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COME CAMBIA LA CONTRATTAZIONE

Il nuovo accordo quadro sulle regole della contrattazione comporta un conto salato per il resto dei contribuenti e per i lavoratori una copertura contro l’inflazione inferiore rispetto al vecchio modello. E non è affatto detto che, attraverso la sua applicazione, si sviluppi la contrattazione di secondo livello. Proponiamo qui una soluzione che ha il pregio di non confondere la copertura contro l’inflazione con la ricerca di un legame più stretto fra salario e produttività. Perché sono due problemi diversi che vanno affrontati con strumenti diversi.

Da undici anni i lavoratori italiani aspettano una riforma delle regole della contrattazione. Lunedì 22 gennaio Confindustria, governo, Cisl, Ugl e Uil e un ampio numero di associazioni di categoria hanno raggiunto un accordo quadro. L’accordo non è stato firmato dalla Cgil, il che non ne faciliterà certo l’attuazione. Ma è nondimeno opportuno interrogarsi sui suoi contenuti per capire quali sarebbero i suoi effetti nel caso venisse messo in pratica.

TRE ASPETTI CRUCIALI

Preferiamo anticipare subito i tre principali rilievi cui ci porta lo studio dei contenuti dell’accordo. Primo, implica un conto salato per il resto dei contribuenti. Secondo, garantisce una copertura contro l’inflazione inferiore rispetto al vecchio modello. Terzo, non è affatto detto che, attraverso l’applicazione del nuovo modello, la contrattazione di secondo livello prenderà piede. Per facilitare tale obiettivo, proponiamo un’alternativa che ha il pregio di non confondere la copertura contro l’inflazione con la ricerca di un legame più stretto fra salario e produttività.

IL CONTO SALATO DEGLI INCENTIVI FISCALI

Il piatto forte dell’accordo dovrebbe consistere, secondo i firmatari, nell’aumento della contrattazione aziendale, dove gli aumenti di produttività sono generati, invertendo la tendenza in atto al suo declino. Lo sviluppo della contrattazione aziendale dovrebbe essere stimolato dagli incentivi fiscali, destinati a diventare permanenti, e dall’abbassamento della quota di salario determinata dalla contrattazione centralizzata. Vediamo come questi effetti dovrebbero operare, prima di interrogarci sulla loro efficacia nello stimolare la contrattazione integrativa.
Gli incentivi fiscali applicano una cedolare secca del 10 per cento agli incrementi salariali decisi dalla contrattazione di secondo livello. Il vantaggio fiscale è importante ed è quindi probabile che una componente crescente del salario venga spostata, anche solo in modo fittizio, al regime più vantaggioso per il datore di lavoro e il dipendente. Nessuno, neanche il governo presente al tavolo negoziale, sembra essersi posto il problema di chi finanzierà queste minori entrate. Anche ipotizzando che non ci sia elusione fiscale, la riduzione delle entrate potrebbe essere consistente. Se prendiamo per buoni i calcoli del Centro studi Confindustria, nel 2012 il vantaggio fiscale per dipendente sarà di circa 250 euro. Moltiplicato per il numero di lavoratori dipendenti, implica una riduzione delle entrate di quasi 4 miliardi di euro, quasi un terzo di punto di Pil; con lo stesso costo si sarebbe potuto estendere il sussidio di disoccupazione a tutti i lavoratori precari o finanziare quasi interamente un reddito minimo garantito. Importante notare che i vantaggi fiscali sarebbero concentrati nelle aziende dove si svolge la contrattazione integrativa, oggi le grandi imprese con forte presenza del sindacato.

COPERTURA INFERIORE CONTRO L’INFLAZIONE DEL CONTRATTO NAZIONALE

Nel nuovo modello, il contratto nazionale dovrebbe limitarsi alla copertura contro l’inflazione, misurando quest’ultima attraverso l’indice dei prezzi armonizzato a livello europeo (Ipca), depurato dall’andamento dei prezzi energetici. Anche in passato il contratto nazionale garantiva copertura contro l’inflazione utilizzando l’indice dei prezzi al consumo (Ipc) italiano. Quando si parla di copertura da inflazione bisogna differenziare tra copertura ex-ante, al momento del contratto, e copertura ex-post, ottenuta attraverso i conguagli, e il divario tra l’incremento dei salari garantito ex-ante e quello riscontrato alla scadenza dei contratti. La copertura ex ante si è rivelata in effetti in molti casi insufficiente, richiedendo conguagli ex-post, il che significa anche che contratti che durano più a lungo, e l’accordo li allunga da due a tre anni, rischiano di comportare, a parità di altre condizioni, una minore copertura.
Il nuovo modello contrattuale garantirà una copertura inferiore a quella offerta in passato. Il motivo non sta tanto nel cambiamento dell’indice dei prezzi, quanto piuttosto nel fatto che il nuovo accordo prevede l’abbassamento della quota di salario base su cui calcolare la copertura di inflazione. Per comprendere questo effetto occorre distinguere tra retribuzioni contrattuali e retribuzioni di fatto. Le prime corrispondono al livello di retribuzioni medie deciso nel contratto nazionale e sono fornite dall’Istat. Le seconde corrispondono alle retribuzioni percepite dal lavoratore medio, e sono più alte poiché includono straordinari, contratti integrativi e eventuali superminimi aziendali. Sia i dati di contabilità nazionale che i salari medi lordi ottenuti dai dati Inps messi a disposizione dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti, pongono le retribuzioni contrattuali a circa l’85 per cento delle retribuzioni di fatto.
Negli anni passati la copertura contro l’inflazione prendendo come riferimento l’andamento dell’indice dei prezzi al consumo (Ipc) è stata applicata a questa quota dell’85 per cento. L’accordo del 22 gennaio prevede che la quota di salario coperta sia oggetto di “specifiche intese”, con una riduzione che dovrebbe essere mediamente di 5 punti base. In entrambi i casi la copertura verrebbe garantita in buona parte ex-post. Nelle simulazioni qui sotto abbiamo, comunque, ipotizzato che la copertura avvenga senza ritardi, anno per anno. Abbiamo inoltre ipotizzato che la quota di salario coperta con le nuove regole scenda dall’85 per cento all’80 per cento. La tabella mostra che dal 2001 al 2007 la copertura contro l’inflazione utilizzando il vecchio metodo avrebbe garantito circa 250 euro in più.

  2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2000-2007
Vecchia copertura inflazione   517 496 452 486 402 353 428 3.133
Nuova copertura inflazione   319 419 533 505 435 333 356 2.900
BCE (2% su tutto il salario)   419 432 443 457 473 489 504 3.217
                   
Retribuzioni contrattuali di cassa 17.996 18.338 18.704 19.310 19.904 20.386 21.293 21.456  
Retribuzioni di fatto (contabilità nazionale) 20.963 21.592 22.147 22.857 23.643 24.452 25.183 25.701  
IPC (Var. %) 2,9 2,7 2,4 2,5 2 1,7 2 1,7  
IPCA Ex energy (Var. %) 1,9 2,4 3,0 2,8 2,3 1,7 1,8 2,1  
Note:Vecchia copertura(t)= 0,85*Retribuzioni di fatto(t-1)*IPC(t-1); Nuova copertura(t)= 0,8*Retribuzioni di fatto(t-1)*IPCA(t-1); BCE(t)= 0,02*Retribuzioni di fatto(t-1)

 

UNA PROPOSTA ALTERNATIVA

A nostro giudizio la vera ragione per cui non è mai decollata la contrattazione di secondo livello in Italia non è perché il salario nazionale fosse troppo alto, ma perché la contrattazione di secondo livello poteva solo aggiungere al contratto nazionale, il che dissuadeva qualsiasi datore di lavoro dal farla. Solo nelle imprese (sempre meno) in cui c’è una forte presenza del sindacato, si è così svolta la contrattazione decentrata. Non è perciò evidente che abbassando il livello nazionale, aumenti davvero la contrattazione di secondo livello.
Un modo più efficace e più trasparente per incoraggiare la contrattazione decentrata sarebbe quello di coprire ex-ante tutto il salario (anziché solo una quota di questo) dall’inflazione programmata dalla Bce (2 per cento all’anno). Come si vede dalla tabella, questa regola è quella che fornisce maggiore copertura contro l’inflazione. Da notare che interverrebbe senza i ritardi degli altri metodi. Poi si dovrebbe lasciare che una quota del salario sia messa in rapporto con le variazioni della produttività in base a regole decise a livello nazionale per le imprese in cui non si fa contrattazione o azienda per azienda. Copertura dall’inflazione e legame fra salario e produttività sono due problemi diversi che vanno affrontati con strumenti diversi. La regola che lega il salario all’andamento della produttività aziendale, verrebbe applicata ex-post alle imprese in cui, durante il periodo coperto dal contratto nazionale, non sia stato possibile sottoscrivere un contratto di secondo livello. Ad esempio nelle imprese industriali, la regola potrebbe consistere nell’aumentare i salari in proporzione al 50 per cento dell’incremento del reddito lordo operativo pro-capite, al netto dell’inflazione. Ovviamente l’aumento varierà da impresa a impresa e finirà per premiare i lavoratori in virtù degli incrementi di produttività aziendale. Dove invece si svolge la contrattazione aziendale, questa deve contemplare premi di produttività, con regole definite azienda per azienda, che potranno essere sia positivi che negativi.

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  1. Mario Giaccone

    Concordo con gli autori sull’alta probabilità di comportamenti elusivi: già oggi si eroga di prassi il salario di risultato anche se gli obiettivi non sono raggiunti (fra il 60% e il 100% dell’importo massimo), inoltre da 4/5 anni sono ritornati gli aumenti in cifra fissa! Concordo inoltre che sarebbe molto più efficiente destinare quei 4 mld di euro agli ammortizzatori sociali, non solo per ragioni di equità, ma soprattutto per spostare l’intermediazione di manodopera dal canale informale (oggi dominante) a quello formale, pubblico e/o privato secondo regole contrastino azioni discriminatorie: si migliorerebbe la motivazione di chi lavora, coerentement con gli studi di psicologia del lavoro secondo i quali dipendere per lavoro e carriera dai favori di qualcuno (canale informale) peggiora la motivazione perchè soppianta la selezione in base al merito (canale formale). Il vero problema italiano è la bassa produttività: 15 anni di salario di risultato hanno dato pessimi risultati, perchè insistere? se il problema è diffondere la contrattazione aziendale basta incentivare la rappresentanza dei lavoratori: democrazia, qualità del lavoro e intelligenza sono i motori della produttività.

  2. Franco A.Grassini

    Ho l’impressione che gli autori sopravvalutino il danno fiscale: se la contrattazione aziendale avverrà, come mi pare loro stessi riconoscono, nelle imprese medio-grandi i lavoratori da considerare sono molti meno. Dal che deduco che non è questa la strada per dare un minimo a chi ne ha bisogno.

  3. Daniele Fippi

    Personalmente, non concordo con gli autori sugli effetti che la nuova contrattazione avrà. La nuova contrattazione non abbassa la quota di salario stabilita a livello nazionale: il valore base sul quale calcolare gli aumenti oggi in poche categorie c’è. La deroga è semplicemente per garantire a quelle che già lo prevedono, come quella dei metalmeccanici dove c’è il "valore punto", non vengano penalizzate. Inoltre, la nuova contrattazione prevede un meccanismo che dalla scadenza del precedente contratto, riconosca una copertura economica. Gli aumenti prima partivano con grandi ritardi! Col rimando al protocollo firmato dalle sole parti sociali, si stabilisce che le piattaforme vengano presentate sei mesi prima della scadenza per evitare ritardi. In più viene previsto anche il recupero degli scostamenti tra inflazione programmata e reale. Sul secondo livello viene previsto un elemento di garanzia per le aziende dove non si fa contrattazione aziendale. Negli ultimi 15 anni abbiamo assistito ad una diminuzione del secondo livello è vero, ma credo sia dovuto ad una arretratezza culturale sia industriale che di una parte del sindacato che non hanno mai voluto parlare di partecipazione!

  4. Fabio Cecchinato

    Gli scrittori parlano di retribuzioni contrattuali e retribuzioni di fatto, facendo entrare nel secondo straordinari, contratti integrativi e superminimi. Quindi, sostengono che il nuovo indice si applicherà solo alla parte fissa dello stipendio. Da qui i calcoli della poca convenienza dell’accordo sugli assetti contrattuali. Leggendo l’accordo, e per quanto riguarda il pubblico impiego, si parla invece più precisamente di applicazione del nuovo indice IPCA alle ‘voci di carattere stipendiale’, quindi danno per scontato che nelle voci stipendiali non siano compresi anche eventuali straordinari, contratti integrativi e quant’altro. Strano, nei nostri stipendi ci sono dentro e non capisco perchè mi si dice che non saranno conteggiati assieme alla parte tabellare. Per quanto riguarda il privato, si rinvia all’individuazione del valore retributivo stabilito dalle intese nei diversi comparti. L’accordo però non dice che esso sarà diverso e inferiore a quello stabilito dai vigenti contratti nazionali di lavoro e quindi non è corretto leggere qualcosa che non c’è.

  5. daniela

    Come si sa, l’accordo sottoscritto vale sia per il settore pubblico che per quello privato. Come si può fare contrattazione di secondo livello nel settore pubblico, se non esiste un sistema uniforme ed oggettivo in grado di misurare la produttività del singolo dipentente. Ma non solo, ed ancora più grave, non esiste un concetto di produttività del settore pubblico. Misuriamo la qualità dei servizi, oppure il numero di atti prodotto dal singolo o ancora le ore di presenza? Alla produttività del settore pubblico non ci crede nessuno ecco perchè si scrivono accordi di questo genere.

  6. Renato Gatti

    Del nuovo modello contrattuale sottoscritto da CISL e UIL ma non da CGIL voglio solo affrontare il punto del salario collegato alla produttività. Non voglio cioè esaminare le ragioni del no della CGIL, del metodo seguito che Epifani dice essere stato un “prendere o lasciare” (cosa che non stupirebbe stante lo stile autoritario di questo governo), né del commento della Marcegaglia (sdraiata sulla linea filogovernativa). Stralcio il collegamento produttività salari perché ritengo questo principio molto positivo. Il nostro sistema produttivo conosce livelli molto bassi di produttività: sia quella del lavoro che quella complessiva dei fattori della produzione. Il nostro sistema produttivo conosce anche un livello salariale basso, causa non ultima, della stagnazione dei consumi. Incrementare le due cose è apprezzabile. Occorre tuttavia precisare bene cosa comporta il collegamento produttività salari. E penso che due aspetti vadano soprattutto tenuti sotto osservazione: · Come viene misurata la produttività · In che modo si configura la partecipazione dei lavoratori. Il calcolo dei parametri sulla quale la produttività viene commisurata non è indifferente, non è neutrale.

  7. toniopepe

    L’estensione della contrattazzione di secondo livello dovrebbe portare vantaggi economici nelle buste paga dei lavoratori a detta dei firmatari in barba al protocollo di luglio 93. Era la priorità? A parte il fatto che, il tasso di sindacalizzazione nelle imprese italiane è molto basso, altro elemento è la difficoltà delle relazioni sindacali nelle piccole imprese dove si prevede l’applicazione del secondo livello ad oggi poco presente. In queste realtà si ricevono aumenti in busta paga (dove questo avviene), rimessi al buon cuore del datore di lavoro sotto forma di superminimi assorbibili che, ogni qualvolta c’è un rinnovo contrattuale o, una trance dello stesso annullano di fatto nel tempo l’aumento ricevuto. Inoltre, si ricevono aumenti mascherati sotto la voce di trasferta italia, in quanto non tassata e, può scomparire in qualsiasi momento perché è legata non alla professionalità, ma bensì a quanto flessibile e buono sei nel tempo. Altro elemento è che al sud quando un lavoratore si iscrive al sindacato per vedere riconsciuti i propri diritti (nella piccola impresa) normalmente attraverso la vertenzialità, è automatico il licenziamento in barba al diritto del lavoro.

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