania = 12,2 – U.K. = 10,8 (Fonte EU Env. Agency – 08). E’ altresì interessante il quesito posto da C.Stagnaro circa una valutazione dell’effettivo impatto che l’applicazione di tale "Pacchetto" potrà avere, sia in termini ambientali che produttivi/sviluppo. Infatti, è possibile pensare allo sviluppo anche occupazionale di una filiera solare, così come non bisogna trascurare il fatto – in questo caso negativo – che potrebbe avere il sovraccaricare la capacità competitiva Paese, con una ulteriore spesa (2011-2020) di 18,2 Miliardi di €/anno. Quanta occupazione perderemo a causa dell’enorme maggior costo elettricità in Italia? La Germania è un esempio per le FER, ma quanta EE produce da Carbone e Nucleare?

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