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TUTTI I RISCHI DELLA CLASS ACTION NELLA PA

L’azione collettiva contro le inefficienze della pubblica amministrazione era uno dei pezzi forti della riforma del lavoro pubblico. E’ stato però stralciato con la promessa di vararlo entro gennaio 2010. Il testo attuale, del resto, è generico e vago. Il rischio è che la class action nella Pa finisca per produrre molta esposizione mediatica e poca sostanza. Con il corollario di un intasamento senza precedenti delle aule dei tribunali amministrativi regionali, per l’attivazione di azioni collettive anche infondate, sull’onda della caccia a ogni costo all’amministrazione sprecona.

L’azione collettiva contro le inefficienze della pubblica amministrazione è uno dei pezzi forti della riforma del lavoro pubblico, introdotta dalla legge 15/2009, la cosiddetta legge Brunetta. Mentre da anni si cerca di affermarla class action nel suo ambito naturale, la difesa dei consumatori contro le insidie dei contratti per adesione delle grandi società di servizi, la strada per la class action nella Pa appare spianata.

LEGGE E DECRETO SONO VAGHI

In linea di principio, non vi sarebbe nulla da ridire contro uno strumento finalizzato a consentire ai cittadini di agire nei confronti dei ritardi o delle inefficienze delle amministrazioni.
Tuttavia, uno sguardo più attento mostra tutti i potenziali problemi che potrebbero derivare dalla sua attuazione, così come disegnata dalla legge 15/2009 e dallo schema di decreto legislativo attuativo diffuso da Palazzo Vidoni.
Sono del tutto inafferrabili i presupposti concreti per attivare l’azione. La legge prevede che cittadini singoli o associazioni possano attivarsi se dalle inefficienze gestionali consegua “la lesione di interessi giuridicamente rilevanti per una pluralità di utenti o consumatori”. Risulta macroscopica la vaghezza del presupposto. La legge, ma anche lo schema di decreto legislativo, non definisce in alcun modo quali siano gli interessi giuridicamente rilevanti e in cosa consista la loro lesione.
I rischi di simile genericità sono piuttosto rilevanti. Il primo, sullo stretto piano giuridico, è demandare integralmente al giudice amministrativo, sarà il Tar ad occuparsi della class action, la determinazione per via giurisprudenziale dei criteri per l’azione. Ci vorranno anni: ce ne sono voluti quindici perché i giudici amministrativi concordassero una linea interpretativa univoca sul concetto di interesse giuridicamente rilevante ai fini della tutela del diritto di accesso agli atti amministrativi.
Sul piano pratico, si presenta il rischio dell’utilizzo strumentale della class action, allo scopo di fare pressioni esterne sulla gestione. Basti pensare all’esempio di funzioni pubbliche di vigilanza come quelle esercitate dall’ispettorato del lavoro:se un insieme di aziende concorda di attivare la class action per interdire l’attività ispettiva di qualche scrupoloso ispettore, il gioco si può dire fatto. Anche se nel merito, infatti, l’azione si rivelasse infondata, basterebbe rendere pubblica la diffida che deve precedere il ricorso al Tar, per creare il “caso” e osteggiare l’azione amministrativa. Costringendo gli uffici a complesse attività di istruttoria per considerare infondate le pretese strumentali. Tanto più complesse, perché la class action prende di mira come responsabili solo i dirigenti delle amministrazioni pubbliche, come se le eventuali disfunzioni amministrative non fossero comunque conseguenza di linee politiche e strategiche determinate dagli organi di governo. I quali, però, non sono assolutamente presi in considerazione tra i possibili responsabili.
Che la class action possa risolversi in uno strumento di pressione senza alcuna effettiva utilità per i cittadini, del resto, lo dimostrano altri fattori. Il primo è la “gogna mediatica”: infatti, laddove a seguito della diffida l’amministrazione non modifichi la propria organizzazione entro il termine di un anno, come prevede lo schema di decreto attuativo, i cittadini possono agire in giudizio e il Tar dovrà dare pubblicità al ricorso (prima ancora che sia deciso) sui media.
Lo stesso termine previsto di un anno per adeguarsi alla diffida appare una mera forma. Infatti, appare eccessivamente lungo se la class action fosse fondata su disfunzioni gestionali e organizzative di dettaglio, come il mancato rispetto dei termini di procedimenti amministrativi; ma, apparirebbe solo formalistico, se oggetto dell’azione fossero le conseguenze di un dissesto finanziario, per risolvere il quale occorrerebbe ben più di questo arco di tempo.
In ogni caso, la class action nella Pa non prevede alcun diretto beneficio in capo a chi la attiva, a differenza dell’azione collettiva prevista nel campo dei servizi e del commercio. Al più, la sentenza del giudice può ordinare all’amministrazione accusata di attuare le misure per rimediare alle inefficienze (come se i giudici potessero sostituirsi alle amministrazioni nelle scelte di merito organizzativo) o a nominare un commissario ad acta.
Insomma, molta esposizione mediatica e immagine e poca sostanza. E il rischio di un intasamento senza precedenti delle aule dei tribunali amministrativi regionali, derivante dall’attivazione di azioni collettive anche infondate, sull’onda della caccia all’amministrazione sprecona a ogni costo.

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  1. ALFERAZZI GIAMBATTISTA

    Dopo lo svuotamento e la vanificazione della class action nel settore privato, eccoci di fronte all’introduzione di una class action beffa nel settore pubblico, poiché a fronte del tempo e soprattutto del denaro spesi per un’azione legale, non dà ai cittadini diritto al risarcimento del danno. Un meccanismo vuoto a costo zero, uno strumento di giustizia (si fa per dire) privo di deterrenza che, oltretutto, comportando tempi lunghi, procedure tutt’altro che snelle e dispendio di danaro, non contribuisce minimamente a riequilibrare, laddove necessario, la debolezza del cittadino utente rispetto alla Pubblica Amministrazione Si tratta, quindi, di un’azione collettiva fiction poiché per esser degna del suo nome non dovrebbe escludere l’aspetto risarcitorio, sul quale, al fine di consentire ai cittadini di intervenire in maniera incisiva, sono – invece – incentrati tutti gli altri modelli di questo istituto. Invece di una class action quella del Brunetta è fumo senza arrosto, apparenza camuffata da sostanza; insomma, alla faccia della tanto strillata trasparenza, un vero e proprio inganno nel solco della migliore tradizione italiota.

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