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Pensioni dei docenti, piove sul bagnato

La proposta di abbassare l’età pensionabile per i docenti universitari dovrebbe favorire i ricercatori più giovani, ma rischia di sortire l’effetto opposto. Non solo è in controtendenza con tutte le riforme relative al mercato del lavoro, ma soprattutto i giovani ricercatori di oggi verrebbero penalizzati: contribuirebbero per cinque anni in meno ricevendo una pensione nettamente più bassa. Se il fine della proposta è ridurre la gerontocrazia negli atenei si devono percorrere altre strade.

La proposta del Partito democratico, che il governo sembra voler far propria, di abbassare l’’età pensionabile per i docenti universitari da 70 a 65 anni dovrebbe favorire i giovani a spese dei vecchi. Non è così.
Non solo mandare in pensione prima gli attuali sessantacinquenni è in controtendenza rispetto a tutte le riforme che favoriscono la partecipazione al mercato del lavoro degli anziani, non solo non fa risparmiare soldi alle casse pubbliche nel loro complesso, ma chi veramente pagherà il costo di questo cambiamento sono tutte le generazioni successive, inclusi gli attuali giovani ricercatori.
Il motivo di questo paradosso è legato ai diversi regimi pensionistici che attualmente operano.

DUE SCENARI, ALCUNE STIME

Gli attuali sessantacinquenni sono per lo più coperti  dal vecchio regime retributivo. Per costoro, una volta raggiunti i 40 anni di contributi (compresi eventuali riscatti di anni della laurea etc.), la pensione rappresenta il 75-80 per cento dell’’ultima retribuzione, indipendentemente dall’’età di pensionamento. Ma i sessantacinquenni di un futuro ormai prossimo avranno una parte sempre più grande di pensione calcolata col metodo contributivo, e ogni anno in meno di contribuzione riceveranno una pensione sensibilmente più bassa.
Per chiarire gli effetti della proposta sulla generazione di mezzo, quella che per prima è soggetta per intero al regime pensionistico previsto dalla legge Dini (con tutte le sue successive modifiche), abbiamo preso in considerazione un ipotetico giovane che nel 1995 (o in qualunque anno successivo) ha cominciato la carriera universitaria: per i primi dieci anni è ricercatore universitario, poi per dieci è professore associato e per i restanti anni è professore ordinario. Abbiamo ipotizzato che il giovane in questione cominci la sua carriera a 30 anni:– è tipico della carriera universitaria cominciare dopo il dottorato di ricerca (in Italia o all’’estero) e qualche anno di esperienze post-doc (borse, assegni di ricerca, e così via).
Al nostro ipotetico giovane abbiamo applicato le retribuzioni in vigore nel 2010, ed abbiamo ignorato gli effetti della manovra economica, attualmente all’’approvazione del parlamento, e discussa nel pezzo di Baldini e Caruso. Abbiamo considerato due scenari, un primo in cui la crescita dell’’economia è dell’’1,5 per cento annuo, un secondo in cui la crescita è dell’’1 per cento annuo.
I risultati con l’’età di pensionamento a 70 anni sono in linea con le aspettative: il tasso di rimpiazzo, e cioè il rapporto fra la pensione percepita e l’’ultima retribuzione, è compreso fra il 62 per cento (se l’’economia cresce di più) e il 57 per cento (se l’’economia cresce di meno). Il nostro giovane ricercatore ha già la sfortuna di appartenere ad una generazione in cui gli effetti della riforma Dini si sentono appieno.

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GIOVANI OGGI. ANZIANI DOMANI

Abbassare l’’età di pensionamento di cinque anni ha due effetti negativi per il giovane ricercatore: da un lato può contribuire solo 35 anni, dall’’altro perde le retribuzioni più elevate previste per gli ultimi anni di carriera, per effetto dell’’anzianità di servizio. In entrambi gli scenari considerati, la pensione percepita è di circa il 20 per cento più bassa rispetto al caso in cui si va in pensione a 70 anni. I tassi di rimpiazzo si riducono meno che in proporzione, perché l’’ultima retribuzione è più bassa a 65 anni rispetto ai 70 anni: in un caso (crescita all’’1,5 per cento) il tasso di rimpiazzo è del 53 per cento, nell’’altro (crescita all’’1 per cento) è del 49 per cento.
Non è quindi corretto presentare la proposta di abbassare l’’età pensionabile come una riforma a favore dei giovani: i giovani di oggi sono gli anziani di domani, e costringere tutti ad andare in pensione prima per allontanare gli anziani di oggi dal lavoro penalizza prevalentemente proprio i giovani.
Non ci sembra che questa proposta sia la soluzione ai problemi dell’’università italiana. Se lo scopo della proposta è quello di ridurre la gerontocrazia nell’’università, è preferibile considerare altre ipotesi, che riducano il potere accademico degli ultra-sessantacinquenni (specie se improduttivi nella ricerca!), e che nello stesso tempo offrano più opportunità a chi nelle generazioni successive fa buona ricerca.

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La risposta ai commenti

24 commenti

  1. Corradini

    Gli autori spostano il calcolo dei benefici nel lungo periodo (ovvero quando gli attuali ricercatori andaranno in pensione) facendo finta di non vedere che il pensionamento degli ultra-sessantacinquenni serve per consentire oggi a chi vuole accedere al ruolo di ricercatore di poterlo fare. Senza questa misura, e visti i tagli ai finanziamenti pubblici, la scelta dovrebbere essere meglio espressa in questi termini: signor Rossi, aspirante ricercatore, preferisci aumentare le tue chance di entrare in università a costo di una pensione leggermente più bassa mandando in pensione chi ha più di 65 anni (o la parte improduttiva di questi), oppure preferisci cercarti fin da subito un altro lavoro (quale?) a 40 anni suonati (con la certezza di una pensione decisamente più bassa di quella che prenderesti come accademico)? Suvvia il gusto del paradosso lo capisco, ma non esageriamo.

  2. Marcello Romagnoli

    Concordo con quanto esposto dagli autori. Forse perché sono proprio uno di quelli trattati nell’esempio? Forse, ma anche perché sono contro a questo giovanilismo imperante. Fanfani ebbe a dire che "si può essere è bischeri anche a 18 anni", ed è vero. Io sarei per un sistema che fa monitoraggio per tutta la carriera di lavoro e allontana chi non produce più, anche se è giovane, ma mantiene chi produce, anche se è vecchio. Il mio ragionamento è troppo rivoluzionario?

  3. Fabio Avallone

    Chiedo scusa, ma l’argomentazione che si espone in questo articolo mi sembra a dir poco banale. Confrontare le pensioni che percepiranno due lavoratori in un sistema retributivo (a prescindere dal settore di impiego) dei quali uno vanta 40 anni di contributi versati e l’altro 35 mi sembra una operazione inutile e scontata. Mi sarebbe piaciuto leggere, invece, che impatto avrebbe sull’attuale sistema universitario anticipare a 65 anni l’uscita degli attuali professori. Chi dice che si tratta di una riforma per i giovani, infatti, si riferisce (ovviamente) alla opportunità di entrare nel mondo accademico per chi in questo momento è fuori e alla possibilità di accedere ai posti di associato e di ordinario per chi è oggi ricercatore. Anche a voler rimanere sull’argomento della quantificazione del trattamento pensionistico, la domanda da porsi è "quanto influirà sulla pensione di domani di un ricercatore di oggi il fatto che diventi professore associato 5 anni prima o dopo"? E non parliamo in termini percentuali, ma in termini assoluti. I due autori, invece, (forse condizionati dalle proprie personali prospettive?) si limitano ad una considerazione assolutamente pleonastica.

  4. Sergio Ascari

    Conosco di prima mano il mondo universitario anche se non ne faccio più parte direttamente, e francamente non credo che i ricercatori e docenti decidano in base alle aspettative (razionali?) circa il tasso di rimpiazzo che avranno a fine carriera. In quasi tutti i settori lo stipendio universitario finisce per diventare una parte, spesso minore, del reddito totale. Ad es. nel mondo medico appena uno si può mettere prof. davanti al nome alza le tariffe delle prestazioni private. Concordo invece con la fine dell’articolo, e con Giavazzi sul Corriere: meglio per esempio escludere gli over65 dalle commissioni d’esame ecc.

  5. luciano pilotti

    Condividendo la proposta di pensionamento dei docenti universitari a 65 (soprattutto per quelli a bassa produttività scientifica) ma valutando con attenzione anche le analisi simulative di Brugiavini-Weber mi domando e domando loro se un recupero contributivo degli anni di laurea e di dottorato a fini pensionistici e non solo di età pensionabile (incentivati in qualche modo e dunque costosi ma in parte finanziati con il taglio dovuto all’uscita per gli aventi diritto a 65-67 anni ma con 40 anni di anzianità) potrebbe consentire di rimuovere il limite di raggiungibilità dei 35 anni per i giovani che si troverebbero allo stato attuale "in ritardo" rispetto alla progressione di carriera e al livello della pensione di uscita attesa. Inoltre, INoltre, in questa fase transitoria se l’uscita fosse a 67 (come in alcuni paesi europei) invece che a 65 la situazione potrebbe cambiare in termini di incentivi per i giovani ricercatori in un orizzonte temporale dei prossimi 20 anni? grazie Luciano Pilotti

  6. P. Z.

    Mi pare che la stima fatta poggi sull’ipotesi che l’ipotetico professore vada in pensione con 35 anni di carriera contributiva. Ignorando che gli anni di laurea possono essere riscattati e che anche gli anni di dottorato sono coperti da contributi. Personalmente a 61 anni ne ho 42 di contributi. L’obiettivo di svecchiare l’università mi sembra giusto; se lo si condivide si facciano proposte alternative serie e non si smontino surrettiziamente quelle in campo.

  7. Antonio ORNELLO

    Se anche gli anziani con ben più di 35 anni di contribuzione potessero essere pensionati con il contributivo, allora sì che vedreste lo svecchiamento! Si tratterebbe di un’equazione che anche voi vorreste, dite la verità! E’ del tutto evidente, invece, che i vecchi, con più di 18 anni di contributi alla data del 31/12/95, non molleranno – potendo – fin quando saranno obbligati al retributivo da una legislazione ingiusta, fonte di sperequazioni incostituzionali, che non permette di riprendersi equamente quanto versato. Cui prodest? Non per nulla, lavoratori autonomi e donne a parte, i dipendenti pubblici e della scuola che superino 40/41 anni di contributi vengono deposti!

  8. federico

    L’articolo dice giustamente che il rischio di abbassare l’età pensionabile da 70 a 65 anni è quello di dare ai giovani di oggi una pensione troppo bassa quando (fra 35-40 anni) andranno in pensione. Tuttavia, mi pare eccessivo rifiutare la proposta perché si vorrebbe evitare un problema che si verificherà tra 40 anni. L’articolo non riflette su un’altra cosa. Impedire al giovane di oggi di versare i contributi, per ancora 5 anni e permettere a chi oggi ha 65 anni e potrebbe andare in pensione di lavorare “ancora 5 anni”, significa privarlo di 5 anni di contributi: impedirgli di cominciare ad avere un reddito e quindi di versare i contributi per favorire degli anziani che potrebbero ritirarsi oggi con una pensione più che dignitosa dovrebbe proprio portare a quello che l’articolo paventa: una pensione più bassa per il giovane di oggi quando sarà pensionabile. Fra 35-40 anni, quando il giovane di oggi avrà 65 anni, eventualmente si deciderà di alzare il limite pensionabile. Oppure il giovane negli anni si pagherà una pensione integrativa. Come stanno facendo tutti i giovani di tutte le altre categorie contrattuali.

  9. marco

    Quante altre categorie professionali sosterrebbero volentieri questa proposta? Alla fine tutti quelli che guadagnerebbero parecchio da un innalzamento dell’età pensionabile. E sempre meno giovani troverebbero spazio in ingresso. Meglio favorire tutte le strade per consentire l’accesso in carriera ai giovani migliori qualche anno prima degli ipotizzati 30 di età media.

  10. alfonso lavanna

    Fare un esempio o una proposta sarebbe molto utile.

  11. Franco UNIVERSALE

    Effettivamente la proposta del PD appariva favorevole ai giovani e confacente a contrastare la spinta del centro destra ad allungare l’età pensionabile. Ma le osservazioni degli autori hanno il pregio di aver messo in chiaro la questione, svelandone gli effetti dannosi e gettando l’ennesimo dubbio sull’avvedutezza di questa opposizione istituzionale, incapace di incidere radicalmente contro la devastante destrutturazione del pubblico perseguita dal governo Berlusconi. Complimenti agli autori e grazie.

  12. Francesco Rocchi

    Al di la’ dei calcoli, a me preme sottolineare che questa operazione sarebbe l’ennesima ope legis. Anche se in chiave giovanilistica, passerebbe ancora una volta il principio che a governare l’universita’ italiana siano automatismi burocratici e non il merito. Una volta di piu’ si prescinde dalle persone e dalla loro produttivita’ per considerare soltanto la massa delle categorie, i numeretti, le esenzioni, i cavilli. L’elasticita’ e l’adattabilita’ non sono mai contemplate. E’ un modo di ragionare medievale.

  13. Sand

    La riforma Dini ha diviso i lavoratori in due categorie: quelli che hanno "conquistato" i diritti e quelli che devono pagare le conquiste. Ma visto da ragionieri il sistema tiene, tiene il totale della spesa, la perequazione interessa poco. Questo significa che quando la maggioranza parlamentare sarà composta dai lavoratori che stanno pagando il conto, allora si cambierà la legge, magari aumentando la tassazione sulle pensioni "privilegiate". Una provocazione per dire che l’unica perequazione sociale garantita è quella che passa attraverso un’avvicendamento più veloce nelle professioni pubbliche di potere: università, sanità, magistratura. Lasciamo fuori la classe politica, dove l’avvicendamento dovrebbe essere garantito al massimo dopo due tre mandati. Quando parliamo di primari, magistrati e professori universitari non parliamo di sistema pensionistico, ma di sistema paese. Ma questo non significa fuori gli ultra65enni; al contrario, abbiamo bisogno di saggi, da consultare gratuitamente per far crescere i giovani, ma le scelte sul futuro appartengono a quest’ultimi, perlomeno vanno negoziate e non riservate a chi l’unico futuro lo vede solo nello scatto dell’ultimo contratto.

  14. Stefano

    Sono un giovane ricercatore e sono sostanzialmente d’accordo con gli autori. Con il sistema contributivo a cui siamo assoggettati non ho versato un euro di contributi durante laurea e master. I contributi versati durante il dottorato e l’assegno di ricerca sono parziali e non frutteranno quasi nulla. Sono in disaccordo, invece, con il signor P.Z.: come tutte le persone anziane non si rende conto che il riscatto degli anni di laurea oggi si puo’ fare, ma costa il quadruplo di trent’anni fa. Mio padre ha riscattato gli anni di laurea con quattro soldi, oggi ti chiedono uno sproposito senza peraltro sapere quanto ti daranno in futuro. Io, come molti altri giovani, ci ho rinunciato. Per quanto mi riguarda avro’ bisogno di lavorare fino a 70 anni per non finire in miseria. Senza considerare che tra trent’anni sara’ considerato assolutamente normale lavorare fino a 70 anni, quindi non vedo perche’ solo per i professori, che hanno sprecato 10 anni (fino ai 30) a studiare, bisogna fare questa eccezione. Io piuttosto toglierei tutti i poteri amministrativi ai professori con piu’ di 60-65 anni e li costringerei ad insegnare moltissimo, visto che dopo i 60 di ricerca non se ne fa praticamente piu’.

  15. Luca Schiaffino

    Mi sembra proprio di no. La proposta PD dice 65 anni e 40 anni di contributi, dunque il vostro ipotetico giovane potrà chiedere un posticipo del pensionamento per maturare i 40 anni di contributi e la vostra stima perde completamente di significato. Che senso ha discutere proposte che nessuno ha mai avanzato? Prima leggere, poi commentare. Mai commentare ciò che non si è nemmeno letto!

  16. Serena Fagnocchi

    Credo che le proposte avanzate per "favorire i giovani" siano piuttosto demagogiche e superficiali. E le ipotesi di partenza ottimistiche: la stima di ingresso a 30 anni, per mia esperienza, è da spostare in avanti più vicino ai 40 che ai 30. E’ vero come commenta qualcuno che avrebbero già iniziato a contribuire, ma spessso all’estero, gli anni di dottorato contribuiscono, ma parzialmente, il riscatto degli anni universitari è esoso (a me per 4 anni nel 2001 chiesti circa 60mila euro, chi ha una cifra simile?). Poi da qui a 40 anni chissà che cambiamenti/allungamenti verranno inseriti nel sistema pensionistico. La proposta di abbassare l’età pensionabile dei professori universitari a 65 anni potrebbe avere un effetto di sbloccare risorse verso i giovani solo se venisse accompagnata dall’obbligo di riutilizzare tali fondi per assumere ricercatori, e non per esempio per scatti di carriera (promuovere da ricercatori ad associati o ordinari). Tale è una pratica piuttosto diffusa, che porta in Italia ad un sostanziale rovesciamento della piramide (base-ricercatori, punta-ordinari) con effetti negativi sul funzionamento e la qualità delle nostre università.

  17. mirco

    La pensione è legata a una persona non ad un algoritmo di matematica finanziaria. Io abolirei la riforma Dini. Una società civile si deve preoccupare indipendentemente dai contributi versati di dotare un pensionato di una pensione che gli permetta di vivere decentemente la vecchiaia. Ecco perchè io manderei in pensione i gerarchi universitari e considererei una rifirma pensionistica legata si ai versamenti, ma integrata con le tasse di tutti, non solo considerandola come salario differito legata alla speranza di vita. In questo modo, infatti, si arricchiscono le finanziarie che impacchettano pensioni private che sono fregature e che poi non sono sicure, vedi l’esperienza dei fallimenti, anche giganteschi, degli scorsi anni. Ma pagano sempre i più deboli.

  18. Saverio Soldi

    Il testo dimostra che chi e’ pensionando gode di un trattamento estremamente favorevole rispetto a chi e’ entrato in ruolo con la riforma Dini. Questo lo sanno tutti. Quello che consegue dal ragionamento degli autori e’ che i professori debbano avere uno stipendio a vita. Ai professori non dispiacerebbe, tanto, chi li controlla a quell’eta’?

  19. CARLO PAESANI

    Quello che è scritto nell’articolo è vero, ma è anche vero che alcuni giovani non hanno la possibilità di entrare in ruolo se non dopo i 30 anni; quindi è vero che la loro pensione sarà più bassa con l’abbassamento dell’età pensionabile ma almeno possono arrivare a prenderla. Io personalmente sono docente di scuola superiore e dopo aver vinto un concorso ordinario sono entrato in ruolo a 36 anni …..

  20. Andrea Capocci

    È poco credibile un’analisi che prescinde dal contenuto della proposta, che come ha sottolineato Luca Schiaffino non è quella analizzata dagli autori. A questo punto c’è da chiedersi se si tratti della solita italica approssimazione in buona fede, o di deliberata malafede.

  21. cristina pennacchio

    Beh, prima di pensare a quando i giovani ricercatori di oggi saranno anziani, forse si dovrebbe pensare a farli sopravvivere oggi, questi giovani ricercatori, di cui molti ancora precari, per esempio favorendone l’entrata in ruolo, in modo che possano almeno aspirare ad una miserrima pensione… che, con tutti gli effetti deleteri del pensionamento degli attuali anziani a 65 anni, sarebbe sempre meglio della nulla pensione di cui godrebbero mantenendo lo stato attuale..

  22. Andrea DE PETRIS

    Trovo che l’articolo sia profondamente ammantato di ipocrisia, spacciando per un bene per i giovani quello che invece a tutti gli effetti è un tentativo di procrastinare il più possibile i privilegi dei vecchi. Perché a 70 anni, ma anche a 65, si è vecchi per il mondo del lavoro, e soprattutto per la ricerca. O vogliamo dire che le innovazioni oggi le fanno gli ultrasessantenni? In Germania i professori vanno in pensione a 65 anni e a 40 o sei ordinario o sei fuori: quindi merito, sì, ma anche più spazio in entrata alle nuove generazioni. L’articolo soprattutto trascura la principale ipocrisia del sistema: i professori attuali vogliono andare in pensione a 70 anni non perché amano fare didattica (a quell’età non ne possono più), non perché temono per la pensione (con il loro regime hanno ben poco da temere, e poi ci saranno sempre consulenze e altri incarichi ad arrotondarne le entrate), ma perché uscirebbero prima dal giro dei concorsi universitari, perdendo il potere, che ai baroni interessa almeno quanto le entrate percepite. Andrea, 40enne precario dell’università.

  23. renato foschi

    Ci sono solo un paio di proposte che vogliono soprattutto i precari e i ricercatori più giovani. 1- il pensionamento a 65 anni con contribuzione minima 40 anni 2- il ruolo unico del professore universitario che elimina verticismo e controllo dall’alto dei più giovani Le risposte della maggioranza degli ordinari (anziani) sono negative, alcuni quasi sbeffeggiano tali proposte. Questo è il caso della proposta del prepensionamento i cui limiti però non sono per nulla colti dagli autori dell’articolo volti solo a sminuire la portata comunque modernizzatrice della ipotesi. Occorre chiedere accanto al pensionamento a 65 anni le seguenti condizioni 1- revisione del montante contributivo per coloro che entrano in ruolo adesso (la media di entrata in ruolo non è trent’anni bensì…quasi 40!). 2- Riutilizzo totale delle risorse per assunzioni di giovani precari e progressioni di carriera. La proposta del PD è perfettibile ma è assolutamente meglio dell’esistente. Non si capisce proprio perché occorre difendere il pensionamento intorno ai 70 anni quando all’estero tutti i professori universitari vanno in pensione fra i 65 e i 68 anni. Inoltre i pensionandi avrebbero pensioni dignitose.

  24. alias

    Sarò irriverente, penso al film, in cui Eddy Murphy sperimenta sul suo criceto e poi su di sé un dimagrante strepitoso che però moltiplica l’aggressività… buon esempio di obiettivo ragionevole (togliere ciccia) perseguito col mezzo sbagliato … Trovo strano che i professori di oggi difendano lo status quo vendendo l’idea che i professori in pectore di domani ci rimetteranno, non potendo guadagnare (e versare contributi) per gli ultimi 5 anni di carriera, e riceveranno quindi una pensione inferiore. Intanto, questo purtroppo succede un po’ dappertutto (lavoro privato e pubblico), visto il sistema contributivo che ha soppiantato in parte o tutto il retributivo. Se fossi precario, intanto vorrei entrare in carriera, e poi penserei alla pensione .. e se mi si dicesse di aspettare e non preoccuparmi, tanto domani (o dopo) potrò lavorare più a lungo per versare più contributi, e se me lo dicesse uno del mestiere, che non vuol mollare, lo troverei un parere interessato. Mi pare una classica difesa di privilegi, chi già guadagna redditi rispettabili (e li manterrà in pensione) non vuol sentir parlare di cambiamenti. la solita legge di Murphy…

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