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L’UNIVERSITA’ DELLE CATTEDRE GRIGIE

I professori universitari italiani sono i più vecchi d’Europa e godono del privilegio di andare in pensione più tardi dei colleghi europei senza dover produrre risultati scientifici. Il decreto legge 180/08 del ministro Gelmini fissa le quote d’immissione dei giovani ricercatori nel sistema universitario, ma non affronta il nodo dell’età pensionabile dei docenti ordinari. All’università serve una riforma che diminuisca rapidamente il numero degli ordinari, preservando al contempo la trasmissione del sapere fra le generazioni.

 

La composizione del corpo docente universitario è cambiata nel corso degli anni. Fino al 1980 i professori ordinari erano poche migliaia. Con l’approvazione della legge 382/1980, si è verificata un’ingente immissione di docenti che in modo quasi automatico sono stati trasformati da assistenti in ricercatori e in professori grazie a una valanga di concorsi ad personam: un vero e proprio “tsunami” di assunzioni come è stato definito da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi, ovvero “un’onda anomala” di nuovi docenti per stare alla definizione di Salvatore Settis. (1)

I PIÙ VECCHI D’EUROPA

Negli anni, la tendenza dell’università a investire risorse negli avanzamenti di carriera è stata mantenuta e anzi è diventata ancor più massiccia. In seguito all’introduzione dei concorsi locali a idoneità tripla voluti dal ministro Berlinguer nel 1998, il numero degli ordinari è aumentato fino a eguagliare, e addirittura superare nel 2001, il numero degli associati e dei ricercatori. Rispetto al 1998 il numero di ordinari è aumentato del 46 per cento, a fronte di un aumento complessivo del corpo docente del 24 per cento. (2) Oggi, la composizione delle tre fasce si equivale con circa 20mila docenti per fascia e forma la cosiddetta “struttura a cilindro” del corpo docente. L’allargamento a dismisura del numero di ordinari ha contribuito a ingrossare le spese di personale degli atenei, oggi prossimi al tracollo finanziario.
La classe docente italiana è anche la più vecchia d’Europa. Come riportato nel rapporto Miur, il 55 per cento dei docenti di ruolo supera i 50 anni con una distribuzione dell’età diversa fra le tre fasce. Gli ultra-cinquantenni costituiscono l’82 per cento degli ordinari, il 55 per cento degli associati e il 31 per cento dei ricercatori. Se poi si osserva la fascia d’età degli ordinari, si rileva che il 45 per cento  ha più di 60 anni e che addirittura il 24 per cento ne ha oltre 65. Nel panorama internazionale ed europeo in particolare, l’Italia è tra i paesi con la quota più alta di docenti ultra-cinquantenni, come si vede nella figura 1. Una riduzione dell’età dei docenti si è avuta dal 2003 anche se in una misura ancora insufficiente.
Le cause dell’elevata età media dei docenti sono essenzialmente due: i tempi troppo lunghi per l’immissione in ruolo dei ricercatori, che avviene secondo percorsi non definiti, e una normativa troppo generosa sull’età pensionabile dei professori ordinari. Il primo aspetto viene affrontato dal decreto legge 180/08 che fissa al 60 per cento la quota di immissione dei ricercatori. Il secondo aspetto richiederebbe un intervento mirato di riduzione dell’età pensionabile. In Italia, i lavoratori vanno in pensione a 65 anni, mentre i professori universitari lo fanno molto più tardi. Come notanoSylos Labini e Zapperi, si tratta di un’antica tradizione italiana. La legge 498/1950 introduce la collocazione fuori ruolo a 70 anni e la pensione definitiva a 75. Il limite viene mantenuto fino alla legge 382/1980 che abbassa l’età di collocamento fuori ruolo a 65 anni e quella della pensione a 70. Un cambiamento superato con la legge 230/1990 che ripristina la normativa precedente, definendo opzionale il collocamento fuori ruolo a 65 anni. Come se ciò non bastasse, con il decreto legge 503/1992 si permette ai docenti di rimanere in servizio per un ulteriore biennio oltre il limite di età, innalzando quindi l’età di permanenza in ruolo sino a 72 anni. A questa opzione favorevole si è aggiunta la possibilità di ottenere il fuori ruolo per tre anni in modo automatico. Molti docenti immessi in ruolo negli anni Ottanta godono di questo privilegio, che tuttavia dopo la riforma dell’allora ministro Mussi (articolo 2 legge Finanziaria 2008) è in progressiva abolizione. Infine, la riforma Moratti (203/2005) abolisce la permanenza fuori ruolo e fissa a 70 anni l’età della pensione, ma questo solo per i nuovi assunti.

QUANTO COSTA L’ORDINARIO ANZIANO

L’idea del pensionamento in tarda età era in linea di principio condivisibile poiché riconosceva ai pochi professori, provenienti da un duro percorso di selezione, un valore intellettuale e professionale tale da rendere vantaggioso per il sistema universitario una vita lavorativa prolungata. I cambiamenti legislativi che hanno aumentato il numero degli ordinari e svuotato il processo di selezione con le sanatorie e le idoneità multiple ha però di fatto reso controproducente e costoso per il sistema una vita lavorativa protratta fino a 72 anni e più. Nell’enorme massa dei circa 20mila ordinari che popolano le facoltà italiane sono difatti ben pochi quelli in grado di rimanere intellettualmente attivi nella ricerca e nella didattica fino a tarda età. I sette anni aggiuntivi rispetto ai comuni lavoratori che vanno in pensione a 65 anni costano agli atenei una cifra elevata: un ordinario a fine carriera costa al proprio ateneo circa 120mila euro all’anno, che per sette anni diventano 840mila. Con questa cifra si potrebbero pagare 28 ricercatori per un anno o, se si preferisce, un ricercatore per 28 anni. Lo svecchiamento del sistema universitario e l’aumento dei giovani ricercatori, necessari per rimettere in moto l’università italiana, passa anche attraverso una revisione dell’età pensionabile che andrebbe riportata a 65 anni per i docenti oggi in servizio. (3)
È altresì vero che nella massa dei 20mila ordinari ci sono personalità di grande spessore scientifico e culturale, i quali costituiscono un patrimonio importante per la trasmissione del sapere. Ispirandosi al sistema anglosassone, per loro andrebbe prevista la costituzione della figura del “professore emerito”. Un titolo da conferire unicamente ai professori meritevoli e di chiara fama che dopo il raggiungimento dell’età pensionabile desiderano continuare l’attività di insegnamento e di ricerca. Per evitare i soliti automatismi dell’università italiana, il titolo andrebbe riconosciuto solo su richiesta motivata e attribuito solo per alti meriti scientifici dopo una rigorosa valutazione. Infine per evitare abusi il numero massimo di professori emeriti andrebbe fissato per legge, ad esempio al 5 per cento del numero di professori ordinari della facoltà di appartenenza.

Figura 1. Percentuale di docenti di ruolo (ordinari, associati e ricercatori) con oltre 50 anni di età. a.a. 2004/2005. Fonte: Rapporto Miur "Le risorse dell’università" 2007 da dati Eurostat.

 

(1) Il Sole 24Ore, 11/11/2008
(2) Rapporto Miur "Le risorse dell’università" 2007.
(3) Una proposta in questa direzione è stata avanzata anche da Daniele Checchi e Tullio Jappelli.

Foto: da internet

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IL COMPROMESSO VIRTUOSO

29 commenti

  1. Marco Cosentino

    Un lungo articolo per sostenere (con argomentazioni deboli e poco condivisibili, a partire dal "cilindro" di buona memoria…) una tesi del tutto ovvia ed evidente, ovvero che i professori universitari dovrebbero andarsene tranquillamente in pensione a 65 anni come avviene in ogni parte civilizzata del mondo. Per inciso, la figura del professore emerito gia’ esiste, e dovremmo smettere con questa mania tutta italiana di porre quote predefinite. E’ gia’ abbastanza insensata la norma 60/10/30 della L. 1/09. Sembriamo trenini che senza rotaia non riescono a camminare … ma forse e’ vero.

  2. Adele Bianco

    Si parla tanto di incentivare l’immissione in ruolo dei "giovani" ricercatori, ma poiché si diventa ricercatori quando ormai si iniziano ad avere i capelli bianchi, ho il dubbio che sia solo una manovra per abbassare i costi del personale docente universitario; bisognerebbe, in altri termini, fissare una soglia d’età oltre la quale non è ammissibile per un Ateneo acquisire ricercatori. Ma ciò andrebbe in contrasto con la normativa di assunzione nel pubblico impiego … insomma è un ginepraio da cui è difficile districarsi.

  3. luisa

    Io credo che l’età media sia elevata anche perchè l’età media di entrata è elevata. Per questo motivo abbassare l’età pensionabile, oltre che essere controcorrente, creerebbe un danno a chi (come me e la maggior parte degli altri "giovani") è entrato di ruolo ben oltre i 30 anni, in questo modo non arriveremo mai non solo a 40 anni di contributi, ma nemmeno a 35 o 30 di conseguenza avremo una pensione ridicola. A meno che, non si vogliano riconoscere gratuitamente i contributi per tutti gli anni di precariato (dottorato+post dottorato+assegni vari)! Forse sarebbe più equo, mandare in pensione chi ha già maturato 40 anni di contributi e che, più o meno, corrisponde agli ordinari "vecchi". Io, personalmente, sono comunque del parere che l’esperienza degli "anziani" sia da preservare il più possibile!

  4. G.Coletti

    1) Apprezzo la raccolta di dati riportata nell’articolo. 2) Non apprezzo proposte di variazione dell’esistente che non tengano conto di uno scenario abbastanza completo. 3) Espongo un dubbio. 1a) dovremmo tutti rifarci a dei dati, possibilmente europei, quando discutiamo, magari citando la fonte 2a) Per esempio si parla di anticipare o meno l’eta’ della pensione di docenti etc. e di possibili risparmi per i singoli atenei e/o per l’Universita’ nel suo complesso. Ma non si tiene conto del fatto che liquidazioni e pensioni da pagare peseranno su un altra posta del bilancio dello stato, 3a) Il dubbio riguarda il comprovare le attivita’ di docenti senior (vicini all’eta’ limite). Molti seniores sono impegnati nella didattica, nella ricerca e in attivita’ collaterali di vario genere (all’interno dell’istituzione): come si fa a valutare il loro apporto in quest’ultimo caso?

  5. Fabrizio Cerbioni

    Penso che la "generosa concessione" sull’età pensionabile dipenda anche dall’ingeneroso trattamento riservato ai giovani, i quali in generale riescono ad entrare in ruolo (quindi a pagare contributi utili ai fini pensionistici) molto tardi. Conosco numerosi colleghi ultrasessantacinquenni in grado di dare molto al sistema universitario, senza per questo poter essere considerati emeriti. Vorrei leggere una statistica sulle pubblicazioni degli ordinari distinti per fasce di età, per capire se davvero l’età è correlata con la produttività. Come al solito si affrontano i problemi dell’Università con superficialità, pensando che tutto sia risolvibile a colpi di accetta. Certo, basta mandare in pensione a 65 anni gli ordinari, così come per risolvere il problema della disoccupazione basterebbe pensionare un milione di lavoratori. Il fatto che lo stato abbia permesso una selezione inadeguata non credo possa giustificare soluzioni scoordinate quale quella proposta. Piuttosto che procedere con provvedimenti a singhiozzo che incidono sugli effetti, sarebbe più utile mettere mano ad una riforma seria del mondo universitario, evitando il perpetrarsi di anomalie, incidendo sulle cause.

  6. Paolo Manzini

    Trovo antipatico il titolo e l’uso di “privilegio” e “normativa troppo generosa” ma la simpatia uno o ce l’ha o no, pazienza. Il presunto privilegio è quanto valeva al momento dell’assunzione: cambiare le carte a metà partita può essere legale, ma è disonesto. Da chi scrive su LaVoce, che non è certo un blog qualsiasi, anzi, ci si aspetta competenza sul quanto scrive, cosa che qui non vedo. Leggo: “un ordinario a fine carriera costa al proprio ateneo circa 120mila euro all’anno”, ma è noto che questa cifra corrisponde alla IX classe del PO, con 18 anni di servizio dalla conferma in ruolo. L’affermazione sui 28 ricercatori : per onestà intellettuale si usi non la retribuzione del RU al 1° anno, ma la media dei 7 anni di cui si tratta. Quindi la retribuzione non corrisposta ad un PO permetterebbe di assumere (e retribuire) circa 3,5 ricercatori per i 7 anni. Ma la legge 1/2009 consente il 50%, quindi oggi mandi via un PO e assumi 1,75 ricercatori. Alla collettività il PO continua a costare quasi lo stesso (pensione + TFS), aggiungi la retribuzione dei quasi 2 RU. Conviene o vale la pena? Anche il CNVSU ritiene di no (pag. 120 del 9° Rapporto sul sistema universitario, dic. 2008)

  7. Luciano M.Barone

    Complimenti. Anche un sito come il vostro si accoda nel tiro al piccione contro l’università. Andiamo con ordine. Le cifre sono esatte ma, dato che l’invecchiamento è un processo lento, e qui si va sempre per ondate di demagogia e non per seria programmazione pluriennale, i rimedi sono risibili. Se infatti oggi uccidessimo gli ordinari con più di 65 anni e immettessimo 28 ricercatori/(ordinario ucciso), il problema si porrebbe 28 volte peggio tra 30 anni. Non so chi sia Caputo e se sia intervenuto in tempi non sospetti ma i rimedi andavano presi 20 anni fa. E ovviamente ci sono ordinari settantenni validissimi e ordinari cinquantenni, magari a Medicina o Giurisprudenza, di cui si farebbe volentieri a meno. In conclusione accorciare l’età pensionabile oggi da 70 a 65 per i 20000 ordinari, con un’onda di pensionamenti, risolverebbe il problema finanziario del reclutamento solo a breve termine, creerebbe una nuova onda di ricercatori, futuri professori tutti della stessa fascia d’età, e bloccherebbe di nuovo gli accessi per anni. La soluzione è programmare per anno il numero di ingressi nella docenza su scala almeno decennale e creare una articolazione anagrafica.

  8. Aram Megighian

    Come al solito in Italia non si applica il buon senso. In Germania i Professori anziani sono il 25% del corpo docente, e, a dire il vero, la presenza dei giovani è massiccia non solo nell’Università, ma in tutta la società (nei media, nelle imprese, nella scuola, nei servizi). Insomma, quella tedesca è una sociatà in cui gli anziani, ben volentieri si tirano indietro e lasciano ai giovani la responsabilità di gestire le cose. I giovani escono di casa presto e si costruiscono la loro vita, mentre gli anziani, liberi da impegni (anche dal fare la balia ai nipotini tutto il giorno come qui) si dedicano ai loro hobby e ai loro interessi. Un Professore in pensione può richiedere di stare in laboratorio, e tale richiesta è accettata (una sedia ed un tavolino in un angolo) se la sua esperienza può essere utile. Qui, sta la differenza: in Italia il "sistema" università (e tutto il resto) si poggia sul mantenimento del controllo del potere da parte dei più anziani. Hanno faticato tanto per arrivare ed ora non si fanno da parte, generando inevitabili frizioni. Di nuovo, introducendo una valutazione reale della ricerca e soprattutto della didattica non se ne esce.

  9. giorgio sacerdoti

    Pur essendo un ordinario di 65 anni condivido di massima l’articolo. Faccio presente però che la permanenza in servizio fino a 72 anni (se non a 75) è stata riconosciuta non molti anni fa anche ai magistrati (pare per nascondere un provvedimento ad personam), pure essa una categoria da svecchiare. Valga la par condicio!

  10. amsicora

    E’ paradossale che, mentre l’aspettativa di vita aumenta di anno in anno (e l’italia è proprio uno dei paesi al mondo in cui si vive di più e meglio!) si voglia mandare in pensione un professore universitario a soli 65 anni, ovvero quando è ancora al massimo delle sue capacità lavorative ed intellettuali. Inoltre, sostenendo che un professore settantenne "costi di più" all’università in cui insegna e perciò sarebbe proficuo pensionarlo, non si tiene conto del fatto che si tratta di una partita di giro, in quanto sia le università che paga lo stipendio che l’Inpdap che eroga la pensione sono finanziati attraverso la fiscalità generale. Infatti, assecondando la proposta di "rottamare" il sessantenne per assumere un "giovane", il contribuente dovrebbe pagare il doppio, cioè sia lo stipendio al neo assunto che la pensione al "baby pensionato" (a 65 anni non si è affatto vecchi!).

  11. MORSELLI ELIO

    Si vuol chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. E’ stato sbagliato il sistema del reclutamento dei professori (a partire dal 1980) ed ora rimediare non è più possibile. I docenti di scarso valore nominati in nome della mediocrazia, al posto della meritocrazia, sono ormai troppi e ci rimangono. Si vuole mandarne via anticipando l’età del pensionamento, e in tal modo far posto ad ulteriore reclutamento con lo stesso sistema? A parte il fatto che l’anticipato pensionamento non fa che aumentare le spese dello Stato (se non sbaglio, le pensioni "costano") – tanto è vero che questa è la principale ragione per cui si era consentita l’andata in pensione fino ai 72 anni – come si fa a sostenere che la percentuale dei professori degni di essere dichiarati "professori emeriti" sia soltanto del 5% degli ordinari di ogni Facoltà? In una Facoltà di 30 professori ordinari, solo uno lo meriterebbe, mentre gli altri 29 sarebbero da dichiarare superflui per decadimento mentale dovuto all’ età?

  12. Nadia

    Non posso che condividere l’analisi presentata in questo contributo. Mi permetto di aggiungere un ulteriore elemento e cioe’ che la stragrande maggioranza dei "baroni", qui intesi come coloro che prendono decisioni per la quasi totalita’ del corpo docente, sono proprio gli ordinari ultrasessantenni (forse anche ultrasessantacinquenni). Se veramente il nostro attuale governo volesse dare un colpo alle "baronie" con tutte le relative denegerazioni piu’ volte (ma solo a parole) stigmatizzate, sarebbe quasi sufficiente imporre come eta’ pensionabile i 65 anni. E una buona dose di baroni/baronie scomparirebbe dal sistema universitario! Per inciso mi permetto di notare che negli anni passati, i "baroni" promuovevano in genere i loro studenti migliori. Ora, essenzialmente parenti e opachi portaborse.

  13. marcello

    Siamo certi che l’età è un indicatore per valutare un docente o ricercatore universitario? Bisogna fare spazio ai giovani? Senza dubbio, ma quanto li paghiamo i giovani brillanti che scelgono di fare università’? Un Ordinario appena confermato è pagato 2.300€ (netti). In effetti si tratta di un patto sociale: fino a 40 anni guadagni poco ma rimani al lavoro fino a 70. Il problema dell’università non è quantitativa (età pensionabile, ore di lavoro) ma qualitativo. Per migliorare l’università ci vogliono più risorse finanziarie. La domanda chiave è: come distribuirle? E come motivare chi dedica la propria vita allo studio ed ha la responsabilità di formare la classe media e, si spera, la classe dirigente del paese? Chi si ricorda in Italia della strategia di Lisbona (anno 2000): "diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale." I confronti con l’Europa non reggono se non si contestualizzano i dati all’interno di modelli diversi. Quante risorse pubbliche e private si investono negli altri paesi europei nell’Università?

  14. decio

    Il professore ordinario deve andare in pensione tardi, piaccia o no, fa parte delle regole del gioco. Lo deve fare per mantenere il potere. All’estero c’è il sistema basato sul principio "Io sono il direttore del dipartimento e per ricevere tanti soldi o pochi soldi dallo Stato, e quindi essere responsabilizzato e giudicato per la ricerca che il mio dipartimento produce, devo essere libero di assumere chi voglio io!". Siccome in Italia vige ancora il sistema dei concorsi pubblici, l’ordinario anziano deve "esserci". Semplice no?

  15. Alessandro Figà Talamanca

    Un fattore importante nell’aumento del numero degli ordinari è stata l’abolizione (1994) dell’organico nazionale. E’ difficile pensare ad un ritorno all’organico nazionale e credo difficile e potenzialmente dannosa una riforma legislativa in questo ambito. Tuttavia la tendenza già in atto alla diminuzione del numero degli ordinari potrebbe essere incoraggiata attraverso una riforma della scala stipendiale che renda costosa da subito, e non solo dopo tre anni, la promozione di un associato anziano ad ordinario, e attraverso l’applicazione seria della previsione di concorsi con una sola idoneità, applicata finora a singhiozzo. Si tornerebbe alla scelta tra mancata promozione in una sede gradita e promozione in una sede disagiata.

  16. un ultravecchio

    Più che ringiovanire l’università, sarebbe necessario elevarne la qualità, il che si potrebbe forse ottenere introducendo più concorrenza e abolendo valore legale dei titoli. Ma soprattutto prima di ridurre l’età pensionabile dei professori occorrerebbe rammentare che con l’aumento della vita media: tutti devono andare in pensione più tardi. Mi sembra un pò demagogico citare il costo dei professori, senza considerare quello che costa la loro andata in pensione prematura.

  17. enrico

    Ma basta con questo accanito attaccamento allo status quo che si legge in alcuni commenti! Quando succedera’ in Italia che per migliorare le cose una piccola frazione di cittadini (gli ordinari vecchi in questo caso) si prenda l’onere di un piccolo sacrificio (cioe’ andare in pensione e godersi la vita che rimane loro…). Qualcuno dice che a 65 non si e’ affatto vecchi. Qualcuno dice: sono entrato di ruolo a 40 anni, fatemi godere la scalata al potere (e poter pagare i contributi). Ma vogliamo confrontare il numero di pubblicazioni dei 50-60-70 enni con quello dei giovani ricercatori? Il sistema universitario italiano fa vergogna se paragonato al resto dell’Europa. E l’unico modo per migliorare e’ con manovre forti, che scontentino molti. Non bisogna inventarsi proprio nessun marchingegno macchiavelico per far funzionare l’universita’. Basta copiare i sistemi in vigore nel resto d’Europa. Abolire i concorsi, dare i finanziamenti ai meritevoli, ecc. ecc. Lo so, queste cose le sanno e le dicono tutti. Ma nulla cambiera’ mai…

  18. Giovanni

    Difficile credere che un professore a 65 anni sia la massimo della sua produttività. Ciò che doveva fare lo ha già fatto direi.Valgono però importanti distinguo: sia da persona a persona, sia da disciplina a disciplina. Se nelle materie umanistiche è facile che l’esperienza conti molto, nelle materie scientifiche (diciamo matematica) un prof. di 65 anni non ha più molto da dare. Il paragone con l’estero funziona se si tiene conto che non esistono sistemi "perfetti", ma solo gente che fa funzionare i sistemi. Chi merita una cattedra perché vale, è difficile che venga pensionato, in Italia come altrove. Il punto è far selezione, e dar spazio al rinnovamento. Il fatto che tutto ciò costi allo Stato è un falso problema, perché chi ha maturato la sua pensione ha il diritto di riscuoterla (son soldi suoi, no?).

  19. Ivano Gregorini

    Lo snodo cruciale della questione, a mio avviso, è quello di creare un trade off fra anzianità, intesa come saggezza, profondità del sapere, bagaglio culturale ed esperienziale accumulato ed efficienza, ossia sulla capacità di mantenere, da parte di un docente anziano, le stesse capacità di brillantezza e di "uso" delle risorse di esperienza e del sapere accumulate. Problematica sicuramente non facile. Si cominci con mettere dei paletti, per principiare: oltre i sessantacinque anni esclusione del professore dalla docenza e pensionamento obbligatorio. Dopo tale età è evidente come le capacità dell’uomo vadano abbassandosi: un ordinario di 70 anni, lo si stabilisca, non è più in grado di reggere la vita accademica. Salvaguardia dei cervelli (quelli veri) mediante figure professionali ad hoc, magari nel ruolo di consulenti esterni agli atenei, oppure di emeriti: ruolo a creazione democratica, accesso alla figura professionale mendiante voto dei colleghi ordinari. Il punto è prolungare la carriera alle persone cui sia utile farlo e non c’è metro migliore che quello di una valutazione dei colleghi: i giovani hanno uno strumento per silurare gli anziani.

  20. am

    E’ molto difficile valutare quando un docente non può dare più nulla all’università. La soglia non solo varia da disciplina a disciplina, ma anche da persona a persona (anche a motivo delle condizioni di salute ed in particolar modo della funzionalità cerebrale). Ho conosciuto docenti e manager che alla soglia dei 70 anni erano ancora lucidi e più attivi di molti trentenni. Sotto l’apetto di onere per le finanze pubbliche è solo una partita di giro: si passa dallo stipendio alla pensione; nel mio caso la pensione è superiore all’ultimo stipendio. Rimane l’aspetto del "potere" nell’università, un aspetto che può essere regolato in altro modo senza mandare in pensione docenti ancora in piena forma con spreco di esperienze, conoscenze e contatti personali maturati in tanti anni. Questi docenti andando in pensione possono tuttavia – se lo vogliono – continuare a prestare las loro opera disinteressatamente. Esiste infatti la figura del Professore emerito, ma le varie università e facoltà seguono politiche diverse e spesso procedono in base a simpatie personali e non in base a regole precise. Contrariamente all’autore, sarei favorevole ad un allargamento della fascia degli "emeriti".

  21. Paolo Marcotti

    In effetti, caro Caputo, un ordinario a fine carriera costa 150-160.000 euro. Io sono contrario al pensionamento anticipato per tutti a 65 anni, perché molte persone hanno sicuramente ancora molto da dare. Ma che ci sia un limite rigoroso a 70 anni lo ritengo fortemente auspicabile, e il fatto che la normativa vada in questa direzione lo trovo salutare. Un ateneo di medie dimensioni (io lavoro in uno grande con numeri superiori), potrebbe, trattenendo per 3 anni in meno una cinquantina di questi signori, "risparmiare" oltre 20 milioni di euro. E’ una cifra enorme, soprattutto in vista di tagli molto ingenti al FFO, a fronte di una "perdita" tutto sommato limitata. Tuttavia, la creazione di forme originali (e che esulano dal lavoro dipendente) per trattanere "in servizio" le personalità (realmente!) più brillanti, soprattutto al fine di mettere il loro bagaglio al servizio dei giovani (e senza incarichi negli organi), sarebbe un ulteriore segnale di un sistema che non perde buone occasioni per migliorarsi.

  22. Marco Reale

    Il vero problema è che in Italia, per via della ampiamente discussa mancanza di meritocrazia, ci sono docenti bravi e docenti meno bravi in tutte le fasce di età. L’ideale sarebbe di togliere i docenti meno bravi (vecchi e non) per far posto ai giovani bravi, ma questo non è possibile. E’ invece possibile rendere meno frequente in futuro che gente meno capace finisca in cattedra. Questo cambiando le regole di assunzione. Personalmete la vedo come Perotti: abolizione concorsi, valutazione ricerca etc. Una riforma del sistema universitario di tipo anglosassone risolverebbe anche i problemi dell’età. Anticipo dell’entrata (meritocrazia piuttosto che fila d’attesa) e mancanza di incentivo a restare in servizio quando in eta’ avanzata poiché non c’è nessun potere da gestire se non la produzione scientifica, che si puo’ fare meglio se non si hanno obblighi didattici e amministrativi. Nei paesi anglosassoni spesso i docenti se ne vanno in pensione anticipatamente se se lo possono permettere proprio per poter avere piu’ tempo per fare ricerca. L’età dei docenti Italiani e’ un effetto e non una causa.

  23. carmelo calì

    E’ possibile studiare gli effetti dello tsunami e della distribuzione delle classi d’età per fasce in termini di equità intergenerazionale? Lo si dovrebbe fare secondo due parametri: quelli promossi dal 1980 ricopriranno, date le attuali norme di pensionamento, un ruolo molto più a lungo di chi è costretto a entrare dopo; quelli che entrano dopo avranno una situazione pensionistica in prospettiva potenzialmente peggiore. Ciò a fronte anche del fatto che (a) le selezioni basate sul merito della produttività scientifica in passato sono state inesistenti, (b) le barriere in entrata per chi aspetta sono disincentivanti con effetti perversi sui modi in cui si è disposti a venir cooptati nel sistema. Un’idea ulteriore: al posto del tetto per il titolo di emerito bisognerebbe forse limitare l’ingresso in commissioni concorsuali.

  24. Lunobi

    Il valore dell’esperienza è certo importante, ma non lo è meno quello della capacità di innovare. E l’università italiana è molto esperta, ma poco innovativa. Si sa che le idee veramente nuove vengono fuori tra i 25 e i 35 anni, quando il cervello è ancora giovane. Ma a quell’età i ricercatori italiani, quasi tutti precari, sono trattati come degli adolescenti, e spesso asserviti ai capricci senili di settentenni che non sanno nemmeno usare un computer. Ogni giorno devono rinunciare a idee forti e innovative per ossequiare idiosincrasie del secolo scorso. Se e quando poi, verso i cinquanta, diventano a loro volta professori, allora sono talmente disillusi che hanno perfino dimenticato perché si erano messi a fare ricerca. Il loro scopo diventa lavorare il meno possibile per maturare una pensione dignitosa. Questa è l’università italiana, degna di un Paese che, ovunque si volga lo sguardo, suscita sincera compassione. Difenderla per maturare i propri contributi, o per far sentire socialmente utili dei vecchietti (come se queste esigenze, pur legittime, valessero l’affossamento dell’intelligenza di un Paese), mi sembra da irresponsabili, per non dire da idioti. Con tutto il rispetto.

  25. Piergiorgio Strata

    In USA, Canada e Australia è illegale la discriminazione in base a sesso, colore della pelle ed età. Ma in questi paesi il numero di ricercatori anziani è molto basso. Perché? Perché la pensione diventa conveniente quando non si ottengono più finanziamenti per la ricerca; operazione meritocratica. In un articolo apparso su Nature (Retire retirement 453:588-590, 2008) si fa rilevare che l’Europa, grazie al pensionamento tra i 60 ed i 70 anni, fa perdere ingenti risorse intellettuali che utilizzano soprattutto gli americani. In molti paesi europei si concede di continuare a lavorare dopo la pensione, ma conservando i diritti di accesso ai finanziamenti ed all’utilizzo delle infrastrutture. La proposta di un 5% di Emeriti mi sembra un buon compromesso data l’attuale situazione italiana, purché la selezione sia meritocratica. La nomina non deve essere un Premio per quanto fatto, ma basata sulle potenzialità di pubblicare ad alto livello ed ottenere finanziamenti soprattutto dall’estero. Inoltre all’Emerito va concesso di conservare pieni diritti come negli altri paesi europei.

  26. am

    La proposta di un limite del 5% per i professori emeriti rispetto agli ordinari di ogni facoltà mi sembra ingiusta. In tutti i paesi vi sono atenei prestigiosi, punto di arrivo per le carriere dei docenti migliori, e atenei periferici, spesso di recente istituzione, che sono considerati tappe di transito e che accolgono docenti giovani e quindi lontani dal pensionamento. Se si adottassero criteri oggettivi a livello nazionale per selezionare gli "emeriti" la maggioranza degli emeriti si collocherebbe presso le grandi università contro una percentuale minima nelle università periferiche.

  27. Ucle

    L’Ucle ha creato il Comitato per stabilire quanto costa allo Stato e alla meritocrazia la Parentopoli.
    Eventuali abusi e segnalazioni di sperequazioni possono essere inoltrati a consumerdepartment@libero.it

  28. grish

    Il numero di docenti ordinari è stato poi conteggiato da eurispes (il rapporto è datato 30 gennaio 2009) in 18282 invece del circa 20mila, con un calo del 3.6% rispetto al 2007. Forse bisognerebbe pensare al come sia successo che l’età sia così alta. A spanne si potrebbe dire cattiva programmazione nelle assunzioni. D’altronde nella incertezza del domani mi pare si tenda ad assumere tutto l’assumibile. Come risolvere? Prepensionare? Beh allora uno cerca di farsi assumere nel mucchio per poi scucire una superprepensione? Io direi fissando dei parametri di produttività oggettivi: se uno decide di fare il professore fino a a tarda età sappia che dovrà produrre e faticare.

  29. paolo

    Mi domando come ci si possa ancora stupire della situazione di degrado nella quale versano le Università. Non solo degrado culturale, ma anche e soprattutto morale. Ai vecchi baroni si sono sostituiti nuovi baroni, che avevano preso la laurea con il voto collettivo, figli di, parenti di, amici di, iscritti a. Una serie di riforme ha poi loro consentito di accedere direttamente alle cattedre degli Istituti, nel frattempo organizzati in Dipartimenti. Fondi qui, fondi là, da dividersi e inguattarsi a piacimento, non secondo le regole di diritto e meno che mai quelle di merito, ma secondo le regole del più forte, del più amico, del più iscritto. Oggi siamo arrivati agli sgoccioli. La riforma delle lauree 3+2 ha dato il colpo di grazia. Corsi di laurea inutili quanto dannosi con un numero di cattedre triplicate per consentire ai 50enni portaborse di accedere finalmente al ruolo quantomeno di associato, con gli studenti costretti a sobbarcarsi 8-9 esami l’anno in una corsa a ostacoli infinita. Mancanza di preparazione, di studio, di assimilazione. Ah quelle braccia rubate all’aratro! Uno spreco enorme di risorse umane ed economiche. Rimedi? Bloccare il turn-over e introdurre i contratti

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