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IL GIOCO DI PECHINO NELLA PARTITA DEL CLIMA

Al summit sui cambiamenti climatici di New York la Cina si è impegnata a ridurre la propria intensità carbonica, ovvero il rapporto emissioni-Pil, di un “margine notevole” entro il 2020. Una misura simile porta solo in linea teorica a un calo delle emissioni. Perché gli incrementi del Pil possono ampiamente compensare le riduzioni che derivano dai miglioramenti di efficienza. E se la crescita economica è per i paesi in via di sviluppo una variabile incomprimibile, è chiaro che alla conferenza di Copenaghen non si potrà trovare nessun accordo sui livelli di emissione.

I quotidiani nazionali e internazionali del 23 settembre hanno dedicato molto spazio al summit sui cambiamenti climatici che si è svolto a New York. L’incontro rappresenta un ulteriore passo di avvicinamento alla conferenza di Copenaghen, prevista per la fine dell’anno, in cui si cercherà di raggiungere un nuovo accordo che fissi gli impegni di riduzione a partire dal 2013, data in cui si esauriranno quelli connessi al Protocollo di Kyoto.

NOVITÀ DALLA CINA?

Tra le tante questioni aperte, l’incontro di Copenaghen dovrà chiarire la posizione dei paesi in via di sviluppo: fino ad oggi non hanno preso alcun impegno vincolante in termini di riduzione delle emissioni, creando nei paesi industrializzati – guidati dagli Stati Uniti – una sorta di alibi a non assumerne a loro volta.
Molti giornali hanno sottolineato, pur con parole diverse, l’importanza di una nuova posizione cinese. Il Sole 24Ore, per fare un solo esempio, completava il titolo “Sul clima entra in gioco Pechino” con l’occhiello “Impegno a ridurre drasticamente le emissioni”.
È necessario accogliere questi annunci con molta prudenza, come peraltro l’articolo del Sole 24Ore faceva, e riflettere con attenzione.
È senz’altro vero che durante la conferenza di New York il presidente cinese Hu Jintao ha fatto alcuni importanti passi in avanti, da esaminare con cura per meglio capire le reali possibilità di trovare prossimamente un’intesa più ampia e stringente.
Due i punti principali espressi dal leader cinese: sul piano internazionale ha chiarito quelli che sono considerati gli elementi fondamentali di un prossimo possibile accordo; sul piano nazionale ha descritto le misure interne che il governo cinese sta adottando con l’obiettivo di aumentare l’efficienza promuovendo un uso sostenibile dell’energia.
Sui principi negoziali, il presidente cinese non ha aggiunto molto rispetto a quello che già si conosceva. In primo luogo, è stata ribadita la necessità di considerare il livello di sviluppo di un paese come elemento determinante rispetto agli obblighi che deve assumere in tema di emissioni. È la riproposizione di un vecchio cavallo di battaglia nella negoziazione internazionale. I paesi in via di sviluppo tendono a sottolineare in ogni occasione le responsabilità storiche dei paesi industrializzati. Quello che conta per il sistema climatico sono tutte le emissioni di GHG, non solo quelle degli ultimi anni. E se si confronta l’immagine delle emissioni correnti, per esempio gli ultimi tre anni, con quella del totale delle emissioni, per esempio negli ultimi cento anni, il quadro risulta fortemente modificato: nel secondo caso le emissioni dei paesi industrializzati costituiscono buona parte delle emissioni complessive.
Il presidente cinese ha poi ribadito ancora la necessità, per i paesi industrializzati, di provvedere con risorse finanziarie “adeguate e certe” al finanziamento di tecnologie pulite per la crescita dei paesi in via di sviluppo.
Questi due elementi non rappresentano segnali rilevanti di novità nella posizione cinese sebbene nella frase “adeguate e certe” riferito alle risorse finanziarie si possa vedere un tentativo di superamento dello schema del Cdm (Clean Develpment Mechanism) previsto nel Protocollo di Kyoto, in cui il finanziamento di tecnologie pulite nei paesi in via di sviluppo dipende da una scelta dei paesi industrializzati, e dunque non descrive risorse finanziarie “adeguate e certe”.

GLI IMPEGNI

Gli elementi di novità (non in senso assoluto, quanto nella persona, il luogo e le circostanze) riguardano la politica cinese e i possibili impegni.
La Cina si è impegnata a
– ridurre ulteriormente la propria intensità carbonica, ovvero il rapporto emissioni-Pil, di un non precisato “margine notevole” entro il 2020
– per fare questo intende aumentare considerevolmente le rinnovabili e il nucleare (ovvero l’energia che non produce emissioni), con una previsione di copertura del 15 per cento del totale dei consumi energetici, sempre entro il 2020
– incrementare la superficie boschiva di 40 milioni di ettari
– sviluppare una non meglio precisata “economia verde”.

EMISSIONI E INTENSITÀ CARBONICA

Di questi diversi punti i primi due meritano una particolare attenzione. La riduzione dell’intensità carbonica può essere considerata con semplicità considerando la relazione

(1)

L’intensità carbonica della Cina si è ridotta costantemente a partire dalla fine degli anni Settanta e oggi il rapporto è circa un terzo di quello che si registrava nel 1980. Il risultato, comune a molti altri paesi in via di sviluppo, deriva fondamentalmente da nuovi e più efficienti vintage di capitale, più che da una riduzione della carbonizzazione dell’offerta energetica complessiva. La rapida riduzione si è tuttavia arrestata nel 2003 in presenza di un boom economico e produttivo, tanto da obbligare il governo a un intervento correttivo teso a indicare un livello di efficienza-obiettivo secondo un piano quinquennale 2005-2010.
La riduzione di questo rapporto, ovvero il conseguimento di obiettivi sempre più sfidanti in termini di intensità carbonica, non deve essere confuso con la riduzione delle emissioni. Isolandoci dal resto del contesto e guardando la sola relazione (1), risulta evidente che gli incrementi del prodotto interno lordo possono ampiamente compensare le riduzioni che derivano dai miglioramenti di efficienza.
La politica degli annunci non basati sulla riduzione delle emissioni, ma sulla riduzione dell’intensità carbonica hanno un precedente interessante nei vari piani energetici elaborati durante l’amministrazione Bush e in particolare nell’Energy Plan 2002. In quel piano, la riduzione dell’intensità carbonica del 18 per cento nel periodo 2002-2012 si accompagnava a un aumento delle emissioni del 12 per cento nello stesso arco di tempo.
In linea teorica, una riduzione del rapporto emissioni-Pil può dare luogo a una riduzione delle emissioni ma, evidentemente, questa deve essere tanto più stringente quanto maggiore è il tasso di crescita dell’economia.
Un esempio permette di chiarire questo elemento. Tre scenari di riduzione del rapporto: il primo, proseguendo il trend degli ultimi venti anni, realizza una riduzione pari all’1,8 per cento per anno. Nel secondo scenario si raddoppia lo sforzo (3,6 per cento) e nel terzo lo si triplica (5,4 per cento). La riduzione di questo rapporto va letta insieme a un’ipotesi di incremento del Pil. Seguendo le indicazioni che provengono da numerosi previsori è stato adottato un incremento annuo pari al 7,5 per cento. Si tratta di un incremento inferiore a quello realizzato negli ultimi anni.
I risultati di questo esercizio sono illustrati nella tabella. 

  Emissioni corrispondenti a una riduzione (E/PIL) pari a:
  (A) (B) (C)      
Anni -1,8% per anno -3,6% per anno -5,4% per anno (A-B) (A-C)  
2006 15,4 15,4 15,4  
2010 20,96 19,47 18,06 1,49 1,41  
2020 35,7 27,55 21,16 8,15 6,39  
2030 60,78 38,99 24,8 21,79 14,19  

La colonna (A) mostra che le emissioni complessive (misurate in miliardi di tonnellate) continuano a salire, passando da 15,4Mt del 2006 a 35,7Mt nel 2020, anche in presenza di una riduzione ulteriore del rapporto emissioni-Pil che si ipotizza proseguire lungo la tendenza degli ultimi anni. Nella colonna (B) le emissioni complessive aumentano, passando da 15,4 Mt del 2006 a 27,55 Mt nel 2020, pur in presenza di uno sforzo, i cui costi sono difficilmente quantificabili, teso a raddoppiare la velocità di riduzione del rapporto emissioni-Pil. Ulteriori considerazioni sulla colonna (C) sono del tutto ovvie.
Il punto fondamentale è che un paese delle dimensioni della Cina, con tassi di crescita del Pil spesso a due cifre e una dinamica della popolazione non particolarmente accentuata, non può ridurre le emissioni anche in presenza di una politica attiva sul rapporto emissioni-Pil. Il punto negoziale per Copenaghen risulta, se ce ne fosse stato bisogno, ancora più chiaro. L’obiettivo massimo che si potrà ottenere da parte dei paesi in via di sviluppo sarà un accordo generico sulla riduzione dell’intensità energetica e di quella carbonica. Nessuna chance invece di impegni sui livelli di emissione.
I ragionamenti del presidente cinese Hu Jintao aiutano meglio a comprendere un fatto spesso sottovalutato. Se si assume – come fa la Cina, ma non solo – che la crescita economica rappresenti per questi paesi una variabile incomprimibile, gli sforzi che dovrebbero essere compiuti per bilanciare, attraverso un incremento dell’efficienza, l’aumento delle emissioni che ne deriva, non potranno mai raggiungere l’obiettivo della riduzione delle emissioni.
Con queste premesse in gioco ci sarebbe da augurarsi che il cambiamento climatico fosse un bluff e l’Ipcc un organismo di incompetenti. E temo non sia così.

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  1. climaticus

    L’articolo è molto interessante e documentato, però sembra stupirsi, nel tirare le conclusioni, di quanto invece tutti i partecipanti alla conferenza di Copenaghen sanno da tempo, ossia che i Paesi in Via di Sviluppo (inclusa la Cina) non ridurrano le emissioni assolute da qui al 2020. A loro, infatti, viene chiesto dalla UE di ridurle del 15-30% "rispetto al Business as Usual"; quindi, invece di raddoppiarle, di accrescerle del 70%. Puo’ sembrare poco, ma al momento, solo alcuni PVS in particolari situazioni (Brasile) potrebbero impegnarsi a fare di più.

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