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NON ABBIAMO IMPARATO ABBASTANZA DALLA CRISI GIAPPONESE *

Stati Uniti ed Europa rischiano di ripetere gli stessi errori fatti dal Giappone negli anni Novanta, insistendo con politiche macroeconomiche che non servono a risolvere la crisi. Precondizioni di una ripresa economica sono la ripulitura dei bilanci delle banche e la ristrutturazione dei grandi debiti. Altrimenti, le crisi finanziarie continueranno a ripresentarsi. La teoria economica dovrebbe perciò elaborare un nuovo approccio nel quale gli intermediari finanziari siano al centro dei suoi modelli.

 

Le politiche di cui si discute oggi negli Stati Uniti e in Europa sono pressoché identiche a quelle messe in atto in Giappone una decina di anni fa. Nel 1990, c’era stato in Giappone lo scoppio della colossale bolla immobiliare, seguito poi da una serie di crisi quando le banche più importanti e le società finanziarie erano state travolte dalla rapida crescita delle sofferenze bancarie. Per tutti gli anni Novanta era opinione diffusa tra economisti e politici che una massiccia spesa pubblica e una immissione straordinaria di liquidità avrebbero favorito la necessaria fiducia sui mercati e spinto la ripresa dell’economia. L’opinione pubblica di Stati Uniti ed Europa sembra ora pensarla allo stesso modo.

GLI ANNI NOVANTA DEL GIAPPONE

In effetti negli anni Novanta il Giappone ha avviato importanti progetti di lavori pubblici e di taglio delle tasse. Tuttavia, l’economia non è riuscita a stabilizzarsi, il prezzo delle attività ha continuato a scendere e il volume delle sofferenze a crescere. Lungi dallo svanire, il senso d’insicurezza che aveva permeato i mercati è cresciuto negli anni Novanta, portando infine nel 1997 al tracollo di molte tra le più importanti istituzioni finanziarie e provocando il panico.
Anche dopo tutto questo, gli sforzi per una ripresa hanno continuato a passare attraverso la spesa pubblica su larga scala, mentre il problema delle sofferenze bancarie si incancreniva. Solo verso il 2001 la società giapponese ha finalmente abbandonato l’idea che la ripresa economica avrebbe portato di per sé alla riduzione dei prestiti inesigibili e alla stabilità del sistema finanziario ed è arrivata a capire che, al contrario, per ottenere una qualsiasi ripresa si doveva prima stabilizzare il sistema finanziario e eliminare l’insicurezza sui mercati. Sono state condotte ispezioni speciali e le grandi banche giapponesi sono state costrette ad accettare massicci aumenti di capitale e una nuova stagione di fusioni. Intanto, la Resolution and Collection Corporation e l’Industrial Revitalisation Corporation ristrutturavano le imprese giapponesi oppresse dall’enorme carico di debiti, riuscendo a risolvere il problema dei crediti non esigibili. Tutto ciò ha avviato una ripresa della fiducia sul mercato e il Giappone ha goduto di un periodo di espansione economica tra il 2002 e il 2007.
Negli Stati Uniti e in altri paesi l’opinione comunemente accettata oggi è simile a quello che era il pensiero dominante nel Giappone negli anni Novanta: l’opinione pubblica, nella sua maggioranza, non si è ancora resa conto che politiche come la temporanea nazionalizzazione delle banche e la riabilitazione dei soggetti fortemente indebitati sono una precondizione della ripresa economica. (…)

IL NUOVO PARADIGMA

Oggi si intravedono segnali di ripresa economica e diminuiscono i timori che la crisi travolga l’intera economia mondiale. Tuttavia, se iniziano a venir meno le risposte di politica economica di Stati Uniti ed Europa al problema delle attività in sofferenza, i sistemi finanziari di quei paesi saranno di nuovo vulnerabili a ricorrenti crisi finanziarie, come è accaduto più volte nel corso degli anni Novanta in Giappone .
Non sono mancati coloro che hanno riconosciuto che una ripulitura dei bilanci delle banche e la riabilitazione dei grandi debitori sono precondizioni necessarie per la ripresa economica, ma il riconoscimento è basato solo sulla base di osservazioni empiriche. L’attuale struttura teorica della scienza economica non è in grado di affrontare in un conteso integrato i problemi dell’andamento macroeconomico e la stabilità del sistema finanziario. Per esempio, nei tradizionali modelli neo-keynesiani o neo-classici, gli agenti economici sono le famiglie, le imprese e il settore pubblico, mentre il sistema finanziario è semplicemente considerato un velo tra gli altri tre settori. Il problema delle sofferenze è visto come un problema microeconomico relativo all’industria bancaria.
Ora, le crisi ricorrenti che ci troviamo ad affrontare sembrano richiedere un cambiamento nella struttura teorica della macroeconomia. Penso che sia necessario un approccio macroeconomico che comprenda gli intermediari finanziari e li collochi al centro dei suoi modelli di analisi. Il nuovo approccio dovrebbe soddisfare tre requisiti.

1. Il focus dovrebbe essere sulla funzione delle istituzioni finanziarie come mezzi di scambio e sulle condizioni che possono portare a un malfunzionamento di tale intermediazione. (…)
2. Il nuovo approccio macroeconomico dovrebbe fornire una cornice unificata per discutere i costi e l’efficacia di varie risposte politiche alla attuale crisi globale in un contesto integrato nel quale politica fiscale, politica monetaria e trattamento delle attività in sofferenza possano essere messe a confronto e pesate nel loro ruolo relativo.
3. Per fornire una cornice unificata di analisi politica, il nuovo approccio dovrebbe essere capace di inserire facilmente le crisi finanziarie nei tradizionali modelli di ciclo economico (i modelli di equilibrio generale stocastico e dinamico).

In un mio lavoro ho tentato di costruire un modello teorico che soddisfi i tre requisiti. Assumo che attività come quella immobiliare agiscono oggi come mezzi di scambio grazie allo sviluppo dei mercati, ma sono incapaci di svolgere questa funzione nel corso di una crisi finanziaria. (1)
In un modello di questo tipo, possiamo considerare la crisi finanziaria come una scomparsa dei mezzi di scambio, che innesca una brusca caduta della domanda aggregata. In questo caso, sia le politiche macroeconomiche (politica fiscale e monetaria) sia il trattamento delle attività in sofferenza possono esere interpretate come risposte mirate allo stesso scopo: ristabilire condizioni adeguate nei mezzi di pagamento. Possiamo così confrontare e analizzare tali politiche in un contesto integrato.
Se la politica macroeconomica e la stabilizzazione finanziaria attraverso il trattamento delle attività in sofferenza sono pensate per eliminare la stessa esternalità, la stabilizzazione finanziaria non è più solo un problema per la comunità finanziaria, ma è fondamentale per la ripresa dell’economia nel suo insieme. Perciò, il disegno e l’attuazione di politiche capaci di affrontare la questione delle attività in sofferenza non sono un compito da lasciare solamente ai componenti della comunità finanziaria: dobbiamo invece discutere apertamente di come dovrebbero essere costruite quelle politiche. Il trattamento delle attività in sofferenza, comprese le iniezioni di liquidità nelle istituzioni finanziarie (o la nazionalizzazione temporanea), e la riabilitazione dei grandi debitori vanno considerati insieme agli stimoli fiscali e al monetary easing, con la nuova consapevolezza che anch’essi costituiscono le politiche macroeconomiche. Forse, abbiamo bisogno di adottare un nuovo paradigma di pensiero economico.

(1) Kobayashi, K., “Financial Crises and Assets as Media of Exchange”, 2009, mimeo.

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12 commenti

  1. Piero

    Mi permetto di dissentire parzialmente. Certo che c’è ancora molta tossicità nei bilanci (e le banche stanno tirando su le borse per riadeguare i prezzi di mercato a quelli di carico). Certo che i debiti non sono ristrutturati (cioè traduzione in italiano ulteriore spostamento di overpassibilità sui bilanci degli stati ormai troppo vicini al 100% del Pil), ma mi chiedo: cosa succederebbe se mettessero in chiaro tutto ciò? Risposta semplice, semplice: il crack della fiducia e della finanza seguita da un crack del Pil che quello di oggi in confronto è acqua fresca. Quindi, un lento declino dissimulato potrebbe essere il minore di mali.

  2. stefano

    Scusate, che volete dire con lento declino? Quanti milioni di lavoratori perderanno il posto durante qeusto lento declino secondo voi?

  3. giuseppe faricella

    Ho letto l’articolo del prof. Kobayashi e dato uno sguardo alle slides allegate all’articolo stesso, e devo dire che le sue considerazioni (e i conseguenti aggiustamenti al modello) mi sembrano interessanti, quanto meno come inizio di una revisione dello schema mainstream della macroeconomia.

  4. nat

    Le banche ci porteranno alla rovina definitiva e la colpa sarà dei governi che ne sono succubi. Stanno fregando noi e le generazioni future!

  5. Vito Tanzi

    Condivido pienamente la tesi di Kobayashi: e’ un errore cercare di risolvere una crisi finanziaria con una espansione della spesa pubblica. Il risultato principale e’ la creazione di una crisi fiscale ed un aumento del debito pubblico che diventa una spada di Damocle sulla testa dell’economia negli anni successivi alla crisi. Come sostiene Kobayashi, la via migliore e’ ripulire i bilanci delle banche e ristrutturare i grandi debiti. Nel mio libro "Peoples, Places and Policies: China, Japan and Southeast Asia" (New York: 2008,p 122-125), scritto prima della crisi attuale, avevo avanzato la stessa tesi di Kobayashi ed avevo criticato il FMI, di cui avevo fatto parte, per aver spinto il Giappone verso l’espansione Keynesiana durante la seconda meta’ degli anni novanta. Ora il Giappone si trova con un debito pubblico di quasi 200 per cento del PIL un debito che continuera’ a creare grosse difficolta’ per quel paese per molti anni futuri.

  6. Marco

    L’assunto di partenza è corretto, la soluzione proposta equivale a dare metadone ai drogati; li farà anche stare meglio ma di certo non porrà fine alla loro dipendenza. Famiglie, imprese, Stato nella teoria economica corrente sono gli unici attori rilevanti. Dato per assodato che il problema stia nelle banche (nè imprese, troppo grandi per fallire, nè Stati sottoposti ad un controllo democratico) non vedo come paradigmi novecenteschi possano in qualche modo cambiare le cose. Voleranno stracci al prossimo Bildenberg?

  7. marco

    Le tesi di Kobayashi sono molto interessanti. Nel mio piccolo aggiungo un’ulteriore condizione. Il too big too fail non deve esser permesso, troppo alto il potere d’interdizione e d’influenza che hanno le banche che si trovano in questa condizione.Le banche in difficoltà andavano nazionalizzate, il management spazzato via, fatto emergere il problema degli asset nelle sue reali propozioni, usare i soldi pubblici per ripulirle (inevitabile), spacchettarle e rivenderle sul mercato. Purtroppo una conseguenza di questa crisi è che le too big too fail, son o diventate ancora più grosse.

  8. renato maino

    Colgo uno spunto molto interessante riguardo il ruolo monetario di talune attività (come quelle immobiliari) in economie ad alto tasso di finanziarizzazione. Mi sono permesso anch’io di sviluppare ipotesi del genere in merito all’ultima crisi. La sensazione molto forte è che esistano vie di creazione automatica di quasi moneta, in grado di agire al di fuori di un controllo globale dell’offerta di mezzi di pagamento. Tali meccanismi possono innescare/esaltare fenomeni di asset inflation/deflation. Sono meccanismi molto delicati su cui sarebbe troppo frettoloso pensare di eliminare solo allargando i poteri di controllo delle autorità centrali. è un tema fondamentale per il futuro. C’è solo da sperare per ora che la nuova macro vigilanza abbia almeno capacità di comprensione, allerta e coordinamento adeguati.

  9. Francesco

    Leggo da iceebergfinanza.splinder.com; Morya Longo sul Sole 24 ore ci racconta che: "Nel secondo trimestre dell’anno hanno (le grosse banche americane) registrato ricavi a palate: 32 miliardi di dollari Bank ofAmerica, 29,9 Citigroup, 25 JP Morgan per citarne solo alcune. Il problema è che gran parte di questi ricavi non sono arrivati dalla tradizionale attività bancaria, ma sono stati conseguenza diretta del rally dei mercati: secondo i calcoli di «Analisi mercati finanziari» del Sole 24 Ore, che ha passato in rassegna 12 tra le principali banche europee e americane, il 59% dei ricavi sono arrivati da attività di trading, da dividendi e da commissioni. Insomma: le banche mondiali assomigliano oggi più a fondi che a istituzioni creditizie. Più che finanziare imprese e famiglie, speculano sui mercati, e in questo modo, realizzano utili a palate". Ora, la mia domanda a Kobayashi e colleghi è la seguente: "Ma una volta messo a punto il "nuovo paradigma", saremo davvero soddisfatti solo per aver finalmente capito il modo in cui veniamo ripetutamente tr…..ati? (Mi scuso per la volgarità).

  10. Tommaso Sardelli

    Ho una visione diametralmente opposta. Il problema di fondo è confondere il lubrificante (la moneta) con il carburante (l’occupazione). Un tempo, l’obiettivo macroeconomico primario era il pieno impiego e si puntava ad esso concretamente (vedi negli SU la legge sull’occupazione del 1946, le normative italiane ecc…). Gli altri indicatori quali debito pubblico e inflazione erano da tenere sotto stretto controllo, ma si imponeva di agire responsabilmente per tale obiettivo. Lavoro significa reddito disponibile e quindi economia "sana" che fa girare il denaro velocemente e in modo esteso e crescente. Insomma il mass-market su cui si basa il sistema capitalistico. Se la ricchezza non raggiunge tutti sottoforma di occupazione, le cose inziano a "scricchiolare". Le politiche economiche e industriali devono invece tornare a mettere al centro il lavoro. Ciò non significa ignorare l’inflazione o non gestire oculatamente il denaro pubblcio, ma creare le opportunità per uno sviluppo sostenibile e duraturo. L’economia finanziaria solo così potrà tornare a fare business in modo sano. NB: la Fiat fa il proprio conto economico con le Punto, non con le Ferrari, banale ma così tanto ignorato!

  11. Daniele Sireus

    Condivido in pieno l’analisi presentata nell’articolo. E’ verissimo che in modelli teorici passati l’obiettivo era principalmente quello della piena occupazione e la moneta (e il sistema finanziario nel suo insieme) era visto unicamente come lubrificante del sistema economico; ma è altrettanto vero che il mondo è cambiato. Viviamo in un mondo globalizzato, integrato, con economie altamente finanziarizzate. La finanza e il sistema finanziario è divenuto sempre più un comparto fondamentale dell’economia. Ha generato mercati, si serve dei mercati. E’ un mercato a se stante, ma al tempo stesso serve a far integrare gli altri mercati tra loro: sarebbe opportuno inserirlo nei futuri modelli macroeconomici, al pari degli operatori. Solo così la visione d’insieme sarà completa.

  12. Gianni

    Kaobayashi dovrebbe prima di tutto chiedersi (e tentare di capire) perché ci sono così tanti asset irrecuperabili nei bilanci della banche e piu’ in generale così tanti errori sono stati compiuti da investiotori e imprenditori Sino a quando keynesianamente penserà che è un caso del destino, sia colpa degli "animal spirits" e similaria non capirà un bel niente. In secondo luogo ostinarsi a considerare l’economia un processo stocasrtico è travisare completamente il funzionamento dell’economia che ovviamente non è un lancio di una monetina in condizioni costanti. Ma sequenze di eventi eventi unici e irripetibili in contesti sempre diversi guidati non dal caso ma da relazioni causa ed effetto L’articolo di Kobayashi fa capire bene che non solo non si uscirà dalla crisi corrente come non si è usciti da quella giapponese degli anni ’90 e dalla Grande Depressione degli anni ’30 (se non con una guerra mondiale) ma siamo destinati a sperimentare sempre nuove e più devastanti bolle e crisi economiche.

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