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COSA PUO’ FARE L’EUROPA PER I PAESI SULL’ORLO DEL CRAC

Al meeting informale di Bruxelles i leader europei hanno ipotizzato eventuali interventi in soccorso di singoli Stati. Dal punto di vista giuridico l’intervento sembra ammissibile, appellandosi al principio di solidarietà. Meno realistico appare invece sotto il profilo finanziario e politico. Il bilancio dell’Unione andrebbe integrato con contributi specifici degli Stati membri. Ma è difficile spiegare ai cittadini europei che parte delle risicate risorse nazionali devono essere impiegate a favore di un altro Stato. Ancor più difficile se è un paese dell’Europa dell’Est.

Al meeting informale dei capi di Stato europei tenutosi a Bruxelles lo scorso 1 marzo si è discusso del possibile intervento dell’Unione a favore di uno o più Stati membri, in particolare quelli dell’Europa dell’Est, a rischio di default. I capi di Stato hanno escluso di voler intervenire su un blocco di Stati, ma hanno ipotizzato eventuali interventi singoli. In che misura si tratta di una ipotesi realistica? Esistono regole per procedere a tale tipo di interventi? Quali sono gli eventuali limiti o vincoli politici e finanziari?

DUE PRINCIPI NEL TRATTATO

In materia, il trattato della Comunità Europea fissa due principi. Il primo, stabilito dall’articolo 100, è quello di solidarietà, principio che implica un intervento della Comunità a favore degli Stati che versano in situazione di “gravi difficoltà”. Il secondo, fissato all’articolo 103, è quello di “no bail out”, vale a dire nessun intervento di salvataggio della Comunità o degli Stati nei confronti di impegni finanziari assunti da altri paesi membri.   
Nonostante le apparenze i due principi non sono in contraddizione. La regola del “no bail out” costituisce sostanzialmente un tentativo di evitare il possibile moral hazard degli Stati derivante dall’appartenenza all’Unione, ossia il rischio che uno o più paesi, confidando nel fatto di essere inseriti nel sistema comunitario, assumano impegni finanziari insostenibili. L’articolo 103 stabilisce appunto che né la Comunità né gli Stati membri rispondano o si facciano carico degli impegni assunti dagli Stati, dalle regioni, da altri enti locali o da qualunque ente di diritto pubblico o impresa pubblica di qualsiasi altro Stato membro. Si fissa dunque il principio della responsabilità di ciascuno Stato del proprio debito. Sottoscrivendo questa norma, gli Stati sono consapevoli che dalla loro appartenenza alla Comunità non potranno sperare di ottenere aiuti che consentano loro di vivere al di sopra dei loro mezzi.
La regola della solidarietà si muove in una diversa prospettiva. L’articolo 100 prevede che la Comunità possa intervenire mediante “misure adeguate alla situazione economica”, in particolare qualora sorgano gravi difficoltà nell’approvvigionamento di prodotti, facendo così implicito riferimento a casi di shock petroliferi o di gravi carenze di altre fonti energetiche. La Comunità può anche intervenire mediante una propria “assistenza finanziaria” in caso di “calamità naturali” o di “circostanze eccezionali che sfuggono al controllo dello Stato” in questione.

DIFFICOLTÀ POLITICHE

La differenza tra le due ipotesi normative è dunque, almeno in teoria, chiara. Mentre la prima vieta interventi comunitari a copertura di situazioni di crisi finanziaria provocata dalle scelte dello Stato, la seconda consente l’intervento della Comunità quando il problema non è stato causato dallo Stato, ma è esogeno allo stesso e dunque non vi è questione di moral hazard, come appunto nei casi di carenza di materie prime o altre situazioni che “sfuggono al controllo” dello Stato. Tuttavia, non si può nascondere che, in pratica, tale distinzione potrebbe essere difficile da tracciare perché è spesso impossibile stabilire con certezza quali circostanze sfuggono completamente al controllo degli Stati.
Un buon esempio è proprio la situazione creata dalla crisi finanziaria: dal punto di vista giuridico, è dubbio che l’articolo 100 sia stato pensato per disciplinare un evento di tale portata; è anche abbastanza ambiguo se questa crisi derivi da circostanze completamente fuori dal controllo degli Stati: ad esempio, una diversa legislazione e migliori controlli l’avrebbero, se non evitata, quantomeno ridotta.
Tuttavia, date le circostanze, ci pare che il Consiglio degli Stati membri non deciderebbe in modo manifestamente infondato se prendesse provvedimenti in base all’articolo 100. Prevedendo la possibilità di intervento comunitario in caso di “gravi difficoltà” o di “circostanze eccezionali”, tale norma lascia ampia discrezionalità se intervenire o meno anche in caso di rischio di default di uno Stato. Va inoltre aggiunto che, sempre in base all’articolo 100, il Consiglio decide a maggioranza qualificata (14 su 27 Stati, rispettando talune ponderazioni) e non all’unanimità.
Ma se dal punto di vista giuridico l’intervento della Comunità sembra ammissibile, dal punto di vista finanziario e politico l’ipotesi ci pare assai più irrealistica.
Sotto il primo profilo, va ricordato che il budget dell’Unione è pacificamente insufficiente per ottenere un qualche effetto. Di conseguenza bisognerebbe integrarlo con contributi specifici degli Stati membri. Ma qui nasce il problema politico. Come spiegare ai cittadini europei che in questo momento di crisi, parte delle risicate risorse nazionali devono essere impiegate, non all’interno del paese, ma a favore di qualche altro Stato? E come reagirebbero questi cittadini se lo Stato in questione fosse uno dell’Europa dell’Est, già forieri di problemi relativi alla sicurezza e di dumping sociale? 
Così oggi è l’Unione degli europei: “nave senza nocchiere in gran tempesta”.    

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IL TIMONE AL G20*

  1. Mattia

    Sono d’accordo con l’articolo, ma alcuni punti mi sono poco chiari. Viene affermato che Il bilancio dell’UE andrebbe integrato con contributi specifici degli stati membri, come se esistessero per l’UE altre forme di finanziamento. Il bilancio UE non è già costituito esclusivamente dai contributi dei singoli stati? Inoltre politiche distributive e redistributive fra stati membri vengono già attuate da tempo tramite svariate policies, come quella di coesione e la PAC. Certo, l’attuale situazione richiederebbe uno sforzo finanziario non paragonabile a quello richiesto dalle politiche ordinarie, ma è possibile che questo comporterebbe la messa in discussione di un principio da tempo istituzionalizzato come quello sancito dall’articolo 100?

  2. eforo

    Andrew Burns, uno dei principali economisti della Banca mondiale, ha rilasciato la seguente dichiarazione: "Il periodo più acuto della crisi finanziaria è ormai passato. Ora guardiamo al futuro, la ripresa economica è attesa per la fine di quest’anno". Le dichiarazioni di molti economisti con PhD presi nelle migliori business school del pianeta ricordano molto: "Il peggio è passato, senza alcun dubbio" – James J. Davis, Segretario al Lavoro USA, Giugno 1930: "La Depressione è finita" – Julius Klein, Assistente al Segretario del Commercio USA, 9 Giugno 1931. Per la cronaca, i mercati scesero fino a Gennaio del 1932.

  3. Nicola Limodio

    Ottimo articolo, bilanciato tra l’essere informativo e comprensibile. Mi piacerebbe solo sapere cosa ne pensa l’autore relativamente al trade-off che gli stati dell’UE a 15 vivono tra il finanziamento a paesi in difficoltà ed il rischio di default che provocherebbe il collasso delle loro banche. Sarebbe meglio spendere risicate risorse per salvare l’Ungheria o la Lettonia, piuttosto spenderne ingenti e rischiare che una grande banca nazionale risulti insolvente a fronte di un effetto domino di inesigibilità dei crediti congiunta ad una "corsa" alla liquidità (che causerebbe un disastro)?

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