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UN MODELLO CHE FA ACQUA

Al Forum di Istabul l’accesso all’acqua è stato riconosciuto come bisogno fondamentale, ma non come diritto umano. Una scelta che ha sollevato polemiche e sospetti. Ma il problema va affrontato con realismo. Partendo dal fatto che miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici perché scarseggiano i mezzi economici disponibili per investire nelle reti e negli impianti. Servono soldi, ma anche regole e garanzie. E un modo per ripartire i costi che sia sostenibile dalle popolazioni.

 

Tra gli “obiettivi del Millennio” assunti a Johannesburg nel 2002, vi era quello di ridurre della metà la popolazione mondiale priva di accesso sicuro all’acqua potabile, stimata in un miliardo di persone, e a servizi di fognatura adeguati, 1 miliardo e quattrocento milioni di persone. Qualche timido progresso è stato fatto: 600 milioni di persone in più oggi hanno accesso all’acqua potabile. E tuttavia, il numero di persone che ne sono prive è addirittura aumentato, è ora di un miliardo e 200 milioni, complice l’incremento demografico. Ancora peggio va con i servizi igienici e sanitari, che mancano a 2,5 miliardi di persone. Qualche miglioramento c’è stato in Asia, si è passati dal 20 al 40 per cento di popolazione servita, e in Africa Settentrionale, dal 60 all’80 per cento, mentre molto più limitati sono stati i progressi nel resto del pianeta. Per il 2030, le proiezioni sono ancora più fosche.

UN DIRITTO O UN BISOGNO?

Ha fatto dunque discutere la conclusione del 5° Forum mondiale per l’acqua di Istanbul, che ancora una volta non ha voluto riconoscere l’accesso all’acqua come “diritto umano”, definendolo invece come “bisogno fondamentale”.
Chiare sono le implicazioni della scelta: se qualcosa è un diritto, vuol dire che qualcun altro ha il dovere di garantire che sia effettivamente goduto da tutti. E dunque, da un lato, la comunità internazionale deve assumere impegni precisi per sostenere lo sforzo dei paesi meno sviluppati; dall’altro, le politiche idriche dei diversi paesi devono garantire un’allocazione della risorsa e regole di accesso che tutelino i più deboli.
La formula approvata a Istanbul è sicuramente più vaga, e per certi versi deludente. La sede del Forum – che dietro la patina ecumenica, è in realtà sponsorizzato dalle grandi imprese private – ha fatto sospettare che sia stata dettata dagli interessi delle multinazionali, che per varie ragioni temono le conseguenze di una definizione più impegnativa. Occorre tuttavia un po’ di realismo.

UN PROBLEMA DI INFRASRUTTURE

Il problema non riguarda l’acqua intesa come risorsa naturale, ma semmai le infrastrutture e i servizi. Se miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici, non è dovuto alla scarsità dell’acqua, né alla sua mercificazione, ma semmai alla scarsità di mezzi economici disponibili per investire nei sistemi infrastrutturali. Soprattutto se si considera che la possibilità di sostenere gli investimenti con le tariffe è limitata dal potere di acquisto insufficiente. Sono in particolare le grandi megalopoli, cresciute in modo incontrollato negli ultimi decenni, a evidenziare drammaticamente queste carenze.
Spesso si presenta la questione come se in questi paesi l’acqua ci fosse sempre stata per tutti, e  qualche avido capitalista se ne fosse ora impossessato per lucrare sulla sete. La realtà, più triste, è diversa: dove milioni di diseredati arrivano e si ammassano in fatiscenti favelas o mefitici hutong, dove le infrastrutture, se ci sono, sono così malandate che cadono a pezzi, l’acqua non è mai stata un diritto, ma semmai un costoso bene che la gente raccoglie con precari sistemi autogestiti, o compra a caro prezzo da un lucroso mercato nero fatto di omini con l’autobotte. E i servizi igienici sono sostituiti dalla strada o dagli orti, come avveniva del resto anche nelle nostre città prima della rivoluzione industriale.

MA CHI LE FINANZIA?

Chi deve investire per realizzare le reti e gli impianti? Con i soldi di chi? È pronta la comunità internazionale a sostenere uno sforzo finanziario così immane? Lo deve fare rimanendo essenzialmente un prestatore di risorse, oppure come donatore? E con quale modello gestionale, organizzativo, di governance? In capo a chi deve essere posto il rischio economico, particolarmente elevato in un settore come questo – capital intensive, con lunghissimi cicli di vita dell’investimento, e tariffe che giocoforza includono un cospicuo margine operativo che i governi possono essere tentati di espropriare una volta che la rete è sottoterra?
Negli anni Novanta, lo schema adottato dalla Banca Mondiale prevedeva finanziamenti e garanzie, a patto che la gestione fosse affidata in concessione a operatori industriali, e che fossero le tariffe pagate dagli utenti a generare, nel lungo termine, i flussi di cassa necessari a sostenere il debito. Questo schema è sostanzialmente fallito, nonostante qualche isolato caso positivo. La ragione del suo fallimento è che le imprese private, anche se sostenute dalle istituzioni finanziarie (che restano comunque dei prestatori, e non dei benefattori) affrontavano un rischio così elevato da portare il costo del capitale e le tariffe a livelli non sostenibili dalla popolazione. Si è messa sotto accusa la sete di profitto delle multinazionali, e va detto con onestà che non sempre hanno fatto il possibile per smentire questa diceria. Ma la scelta di imporre il modello della concessione a operatori industriali, necessariamente occidentali, non era solo dovuta all’acquiescenza ai diktat del capitale internazionale. Chi avrebbe gestito, altrimenti, il flusso di risorse finanziarie e chi ne avrebbe potuto garantire il rientro? L’esperienza fallimentare dei sistemi pubblici – eredità del passato coloniale, gestiti da elite locali spesso corrotte o comunque non all’altezza del ruolo – non era affatto edificante.
Altre soluzioni sono state provate in seguito, con risultati qua e là incoraggianti, ma non ancora risolutivi: dai partenariati alle cooperative locali, dalle “adozioni a distanza” finanziate dalle tariffe dei paesi ricchi ai micro-progetti di comunità basati su uno sviluppo graduale. Ma siamo ancora alla ricerca di un modello che ci permetta di far quadrare il cerchio. Servono tanti soldi e soprattutto serve qualcuno che sappia cosa farne; serve un modello di regolazione che sappia garantire – necessariamente nel lungo termine – la stabilità dei flussi di cassa; serve know-how gestionale e non solo costruzione, servono garanzie che i soldi non siano sperperati in operazioni clientelari e populistiche, quando non dirottati altrove.

LA TARIFFA A METRO CUBO

E serve un modo per ripartire i costi che, se deve fare salvi i ricavi totali e le garanzie per chi investe, li deve anche spalmare nel modo più indolore possibile. Qui, forse, la scelta di imporre la tariffazione volumetrica – affermatosi in occidente solo in tempi recenti, sulla spinta di tutt’altre priorità – non è stata forse una scelta saggia. Come dimostrano molti studi, la domanda urbana di acqua, e più ancora quella di servizi igienici e sanitari, è inelastica al reddito. Consumano tanta acqua i ricchi quanto i poveri, e far pagare al metro cubo – magari scontando le prime unità per ricaricare su quelle eccedenti il minimo – ha effetti pesantemente regressivi. Ben presto la spesa arriverà a livelli insostenibili specie per le famiglie povere.
Nell’800, in Europa e negli Usa, si è capito presto che un servizio commerciale tariffato in quel modo non era sostenibile finanziariamente nelle fasi di sviluppo del sistema. Solo pochi avrebbero potuto pagare, e quei pochi non erano sufficienti per giustificare e reggere l’investimento. Ma una città industriale non può vivere senza accettabili livelli igienici e sanitari, dunque occorre che tutti siano connessi al sistema. La percezione di queste esternalità guidò, allora, la scelta di basarsi su un modello di gestione pubblica, finanziata sì dagli utenti, ma con criteri molto più legati alla capacità contributiva che al beneficio. Se da noi oggi questo modello ha raggiunto il suo compimento ed è entrato in una nuova fase, altrettanto non si può dire dei paesi poveri. Forse un po’ più di memoria retrospettiva, capace di risalire ai tempi in cui anche noi eravamo “paesi in via di sviluppo” potrebbe aiutarci a evitare molti errori.
A Istanbul sarebbe stato certo più nobile affermare il diritto all’acqua, ma forse anche più ipocrita. Piuttosto che fare promesse che non si sa come mantenere, meglio darsi obiettivi più limitati, ma realistici.

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18 commenti

  1. Francesco Dimarno

    Spesso si sente parlare, dai movimenti di difesa dell’acqua come bene pubblico, di ritornare ad un modello gestionale pubblico tout-court attraverso una "ripublicizzazione" dei servizi idrici e cioè partendo dal presupposto che una società di diritto privato, anche con soggetto economico pubblico, è comunque un male e si vuole, quindi, che il soggetto economico pubblico possa gestire il servizio idrico attraverso un ente di diritto pubblico. Forse la questione è mal posta. Innanzi tutto non si tratta di privatizzazione, se non dal punto di vista solo formale, quando il soggetto economico è comunque totalmente pubblico (penso ad Acquedotto Pugliese S.P.A.) e poi mi chiedo (soprattutto in Italia dove le esperienze negative di mala gestione pubblica si sprecano a iosa) è l’ente di diritto pubblico il miglior modo di gestire il servizio idrico? Se sì, da dove prendiamo i soldi? Può essere una soluzione quella di ribadire che sì l’acqua è un "diritto" e non un "bisogno" ma dare al pubblico solo la proprietà delle reti e gestire il servizio attraverso sistemi a gara potendosi concentare per bene sul contratto da far rispettare? Per favore chiaritemi i dubbi!

  2. emilio mattioni

    Mi pare una riflessione interessante, in molti punti utilmente critica verso temi e modelli generali. Credo anche – ma temo di non essere adeguatamente informato – che sarebbe utile, forse indispensabile, una riflessione documentata sui vari temi e modelli particolari, presenti nelle realta’ dei vari paesi ad economia avanzata o soi- disant tale. L’ Italia, per esempio.

  3. Giulio Macchione

    Il diritto e il bisogno «L’acqua fa male – diceva un gran dritto – se bevi Barolo mentre tracanni coi polifenoli campi cent’anni. Sai che ti dico? Si faccia un editto…». Nemmeno ha finito che zitto zitto un gran culone s’alzò dagli scranni con una finezza e fame da Zanni mutò quel diritto in proprio profitto. Mi chiedo: sull’acqua l’utile licet? Bevendo guadagno la mia giornata? Che reddito genera farsi il bidet? Questa è l’ennesima legge porcata e sai che ti dice un Monsù Travet? Io per bisogno intendo cacata!

  4. Marcello Battini

    Partendo dal concetto che l’uso dell’acqua potabile è un diritto, ne consegue che si dovrebbe operare come per la salute, con aziende pubbliche, incaricate di fornire questo servizio ai cittadini. Ci sono la questione costi e la questione finanziamenti. Per i primi occorre fare riferimento a dei costi standard, con una oscillazione del +/-5-10%. I risparmi si dividono tra tutti i lavoratori, l’eccedenza di spesa deve essere caricata su tutti i lavoratori. Il finanziamento a carico dell’intera collettività che si avvale del servizio idrico, sulla base di alcuni indici di benessere.

  5. Maurizio Cassi

    La sua panoramica è precisa ed è apprezzabile il suo pragmatismo. E’ in ombra (ma forse era inevitabile, dato che lei scrive a margine dell’evento di Istanbul) la dimensione del problema nei paesi sviluppati. Ho seguito il tema “dal basso”, nel Lazio, quanto basta per esserne spaventato: esaurimento delle falde per crisi climatica e prelievo abusivo, dovuto al meccanismo per cui i comuni si espandono quanto più possono senza riguardo ai piani regolatori idrici, drenando risorse a breve e lasciando la gestione dell’emergenza ai sindaci futuri; conseguente totale insufficienza della depurazione, per obsolescenza oltre che per sovraccarico demografico; abbassamento della falda con pescaggio di arsenico, fluoro e Vanadio; dispersione; e infine il gestore più importante (Acea) che, presente direttamente o attraverso controllate in quasi tutti gli ATO del Lazio, mi sembra che approfitti di come sono organizzate (male) le consulte dei sindaci, scegliendo di mantenere standard alti a Roma e nei grandi comuni e trascurando quelli piccoli. Nel resto del paese mi pare che le cose non vadano meglio. A quanto ne sa lei, qualcuno si sta occupando (in modo serio) di questi problemi?

    • La redazione

      Ho provato ad affrontare il tema che voi sollevate in altri precedenti articoli, e se La Voce vorrà ospitarne ancora, ci tornerò volentieri. La mia visione del problema è che quello tra gestione pubblica e privata dei servizi idrici sia un falso problema. Fermo restando che l’acqua (come risorsa) è un patrimonio della collettività, e la fornitura di servizi idrici un servizio di interesse generale da assicurare a tutti in modo accessibile. Una volta affermato ciò, nel modo più netto e senza equivoci, l’esperienza ci mostra che si può fare in molti modi, anche coinvolgendo il privato. Servono capacità industriali e imprenditoriali (che possono essere anche pubbliche, ma non sempre il pubblico ne è capace). Servono capitali, che il mercato mette volentieri a disposizione, a patto che vengano restituiti e remunerati. Serve un’attenta e implacabile regolazione pubblica, dato che si tratta di attività gestite in regime di monopolio: remunerare i capitali investiti è d’obbligo, ma concedere loro rendite di monopolio no. La gente si spaventa della "privatizzazione", ma in realtà ciò di cui si lamenta è la "defiscalizzazione": costi che in passato abbiamo finanziato come contribuenti attraverso il bilancio pubblico, e che ora, per varie ragioni, ritornano verso modalità di autofinanziamento attraverso le tariffe. Chiunque sia il gestore, pubblico, privato o misto, il bilancio deve quadrare, non solo oggi, ma nel lungo termine.

  6. Giulio Conte

    Come non concordare con l’analisi di Massarutto. Ma se provassimo a pensare a nuove tecniche per il servizio idrico? Nelle nostre città consumiamo circa 200 litri ab/giorno, di cui quasi un terzo va per scaricare il WC. Non è pensabile adottare il nostro sistema fognario negli slums delle grandi megalopoli, è necessario orientarsi verso sistemi a secco (ormai con livelli di comfort “occidentali”, http://www.clivusmultrum.com), come già cominciano a fare in India e in Cina. Anche in occidente dobbiamo rivedere profondamente il nostro modello – il settore civile è l’unico che mostra consumi ancora in crescita. Per chi fosse interessato a saperne di più http://www.edizioniambiente.it/eda/catalogo/libri/186/

    • La redazione

      Perfettamente d’accordo nello specifico, e anche, più in generale, con la strategia di investire gradualmente in sistemi low-tech, magari non ottimali secondo gli standard occidentali, ma in grado di far fare davvero passi avanti significativi alle popolazioni prive di servizi, rimandando le sciccherie a quando ce le si potrà permettere. Segnalo che da qualche tempo anche le istituzioni internazionali hanno iniziato a muoversi con successo lungo questa strada, ad esempio in India, dove la Banca Mondiale ha promosso diversi esperimenti di costruzione di latrine pubbliche con accesso a pagamento, sostenuti da iniziative di microcredito, che hanno fornito soluzioni efficaci e a costi bassi.

  7. silviviz

    Leggo con interesse la Sua riflessione, io dalla Turchia ho seguito appassionatamente le vicende del Forum per essere poi schifata dal leggere che dopo 5 giorni il risultato é stato stabilire che l’acqua é un bisogno fondamentale, mi chiedo cosa fosse prima. Ma conosco bene i vertici di questi "grandi"; i primi di aprile sempre ad Istanbul c´é stato il meeting su Aliance of civilizations e dove, vi assicuro, si pensava a tutto meno che ai "problemi" del mondo che l’Onu costantemente ripete. Che ipocrisia! "Potenti" che non sapevano neppure di cosa si stesse parlando e dopo 3 giorni di grande mangiate e bevute e di parate in pompa magna si é riusciti a stabilire che é necessario un dialogo tra i popoli e tra le culture. Che scoperta!!! Per quanto riguarda l’acqua non c´é nulla da discutere, l’accesso all’acqua prima di ogni altra cosa deve essere un diritto. Ci sono i soldi per qualsiasi cosa da cui si puó trarre profitto e prima ancora di costruire case, strade e quant’altro nel nome del "progresso" si dovrebbe pensare a soddisfare i diritti basici che valgono per tutti gli esseri umani. Invece, tutto é retto da insensate regole economiche. Perché non provare a cambiare?

  8. Carlo

    Ricordiamoci di cosa successe in Bolivia: quando il governo privatizzo’ l’acqua, dando tutti i diritti di sfruttamento ad una societa’ americana che alzo’ i prezzi a livelli osceni: scoppio’ una sorta di guerra civile, con disordini e morti, finche’ il governo non fu costretto a fare marcia indietro. Facciamo tesoro di quella triste esperienza e ricordiamoci che queste cose sono accadute realmente, e non sono relegate al mondo del cinema (vedi l’ultimo film di James Bond).

    • La redazione

      Il caso di Cochabamba, cui lei fa riferimento, è uno dei più noti casi di fallimento degli schemi proposti dalla Banca Mondiale, cui ho fatto riferimento nell’articolo. Ma è anche uno dei più strumentalizzati. Nel mio libro "L’acqua", edito dal Mulino nel 2008, ho provato a raccontare le cose come stanno. In sostanza, è facile criticare l’impresa americana, che ha pure le sue colpe. Ma rimane il fatto che se io devo sostenere, oggi, un elevato investimento (in dollari) e lo devo recuperare in 20 o 30 anni attraverso un precario flusso di cassa (in pesos boliviani) corro seri rischi, e dunque mi devo in qualche modo cautelare. Lei investirebbe a cuor leggero i suoi sudati risparmi in obbligazioni trentennali di un paese la cui moneta potrebbe svalutarsi domani mattina, oppure chiederebbe un tasso di interesse più elevato per proteggersi dal rischio? Le tariffe imposte a Cochabamba non erano poi tanto alte in sé e per sé, ma diventavano spropositate in rapporto al potere d’acquisto della popolazione, soprattutto di quella parte che viveva nelle favelas e cui erano destinati, in buona parte, i nuovi investimenti. L’errore più grosso in quel caso è stato quello di imporre una tariffa al metro cubo (risultato: i ricchi pagano quanto i poveri). Nell’800, in Europa e negli USA, è stata la fiscalità locale a pagare l’infrastruttura di base: ossia, sempre i cittadini, ma con un criterio di ripartizione del costo molto più progressivo e sostenibile per la popolazione.

  9. giuseppe santoiemma

    Anche se posso essere giudicato “ipocrita” credo fermamente che l’acqua sia un diritto non un bisogno fondamentale. Quanto ai costi non mi sembra siano stati presi in considerazione quelli sociali e sanitari connessi all’assenza o scarsa disponibilità dell’acqua. La valutazione degli investimenti in infrastrutture idriche. Credo debba tenere conto anche di questi aspetti, che seppure a lungo termine, sono importanti perchè in grado di creare condizioni per un uso diverso delle risorse economiche. Meno problemi sanitari significa liberare risorse economiche da gestire per lo sviluppo, una popolazione più sana ha più energie da dedicare al lavoro ed è più interessata a progettare attività econonomiche perché libera dalla schiavitù dell’acqua. Finora mi sembra siano prevalse considerazioni il cui punto di partenza è l’acqua come business aziendale inteso come profitto di un singolo soggetto (l’azienda). Ho vermente paura di un futuro dove l’acqua sia gestita dai privati che per natura sono portati a vedere solo il loro tornaconto.

  10. cassatas

    Ingabbiata dalle acque minerali in bottiglia, improvvisamente ho creduto di fare il mio gesto di protesta non comprandola più, bevo dal rubinetto…finchè non me la inquinano!

  11. Armando Pasquali

    Eccellente articolo, nel quale si ricorda come il modello proposto dalla Banca Mondiale abbia in sostanza fallito, ma trattandosi della Banca Mondiale non è una novità. Alcuni hanno sintetizzato la questione in un semplice ragionamento: in un ambiente corrotto e predatorio, finisce con l’essere poco rilevante se il gestore di un servizio sia pubblico o privato. Il risultato sarà comunque non rispondente alle reali necessità. Un punto, però, non mi sembra condivisibile, là dove si afferma che ripiegare sul concetto di acqua come bisogno fondamentale e non come diritto sia comunque più realistico. E’ tempo invece che si affronti la questione, sia dell’acqua che del cibo, come diritti e non solo come bisogni.

    • La redazione

      A Pasquali (ma vale anche per Silviviz, Santoiemma, Battini): Anche a me farebbe molto piacere poter garantire a tutti il diritto all’accesso all’acqua. Ma se non riusciamo a stabilire chi deve pagare per questo, non andremo molto lontano. I servizi idrici costano. Le infrastrutture costano. La manodopera costa. L’energia per far funzionare il sistema costa. Gli impianti costano. Chi deve sostenere questi costi? I soldi, se uno non li ha, glieli possiamo prestare (sperando che in futuro ce li possa restituire) o regalare. I fallimenti degli schemi proposti dalla banca mondiale ci dimostrano che non ci si può limitare a prestare i capitali e a farli rientrare con i cash flow generati dalle tariffe: nei paesi poveri non si riusciranno a sostenere tariffe abbastanza elevate da consentire di ripagare i debiti, soprattutto se il rischio industriale viene addossato tutto agli operatori che investono e realizzano le opere. O si mandano in rovina le famiglie, o si mandano in bancarotta le aziende.
      Donare, quindi ? pochi hanno idea di quanto i paesi occidentali dovrebbero donare per poter investire davvero in modo capillare. Non basta un’iniziativa dimostrativa, che magari fa felici gli abitanti di questo o quel villaggio, ma equivale a una specie di lotteria in cui un fortunato vince e milioni di altri restano come prima. Questo ci può far stare un po’ più in pace con le nostre coscienze, ma risolve ben poco. Siamo pronti noi benpensanti occidentali a donare, diciamo, 50 o 100 €/anno a testa per sostenere il diritto all’acqua dei paesi poveri (di tutti i paesi poveri)? Se sì, diamoci da fare. Se no, evitiamo di riempirci la bocca con belle parole (quelle costano sempre poco, ma purtroppo servono anche a poco).

  12. giuseppe santoiemma

    Vorrei chiarire il senso del mio precedente intervento. Non credo che pubblico e privato rispetto alla gestione di una risorsa importante come l’acqua possano o debbano avere lo stesso obiettivo. Il privato mira alla pura "massimizzazione del profitto", per il pubblico questa tendenza può non esserci perché nel computo/analisi dei costi-benefici potrà prendere in considerazionie aspetti socio-economici che non interessano il privato come la riduzione delle malattie (conseguenti minori costi sanitari) e il miglioramento complessivo delle condizioni di vita (conseguente maggiore disponbilità di forza lavoro). Voglio dire che il pubblico a fronte della stessa entità dei costi rispetto al privato può "contabilizzare" alcuni benefici economici che rendono l’investimento più conveniente. Quanto a chi e come coprire i costi connessi alle infrastrutture idriche di stoccaggio, adduzione e distribuzione, quando un paese è molto povero lo Stato non ha i soldi necessari, i cittadini neanche e gli investitori non sono interessati perchè non si capisce chi deve pagare e come (dato che sono poveri); se il problema lo impostiamo così è inutile pure occuparsi dei paesi poveri.

  13. Fabio Marchioni

    L’articolo del prof. Massarutto è come sempre interessante e suggestivo ed egli ripete, con la consueta competenza, il suo punto di vista estremamente pragmatico.Qualche lettore intervenuto in precedenza accenna alla situazione laziale. questo mi offre lo spunto per una domanda all’autore dell’artcolo? quali sono le zone d’ Italia più attrezzate per il futuro della gestione idrica? Esiste una bibliografia economica sull’acqua?

  14. Stefano Fabiani

    Anche io sono convinto che la gestione pubblica sia l’unica in grado di garantire adeguati livelli di servizio a costi equi. Gestione pubblica non significa continuare a far pagare l’acqua così poco, è vero che tariffe più elevate (non raddoppiate…) garantirebbero maggiori entrate da reinvestire in riefficientamenti infrastrutturali, ma di certo non ci si troverebbe nella situazione inverosimile di un un’impresa (che per definizione mira al profitto conseguenta la vendita di un bene o l’erogazione di un servizio, quindi più quantità –> più profitto…) che contro le logiche proprie del mercato, e mossa da un’improbabile coscienza ambientale, abbia interesse a ridurre la quantità del bene o del servizio fornito!

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