Più che per un fallimento, il vertice sul clima di Copenaghen verrà ricordato come un passo decisivo nella diplomazia del G2. Ma si tratta di un accordo discusso, scritto e infine condiviso da solo cinque paesi e poi sottoposto agli altri, che ne hanno preso atto. Apre perciò scenari del tutto nuovi. Quale sarà a questo punto il ruolo delle Nazioni Unite? E quanto tempo sarà necessario all’Europa per reagire con coesione?
Laccordo finale non poteva mancare. Il costo del fallimento per non aver saputo trovare un compromesso sarebbe stato troppo alto per tutte le parti in causa. Per lamministrazione Obama che, nonostante la continua campagna elettorale interna anche su questi temi, doveva sottolineare, ancora una volta, la propria missione verso un new green deal. Per la Cina e gli altri paesi emergenti protagonisti di questo accordo, che dovevano chiaramente dimostrare di non essere quegli insensibili free rider continuamente (e mediaticamente) esposti alla critica serrata da parte delle potenze occidentali.
ASPETTANDO CITTÀ DEL MESSICO
Molti commentatori si sono soffermati sulla debolezza dellaccordo raggiunto. Di tutto quello di cui si è discusso negli ultimi mesi e di tutte le aspettative è rimasto lobiettivo di contenereentro i 2 gradi centigradi l’aumento della temperatura media planetaria, insieme all’impegno finanziario verso i paesi più poveri: 30 miliardi di dollari per il triennio 2010-2012 e 100 miliardi all’anno dal 2020 in poi. Degli altri progetti rimane molto poco, oltre alla promessa da parte di tutti i paesi di presentare entro gennaio obiettivi di riduzione per il 2020.
Tutto questo nella speranza che, durante il prossimo vertice a Città del Messico (Cop 16, 29 novembre 10 dicembre 2010), possa essere firmato un accordo internazionale legalmente vincolante.
Rimane significativo che, appena tornato in patria, il presidente Obama abbia voluto sottolineare questo aspetto.
PRESIDENZA INADEGUATA
Mentre lasciamo ad altri il commento più approfondito dei risultati raggiunti, riteniamo sia utile soffermarci su alcuni aspetti meno considerati, ma che sono stati comunque fondamentali nel determinare il successo (o meglio, linsuccesso) delliniziativa.
La Danimarca ha ospitato lincontro e lo ha fatto con cortesia ed efficienza. Ma, a detta di molti osservatori, non ha dedicato sufficiente attenzione alla scelta della persona che avrebbe dovuto gestire gli incontri. Il presidente della Conferenza svolge un ruolo centrale nellorganizzazione dei lavori, specie di quelli che avvengono al di fuori delle occasioni formali. Per diverse circostanze, questo ruolo non è stato coperto con la dovuta attenzione. Quella che sembrava la persona giusta, Thomas Becker, ovvero il capo negoziatore sui temi del cambiamento climatico per la Danimarca, è stata costretta alle dimissioni due mesi prima dellincontro per uno scandalo su alcuni rimborsi spesa gonfiati. Lex primo ministro danese, Anders Fogh Rasmussen, sarebbe stato probabilmente un valida alternativa, ma dal primo settembre di questanno è stato nominato segretario generale della Nato.
Dopo varie vicissitudini, lingrato compito di presiedere la conferenza è toccato al ministro per lEnergia e il clima, Connie Hedegaard, la cui inesperienza in fatto di difficoltà negoziali era già stata sottolineata da molti esperti. (1) A riprova della previsione, Connie Hedegaard è stata costretta alle dimissioni nel bel mezzo della Conferenza, lasciando lincombenza al primo ministro Lars Lokke Rasmussen. Il ministro Hedegaard, che peraltro è di recente nomina a Commissaria Ue per lazione climatica, la neonata figura creata dal Barroso II, ha dovuto lasciare a due giorni dalla conclusione. Ufficialmente per motivi protocollari (Troppi capi di Stato e di Governo. È giusto che a presiedere sia il primo ministro), ma in realtà perché inopinatamente e in maniera sconsiderata sin dalle primissime battute della conferenza aveva rilasciato una bozza di documento negoziale troppo a vantaggio dei paesi industrializzati, con lunico risultato di indispettire immediatamente tutti gli altri paesi, in particolare quelli dellAfrica.
NASCE IL G2?
Un secondo punto di particolare interesse, e che sembra trascurato dalla gran parte delle analisi che sono state condotte finora, riguarda la forma di questo accordo e il modo in cui è stato approvato.
Fino a Copenaghen, il negoziato era sempre stato interamente gestito dalle Nazioni Unite, utilizzando le forme proprie della diplomazia: i documenti venivano elaborati allinterno dei poteri e delle responsabilità del Segretariato della convenzione o comunque, se elaborati in gruppi ristretti, erano fatti propri dal Segretariato stesso.
In questo caso, abbiamo assistito per la prima volta a una sorta di outsourcing dellesperienza negoziale. E non è detto che il meccanismo possa aprire una nuova strada al futuro delle negoziazioni. Cinque paesi (Stati Uniti, Cina, India, Brasile e Sudafrica) hanno, di fatto, scelto per tutti lasciando gli altri (Europa e Giappone in testa) di fronte allalternativa tra laccettare quellaccordo e il non averne alcuno. Il carattere privatistico dellaccordo raggiunto non potrà non avere degli effetti anche nel prossimo futuro. Cinque paesi hanno discusso, scritto e infine condiviso un testo finale, che si chiama appunto Copenaghen Accord, mentre lassemblea Onu (la Conferenza delle parti) si è limitata, alla fine dei suoi lavori, a prendere atto dellavvenuto accordo (The Conference of the Parties takes note of the Copenhagen Accord of 18 December 2009.).
Europa e Giappone, nonostante i mal di pancia per lesclusione, hanno deciso di appoggiare la decisione per mancanza di ogni altra alternativa. Non è un caso che il presidente della Commissione, Josè Manuel Barroso, durante una conferenza stampa tenuta alle due di notte, abbia sostenuto che Un cattivo accordo è meglio di nessun accordo.
Non ci sono ragioni per difendere il modo di procedere dei cinque paesi protagonisti dellaccordo. Qualcuno ha indicato il nascente spirito del G2, altri hanno voluto sottolineare il carattere pragmatico delle scelte obamiane e il suo desiderio di apparire ancora una volta come colui che risolve uno stallo che pareva definitivo.
Un comportamento del genere mette in conto e se ne disinteressa totalmente lulteriore perdita di leadership delle Nazione Unite e uno schiaffo allattuale Segretario generale.
Quello che è meno comprensibile è perché gli Stati Uniti abbiano voluto umiliare in particolare Europa e Giappone, escludendoli dallaccordo iniziale. Voglia di protagonismo climatico? Paura delle pastoie europee? Voglia di affermare che il nuovo ordine mondiale è sempre più bipolare?
Saranno i prossimi mesi a chiarire meglio il quadro.
(1) Vedi, per esempio, Copenhagen Needs a Strong Lead Negotiator, di Raúl Estrada-Oyuela, Nature 461, 1056-1057 (22 October 2009). Estrada è stato il negoziatore capo durante il meeting di Kyoto e uno degli artefici di quellaccordo.
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Filippo di Robilant
Solo chi aveva aspettative troppo alte può dirsi deluso. E’ da settembre che si sa che Oboma puntava tutto sulla riforma sanitaria e, di conseguenza, che il Congresso non avrebbe votato impegni sui cambiamenti climatici. Obama è dunque sbarcato a Copenaghen con tanta buona volontà, ma sostanzialmente a mani vuote. E la Cina, pur impegnata nella lotta alle emissioni domestiche e pur rivendicando leadership nelle energie rinnovabili, non accetta vincoli esterni. Come l’India, d’altronde. Quando si ricomporrà la situazione? Difficile dirlo, visto che gli Usa hanno bisogno della Cina per il debito pubblico, e anche per gestire le patate bollenti Afganistan/Pakistan e Iran. Quindi Obama è stato il primo a non spingere o, comunque, non era nella migliore posizione per negoziare o trascinare gli altri. L’Europa? A parte la cacofonia, è probabile che a breve decida, grazie a Francia e Germania, di aumentare i tagli dal 20 al 30% entro il 2020, mentre l’Italia, reduce dalla battaglia di retroguardia per abbassare, anziché confermare, i tagli, negli ultimi anni ha investito poco nell’innovazione energetica, restando lontana dagli obiettivi di Kyoto. Prima di un’eventuale irrilevanza europea è quella italiana a doverci preoccupare.
Bruno Stucchi
"è rimasto lobiettivo di contenere entro i 2 gradi centigradi l’aumento della temperatura media planetaria". Oh Bella (center)! Dobbiamo supporre che finalmente in Danimarca hanno trovato la rotella del termostato planetario? Questa è, per dirla piatta, la bischerata del secolo. Nel frattempo abbiamo saputo che il Mago Otelma dell’IPCC (Rajendra Pachauri; che per altro è un perito ferroviario, non un climatologo e non ha nessun titolo accademico scientifico) in fatto di conflitto di interessi nel "carbon trade" non è proprio una Maria Goretti. Forse il flop di Copenhagen non è un male. Doveva essere, dopo Kyoto e altri mille cogressi e convegni, il punto finale. Adesso si spera (chi?) in Città del Messico. Al momento però sembra l’ultimo chiodo nella bara dell’AWG. P.S. Anche il redattore (si spera) di questo articolo è un "politiko", non uno scienziato. Punto.
Giovanni Wyder
Non è stata coinvolta nell’accordo finale, ma forse perchè prima della classe nelle proposte e per la prima volta veramente unita.
Alfredo Ranisi
Assolutamente d’accordo con il Prof. Alessandro Lanza. Oramai l’Europa non conta più nulla, insieme al Giappone. Dobbiamo solo aspettare che Mister Barack e il Presidente cinese si mettano d’accordo e decidere prima di tutto il loro futuro (in termini numerici di popolazione e poi il nostro). P.s. Il Dott. Lanza è una persona apolitica che conosce bene tutto ciò, basta leggere il suo curriculu vitae (attuale Ad. della Eni University Corporate), quindi prima di qualsiasi commento negativo ci si documenti e poi… Alfredo Ranisi
emanuela scridel
Condivido ampiamente quanto argomentato nell’articolo, che è peraltro quanto sostengo anch’io nel mio, pubblicato su ResetDOC e intitolato: " L’ Unione Europea: una potenza non vincolante" . Link