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TUTELIAMO IL REDDITO, NON IL POSTO FISSO

I vincoli ai licenziamenti previsti dalle normativa italiana hanno lo scopo di assicurare il lavoratore contro le possibili fluttuazioni del mercato del lavoro e trasferirne il peso sull’impresa che può neutralizzarle con maggiore facilità. Ma ai vantaggi di una maggiore stabilità dell’impiego corrispondono i costi di una più lunga durata della disoccupazione e di minori salari. Senza contare i diversi modi per aggirare la legislazione, un problema che la crisi ha reso ancora più evidente. Meglio allora ripensare l’intero modello.

Con il varo della legge che prevede il ricorso all’arbitrato secondo equità invece che al giudice ordinario in caso di licenziamento individuale, si è tornati a parlare di regimi di protezione del posto di lavoro.
Le parti contrattuali possono stabilire clausole compromissorie per demandare la soluzione delle controversie a un collegio arbitrale. Ciò deve essere previsto da contratti collettivi di lavoro subito in vigore. Si tratta di una “mini” riforma che forse non intacca i diritti fondamentali dei lavoratori in caso di licenziamento (come l’articolo 18) ma neanche risolve i problemi connessi ad un mondo del lavoro sempre più diseguale. È un’altra occasione mancata.
L’arbitrato si muove nella direzione giusta di cercare di ridurre il contenzioso nelle cause di lavoro, ma il problema del mercato del lavoro italiano non è nella tutela processuale del lavoratore ma in quella sostanziale. E per tutela sostanziale intendiamo una tutela che si estenda ai periodi di disoccupazione e ai moltissimi lavoratori che oggi non sono affatto tutelati dalle leggi sui licenziamenti.
Per tutela sostanziale non intendiamo alzare i costi di licenziamento alle imprese. Più di una volta nel passato si è intervenuti direttamente per aumentare i costi del licenziamento. Questo approccio, seguito dal legislatore italiano, tutela il lavoratore proteggendone il posto di lavoro, ma non il reddito in caso di disoccupazione. Quel che vogliamo sottolineare è che la protezione dal licenziamento non è gratis per i lavoratori.
Per stimare i costi delle leggi di protezione del lavoro abbiamo studiato un episodio del 1990, quando in Italia fu approvata una legge che aumentò i costi di licenziamento per le piccole imprese sotto i 15 dipendenti.

L’EVOLUZIONE DELLA LEGISLAZIONE ITALIANA

Secondo la legge il datore di lavoro può licenziare un lavoratore, senza incorrere in costi aggiuntivi, solo qualora ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo. La prima fa riferimento a eventi che incrinino il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e il lavoratore. Il secondo a motivazioni di natura economica. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 prevede, in caso di licenziamento non giustificato, l’obbligo per il datore di lavoro di reintegrare (tutela reale) il lavoratore e corrispondergli una indennità a titolo di risarcimento del danno subito da un minimo di cinque a un massimo di dodici mensilità (tutela obbligatoria). La legge si applica solo ai datori di lavoro che occupino, nell’unità produttiva nella quale ha avuto luogo il licenziamento, più di quindici lavoratori.
La legge 108 del 1990, approvata in fretta e furia per evitare un referendum che avrebbe esteso l’articolo 18 a tutte le imprese, introduce la tutela obbligatoria per le piccole imprese sotto i quindici dipendenti fino ad allora esenti da costi di licenziamento. La riforma impone, in caso di licenziamento ingiustificato avvenuto in un’unità produttiva con meno di quindici lavoratori, l’obbligo di risarcimento con un’indennità pari a minimo 2,5 e massimo 6 mensilità. La legge del 1990 ha quindi alzato la protezione dei lavoratori, in effetti imponendo una tassa sui piccoli imprenditori sotto i quindici dipendenti. Ma chi ha pagato quella tassa? Come si sa in economia non sempre l’incidenza nominale della tassa corrisponde a quella reale.

EFFETTI ECONOMICI DEL PROTEZIONE DELL’IMPIEGO

La presenza di vincoli ai licenziamenti induce le imprese a ridurre quanto più possibile le variazioni della forza lavoro nel corso del ciclo economico, “appiattendone” il profilo nel tempo, allo scopo di minimizzare i costi di aggiustamento in cui incorrono. Se ciò da una parte rende più stabili i rapporti di lavoro, rende anche più difficile l’ingresso nel mondo del lavoro da parte chi è in cerca di occupazione.
La maggiore stabilità tuttavia non è gratuita. Un aspetto spesso ignorato dei costi di licenziamento consiste nella possibilità che le imprese li aggirino facendoli pagare ai lavoratori attraverso minori salari. Un’analisi della riforma del 1990 mostra che la legge ha ottenuto gli effetti previsti: alzando i costi di licenziamento sulle piccole imprese ne ha ridotto i licenziamenti, ma anche le assunzioni. (1)
Tuttavia, parte dell’aumento dei costi di licenziamento è stato pagato non dalle imprese, ma dai lavoratori nella forma di minori salari. La riduzione dei salari dei lavoratori delle piccole imprese rispetto alle grandi dopo la riforma del 1990 è di circa il 3 per cento, il che corrisponde a un trasferimento del 40 per cento dei costi di licenziamento dalle imprese ai lavoratori. Il calo è possibile in quanto molto spesso i lavoratori delle piccole imprese non hanno potere contrattuale nella determinazione del salario.

PROTEZIONE DELL’IMPIEGO O DEL REDDITO?

Quale lezione trarre da questo episodio? Primo, nei roventi dibattiti che periodicamente si affacciano sulla scena italiana sarebbe opportuno considerare non solo i vantaggi che la legislazione offre ai lavoratori (maggiore stabilità dell’impiego) ma anche i costi (maggiore durata della disoccupazione e minori salari). Secondo, se è vero che l’arbitrato è un modo per aggirare la legislazione in materia di protezione dell’impiego, è anche vero che esistono tanti altri modi di aggirarlo, tra cui quello di ridurre i salari o di costringere i lavoratori ad aprirsi una partita Iva.
Ed è ingente la massa dei lavoratori oggi esposta alle fluttuazioni del mercato del lavoro, perché a tempo determinato o perché a partita Iva o altro. L’attuale crisi ha riproposto con drammaticità questo problema. A questo punto, non è meglio ripensare l’intero modello e puntare sulla protezione del reddito dei lavoratori piuttosto che sulla protezione del posto di lavoro?

(1)Leonardi, M. e Giovanni Pica “Employment Protection Legislation and Wages” IZA Discussion Paper 2680.

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IL COMMENTO DI DANIEL GROS

31 commenti

  1. francesco scacciati

    D’accordo con gli autori per quanto concerne gli aspetti critici. Meno per quelli propositivi. Chi paga la protezione del reddito dei lavoratori? I "padroni" (scusate il termine fuori moda). Neanche se li vedessi, ci crederi.

  2. romano.calvo@libero.it

    Concordo con il testo o meglio con le intenzionalità di questo scritto. Mi permetto tuttavia di sottolineare che la correlazione empirica che essi propongono (aumento dei costi del licenziamento uguale minori salari) non ha i caratteri della prova empirica, trattandosi soltanto di una semplice associazione tra due variabili non essendo dimostrabile il nesso causa effetto. Avendo seguito in quegli anni l’introduzione della legge per le piccole imprese mi sento di affermare che invece quella fu una gran bella legge e non avete nemmeno idea di quanto sia servita a portare civiltà nei rapporti di lavoro della piccola impresa. Altro discorso è l’art. 18 e la tutela del lavoro nella grande impresa, e concordo sul coraggio di spostare l’attenzione dalla tutela dentro alla tutela fuori dall’azienda. Il tema delle partite IVA non può essere letto soltanto come scappatoia al lavoro dipendente e garantito, ma va inquadrato in un discorso più generale sul post fordismo. ACTA, http://www.actainrete.org , pubblicherà una analisi sul tema nel prossimo numero di Mondoperaio.

    • La redazione

      Dal punto di vista tecnico il problema principale dell’analisi che facciamo è proprio quello di stabilire un nesso causale tra la riforma
      della legge del 1990 e i cambiamento dei salari delle imprese piccole rispetto a quelle grandi. Per fare questo analizziamo le imprese di 13-14 dipendenti e quelle di 15-16 dipendenti cioè appena sopra o sotto la soglia a cavallo dell’anno 1990 di attuazione della riforma.
      Noi troviamo un effetto proprio nell’anno della riforma che è difficile attribuire ad altri fattori se non alla riforma del 1990. E’
      probabile che la legge sia servita nelle piccole imprese, come dice lei. Noi non prendiamo posizione contro legge del 1990, vogliamo solo sottolineare che i lavoratori pagano in forma di minori salari la protezione contro il licenziamento e che quindi i benefici che ne
      traggono non sono così alti come sembrano.

  3. Gianluca Vecchio

    Io propongo una democrazia dove le politiche economiche siano dettate dagli economisti che scrivono su La Voce. Illuminanti! G_

  4. Andrea Zafferani

    Leggendo questo articolo ho avuto due reazioni, di cui la seconda è nettamente prevalente. Prima reazione: le considerazioni svolte non sono particolarmente pertinenti alla mini-riforma varata dal Governo. Sono considerazioni che riguardano la struttura del mercato del lavoro, mentre il Governo è andato ad incidere sulla tutela giuridica del lavoratore di fronte al licenziamento, rendendola meno incisiva. In sostanza, le considerazioni dei 2 autori toccano l’analisi generale, il provvedimento del Governo si concentra su una cosa particolare, che ha una valenza in sè e non può essere sottaciuta dicendo che il "generale" non funziona bene. Seconda reazione. Gli autori hanno perfettamente ragione riguardo all’analisi generale del mercato del lavoro. Si tende a tutelare il posto di lavoro e non il reddito. Siamo sostanzialmente ancorati ad un epoca finita, quella del posto fisso legato ad un azienda, mentre il mondo è cambiato. L’errore è quello di cercare di smontare questo modello partendo da riduzioni progressive dei diritti non compensate da nuove forme di tutela che possano sostituire quel che si perde. Perchè in Italia non si riesce a declinare un modello di flex-security?

  5. mirco

    I " Padroni" italiani fintanto che sono rappresentati dalla classe politica che si identifica nel Pdl di Berlusconi non sono affidabili sono un baro come il presidente del consiglio. Altro che un sistema in cui si difenda il reddito! Questi anche nella legislazione del lavoro vogliono farti il mazzo ! e se ne sbattono della costituzione.

  6. Marcello Battini

    il concetto è corretto. Chi ha un lavoro guadagnerà, in maniera adeguata, al lavoro svolto ed ai consumi necessari per conservare la propria capacità lavorativa (comprendendo anche le esigenze familiari), chi non ha un lavoro ha diritto a soddisfare, al minimo, le proprie necessità di sopravvivenza. I soldi per fare questo ci sarebbero, purchè l’attività assistenziale fosse calibrata sulle esigenze degli aventi diritto, invece che su quelle dei prestatori di servizi. Una ricerca di qualche anno fa (Dell’Erario?) affermava che, nel bilancio pubblico italiano, c’erano 45.000 euro l’anno disponibili per ciascun avente diritto. Quanti di questi soldi arrivavano agli aventi diritto? Quanti si fermavano per strada?

  7. hominibus

    Sarebbe meglio se il rapporto tra impresa e lavoratore fosse reso completamente regolato dall’interesse reciproco a lavorare insieme, essendo molti i motivi che portano ad una interruzione e costoso l’intervento di terze parti dirimenti. Un lavoratore è una risorsa per il datore di lavoro, a cui, però, egli deve poter rinunciare se il costo relativo non è più remunerativo in termini di produttività, principale missione per l’impresa. Il problema deve essere assunto interamente dallo Stato, assicurando non un posto più o meno fisso, maminimi di reddito a tutti i cittadini, lavoratori e non, come servizio di pace sociale.

  8. Luciano Galbiati

    La mitica flexicurity di Svezia e Danimarca è una "simpatica" fiaba nordica. La realtà diverge dalla narrazione apologetica (e interessata). Svedesi e Danesi "autoctoni" sono, in maggioranza,inseriti nella cittadella fortificata dei diritti e dei privilegi (pletorici e sicuri impieghi pubblici o posti ben retribuiti nelle grandi aziende private). I lavori meno qualificati,meno pagati o più esposti alla competizione (spesso un lavoro riassume in sè tutte queste"qualità") sono lasciati (da tempo) a manodopera immigrata. Divisione sociale del lavoro (oneri e rischi compresi) dissimulata dalle statistiche macro-economiche. La decantata"mobilità" di tanti giovani scandinavi (loro sì;che non sono petulanti bamboccioni!) è una vacanza in Italia con un generoso sussidio di disoccupazione. Una certezza. Senza la tutela dell’articolo 18 i lavoratori saranno più deboli e ricattabili.Difendiamo il diritto al lavoro. Il disprezzo per il "posto fisso" è lo sport preferito di chi ha piedi "caldi" e "tasche piene".

  9. alberto

    Sono del tutto d’accordo con voi, avendo tra l’altro subito una “uscita consensuale” da una media impresa, so bene quanto le garanzie offerte dall’art. 18 siano spesso illusorie e legate solo al fatto che l’impresa sia pubblica o operi in regime di monopolio o di cartello. Le imprese che stanno sul mercato l’art. 18 lo aggirano e ti lasciano a piedi… e non potrebbe essere diversamente. Giusto quindi abbandonare le garanzie fittizie e parlare di tutela del reddito fuori dell’azienda e di un supporto reale alla riqualificazione ed al ricollocamento.

  10. giovanni farinola

    Con gli "imprenditori" che ci sono in Italia vedo difficile che gli stipendi possano aumentare a fronte di un sistema degli ammortizzatori più efficiente. Nella maggior parte dei casi si vedrebbe un quadro con stipendi più bassi a fronte di una precarietà generale e diffusa. Grazie per l’attenzione.

  11. GIANLUCA COCCO

    La normativa italiana sulle protezioni per i lavoratori appartenenti ad imprese con un organico superiore alle 15 unità lavorative (al netto delle categorie escluse) rappresenta una delle poche prescrizioni che dovremmo sbandierare in tutta Europa e della quale dovremmo pretendere l’estensione a tutte le imprese. Non si tratta di difendere il posto fisso differendo il termine contrattuale oltre la soglia di sostenibilità economica delle imprese. Si tratta solamente di garantire la civiltà nel rapporto di lavoro, che è caratterizzato dalla presenza di persone in carne e ossa e non di merci. Le analisi statistiche dimostrano che in Italia si licenzia tanto e senza difficoltà, che i ricorsi contro i licenziamenti sono tutt’altro che significativi, che il loro risultato è tutt’altro che scontato, che non esiste alcun effetto soglia sulla propensione ad assumere per le imprese prossime al raggiungimento dei 16 dipendenti. I bassi salari e gli abusi perpetrati a danno dei lavoratori hanno ben altra origine e gli strumenti per tutelare i redditi dovrebbero essere ben altri. L’abbattimento delle presunte rigidità in uscita si basa su considerazioni meramente preconcette.

  12. stefano delbene

    Su di un altro blog avevo positivamente commentato l’introduzione dell’arbitato laddove si tratti di un’effettiva scelta delle due parti. Il decreto come proposto parrebbe andare in una diversa direzione, rendendo nei fatti obbligatoria per chi è più debole. Diverso è il caso di soggetti “forti” e quindi in grado di poter affrontare diversamente questa trattativa. Questo preambolo serve a introdurre il commento all’articolo di Leonardi e Pica, che se giustamente pone il problema della dualità dei mercati del lavoro, fatti di soggetti “forti” e da soggetti “deboli”, non ne tiene conto nell’individuare una soluzione che, teoricamente convincente, potrebbe funzionare solo in un caso: la distribuzione a tutti i cittadini, a partire da una certà età, indipendentemente dalla loro situazione occupazionale, di un salario sociale in grado di garantire alla persona non il minimo indispensabile, ma il necessario per godere dei diritti di cittadinanaza. In tal caso si potrebbero introdurre tutte le misure di flessibilità che si vuole: mancando il potere ricattatorio, esse finirebbero per essere più a vantaggio del lavoratore che dell’impresa.

  13. Bruno Stucchi

    Quando un’azienda, grande o piccola che sia, decide, quasi sempre (ma non sempre) per motivi ragionevoli, di licenziare, licenzia e non se ne parla più. Ci vorrà più o meno tempo, si andrà per avvocati e giudici, ma il risultato finale è scontato. Parlare di articolo 18 è come discutere di quanti spilli stanno sulla testa di un angelo (o è il contrario?).

  14. PDC

    Quante volte ho sentito questo mantra? La tutela del posto di lavoro è nemica della flessibilità, ovvero di una più efficiente allocazione delle risorse. L’Italia ha bisogno di recuperare competitività e quindi di ridurre le tutele (libertà di licenziamento). Tutto questo compensato da una “rete di salvataggio” (sussidi di disoccupazione). Si tratta di mitologia neoliberista fondamentalmente scorrelata dalla realtà. Tanto per cominciare, già oggi licenziare si può e molto facilmente, basta volerlo. Chi lo nega, mente (e posso immaginare molte ottime ragioni per mentire su questo punto). Secondo, la scarsa produttività italiana è legata alla scarsa qualità della sua classe dirigente, non a mancanza di flessibilità della classe lavoratrice. Terzo, è una pia illusione (per quanto cara ai redattori de lavoce) che l’Italia possa permettersi un sistema di protezioni avanzato per chi è senza lavoro, e questo sia per ragioni culturali (i sussidi finirebbero tutti ai lavoratori in nero del mezzogiorno) che politiche (bisognerebbe recuperare i fondi facendo pagare le tasse a quei milioni di italiani che non lo fanno e che continueranno a non farlo).

    • La redazione

      Non abbiamo intenzione di portare avanti nessuna ideologia, tantomeno liberista. Vogliamo sottolineare che di solito non c’è niente di gratuito e che è probabile che una maggiore protezione del lavoro (che, come sottolineiamo nell’articolo, ha una ottima ragion d’essere) la pagano in parte i lavoratori sotto forma di minori salari. Non è un’indicazione normativa, è una descrizione, una presa d’atto della realtà.
      Inoltre, proprio perché è vero che, come dice lei, già oggi si può licenziare facilmente e quindi una gran parte della forza lavoro è
      esposta alle fluttuazioni economiche, non le sembra il caso di cercare di individuare modalità alternative di protezione della parte debole del mercato del lavoro?

  15. angelo agostini

    Ho vissuto in prima persona l’esperienza di usufruire degli "ammortizzatori sociali" stile nordeuropa: fantastici! Innanzitutto, il denaro va al lavoratore, non all’azienda, e chi fallisce, fallisce: è il capitalismo, baby! Poi, tutti i lavoratori dipendenti ne hanno diritto, automaticamente e dal giorno successivo al licenziamento. Non solo alcune categorie, e non solo i dipendenti di aziende maggiori. Appunto perchè il denaro va direttamente al lavoratore. I fondi? Sono contributi presi dalle retribuzioni degli aventi diritto, mentre non esiste la "liquidazione", invenzione subdola per permettere agli imprendidor di fare il capitalismo con i soldi dei lavoratori… Il risultato è un sistema privo di tensioni, in cui ad es. il singolo lavoratore non subisce ricatti da parte di datori di lavoro scorretti perché la sua tutela è singola ed automatica. Se l’imprenditore ti licenzia perchè non ridi alle sue battute, nessun dramma: dal mattino successivo scatta l’indennità! E’ veramente un sistema eccellente, altro che C.I.G. e TFR…!

  16. walter

    Per esempio, ci sono imprenditori che chiudono un’azienda per riaprirne un’altra; nel frattempo i lavoratori in mobilità (pagata da noi) lavorano in nero, per non perdere la possibilità di essere riassunti. Questa è la realtà imprenditoriale italiana, fatta di evasione fiscale, evasione Inps, profitti privati al sicuro all’estero e intervento dello Stato. Quanto devono pagare ancora i lavoratori?

  17. Mauro Fogliato

    Bisogna tuttavia ricordare che la produttività (a cui si vuole, legittimamente, legare il salario) tende a diminuire quando aumenta la flessibilità. Questo perché, nella scelta tra impiegare macchinari o lavoratori, l’imprenditore impiegerà in misura maggiore, soprattutto nel medio-lungo termine, quello che gli costa meno. Se nel costo del lavoro includiamo il rischio di non poter licenziare con facilità, al diminuire di questo rischio diminuirà il costo del lavoro e aumenterà il suo impiego rispetto ai macchinari che invece garantiscono maggiore produttività. E’ vero che può accadere che pur aumentando la produttività i salari restino uguali, ma sicuramente è difficile che questi aumentino quando la produttività ristagna.

    • La redazione

      Ha ragione, l’osservazione è del tutto pertinente. Per questo motivo, in un lavoro ancora non completato guardiamo all’effetto della riforma del 1990 sulle scelte di capitale e lavoro e quindi sulla produttività delle piccole imprese rispetto alle grandi. I risultati preliminari
      sembrano indicare che, per quanto la produttività non sempre si rifletta nell’andamento dei salari, la legge del 1990 abbia avuto un
      effetto negativo sulla produttività delle piccole imprese anche tenendo conto del maggior investimento in capitale.

  18. Claudio Colombo

    Mi sembra un po’ azzardato collegare la riforma del ’90 sui licenziamenti nelle piccole imprese (quella che consente di licenziare anche senza giusta causa o giustificato motivo, versando un indennizzo fino a 6 mensilità) con la diminuzioine della retribuzione dei lavoratori delle stesse, rispetto a quelli delle aziende maggiori, tutelati dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori. C’è, a mio avviso, una ragione più convincente, ossia il fatto che, per tutti gli anni ’80 esisteva un meccanismo generale di indicizzazione dei salari, applicabile a tutti i lavoratori, soggetti, peraltro ai medesimi contratti collettivi nazionali. In seguito all’abolizione della scala mobile, solo i lavoratori delle imprese maggiori hanno potuto incrementare la propria retribuzione tramite la contrattazione aziendale, mentre gli altri hanno dovuto “accontentarsi” degli aumenti di aumenti riconosciuti periodicamente da quella nazionale.

    • La redazione

      Quel che lei dice a propositio della Scala Mobile ha sicuramente un fondamento di verità: in teoria ci possono essere altri fattori che hanno influenzato i salari oltre alla legge del 1990. Dal punto di vista tecnico il problema principale dell’analisi che facciamo è proprio quello di attrbuire il nesso causale tra la riforma della legge del 1990 e i cambiamento dei salari delle imprese piccole rispetto a quelle grandi. Per fare questo analizziamo le imprese di 13-14 dipendenti e quelle di 15-16 dipendenti cioè appena sopra o sotto la soglia a cavallo dell’anno 1990 di attuazione della riforma. La Scala Mobile fu "indebolita" prima del 1990 e abolita definitivamente nel 1992, ma soprattutto riguardava tute le imprese di ogni dimensione. Noi troviamo un effetto proprio nell’anno della riforma e sulle imprese piccole che è difficile attribuire ad altri fattori se non alla riforma del 1990.

  19. Antonio Ruda

    Non mi pare corretto il confronto fato nell’articolo fra la dinamica delle retribuzioni fra piccole e grandi imprese. Il confronto corrreto è quello che tiene conto della dinamica della produttività e quindi del CLUP. Il risarcimento non rappresenta altro che una componente del costo del lavoro e l’impresa tende a recuperare minimizzando il CLUP, o massimizzando al produtività. Non è assolutamente provato che il risarcimento diminuisca le assunzioni, perchè queste vengono influenzate maggiormente dalla domanda e dalla crescita dell’efficienza. Si trata di effeti talmente grandi che mi pare assai arduo isolare da questi gli effetti del risarcimento in caso di licenziamento. Infine, mi pare che anche il risarcimento costituisca una tutela del reddito da mantenere anche in caso di allargamento degli ammortizzatori sociali in quanto costituisce un argine a comportamenti opportunistici da parte dell’impresa. Anzi, un sistema veramente universale di ammortizzatori sociali avrebbe bisogno, per evitare tali comportamenti, del contributo a carico della singola impresa.

  20. sandro

    Chi paga la protezione dei redditi se non una tassa sui salari? Negli Stati uniti dopo anni di welfare universale, gli Stati incontrano difficoltà a pagare ai disoccupati assegni alimentari di appena 200 dollari al mese. la disoccupazione ha un costo sociale enorme, che non è sostenibile dalle finanze pubbliche. Liberalizzare i licenziamenti in un momento di crisi non significa creare posti di lavoro, ma mettere sulla strada decine di migliaia di persone.

  21. GA

    Saremmo tutti lietissimi di accettare una maggiore flessibilità a fronte di un mercato del lavoro che valorizza il talento e di una dinamica reale delle retribuzioni significativa. Purtroppo il collegamento resta indimostrato anche dopo il contributo degli autori. Ricordare che nel 1990 la legge 604/66 è stata modificata introducendo la tutela obbligatoria, cioè un (modesto) onere per l’impresa a fronte del licenziamento ingiustificato di un lavoratore (non per ragioni inerenti all’attività produttiva), e aggiungere che "la riduzione dei salari dei lavoratori delle piccole imprese rispetto alle grandi dopo la riforma del 1990 è di circa il 3 per cento", non stabilisce una correlazione. Forse gli autori hanno considerato la dinamica della produttività nello stesso periodo? E che dire del ruolo del sindacato, assai più forte nelle imprese maggiori, tra l’altro soggette a più vincoli, nel determinare le dinamiche retributive? Inoltre, quale razionalità di homo oeconomicus avrebbe indotto migliaia di piccoli imprenditori ad attribuire un premio assicurativo alla tutela obbligatoria, sotto forma di minori retribuzioni? Manco fossero tutti docenti di economia politica…

  22. Antonio Agostini

    …continuiamo a ragionare su di una concezione delle cose che non ha piu’ nessun aggancio con la realta’. Tutta la disciplina del lavoro e’ stata basata su rapporti "standard", regolati da CCNL, mediati dal sindacato, spesso con grandi aziende e non tenendo in nessuna considerazione l’autonomia negoziale e la dignita’ professionale del lavoratore, considerato solo come un mero prestatore di forza lavoro. Forse le cose da un secolo a questa parte sono un po’ cambiate: i contratti standard sono diventati l’eccezione, anche le aziende grandi si spezzettano in tante piccole aziende per recuperare flessibilita’, il sindacato non lo prendono piu’ neanche a "Chi l’ha visto?" (anche perche’ continua a preoccuparsi solo dei lavori usuranti) e i lavoratori nel frattempo sono diventati "knowledge worker". Mi sapete dire che c’azzecca con tutto cio’ il compesso legislativo e previdenziale che abbiamo in funzione? Mica bisogna essere dei geni: basta copiare quello che di buono fanno gli altri. C’e’ un certo Angelo, per esempio, che ci raccontava nel suo commento della sua esperienza positiva in Germania: c’e’ qualcuno che lo ascolta, per favore?

  23. Silvia Lazzarino

    Busta paga: come è cambiata la busta paga dei single in Europa Retribuzione netta calcolata a parità di potere di acquisto, a parità di prestazione lavorativa e a parità di tipologia professionale Nazione Single senza figli 1996 2002 Var.% Irlanda 13.665 17.971 31,5 Finlandia 12.642 16.190 28,1 Paesi Bassi 16.983 21.622 27,3 Francia 12.979 16.021 23,4 Regno Unito 17.212 20.926 21,6 Grecia 9.739 11.580 18,9 Lussemburgo 20.496 23.887 16,5 Portogallo 7.864 9.084 15,5 Belgio 15.805 18.236 15,4 Svezia 12.759 14.677 15,0 Spagna 13.581 15.369 13,2 Danimarca 16.152 18.149 12,4 Germania 17.174 18.887 10,0 Austria 15.846 17.141 8,2 Italia 16.393 16.426 0,2 FONTE: EUROSTAT

  24. giancarlo c

    L’idea mi può andare bene. Tra l’altro era un punto del I e soprattutto del II governo Prodi: dopo aver introdotto in Italia la moderazione salariale nel 1992 e la flessibilità del lavoro nel 1997, ci si era resi conto che bisognava completare l’opera. La questione, a questo punto, è solo una: chi paga? In linea di massima, la soluzione dovrebbe essere far pagare alle imprese la flessibilità e la moderazione salariale di cui godono dalla concertazione e dal pacchetto Treu in poi. Ho solo una certezza: finché in Italia governerà la Destra (e, soprattutto, questa destra) non ci aspettiamo non solo niente di buono, ma neanche niente che abbia a che fare con un disegno strategico. La destra italiana (attuale) è la traduzione politica della logica del galleggiamento. PS: sono gradite smentite nel medio periodo.

  25. Armando Pasquali

    Discorso trito e ritrito. Come quello sul commercio transfrontaliero. E’ sempre vantaggioso, perché anche se danneggia alcuni, i vincenti possono indennizzare i perdenti, e rimane comunque un saldo positivo che va a vantaggio di tutti. Ma i vincenti non hanno nessuna intenzione di indennizzare i perdenti. E ovviamente non lo fanno (ma anche se lo facessero, aggiunti i costi di transazione, non è affatto sicuro che il commercio transfrontaliero sia così conveniente; e in molti casi non lo è affatto, specialmente quando funziona secondo la legge dei vantaggi assoluti e non quella dei vantaggi comparati, ma è un discorso lungo). Tornando al tema in oggetto, l’idea di rendere più efficiente lo stato sociale è lodevole, ma è un compito possibile? O è invece molto più probabile che in una società liberale i costi siano troppo alti e si finisca quindi con l’abbandonare le persone al proprio destino? L’indifferenza con la quale gli economisti hanno accolto l’esplosione delle disuguaglianze nei paesi anglosassoni fa credere che tutte queste manovre preludano solo al puro e semplice smantellamento dello Stato Sociale. Ognuno per sé, Dio (se esiste) per tutti.

  26. mirko p

    L’idea è in fondo similare alla flex security deli paesi scandinavi, ma occorre precisare bene alcuni punti. Per prima cosa nei paesi in cui si applica la flex security vi sono istituzioni economiche forti come: un altissimo tasso di sindacalizzazione, una base di relazioni industriali più cooperative che conflittuali, ed un sistema fiscale culturalmente accettato in cui si pagano tasse alte, ma si ricevono sia servizi di qualità, specie di formazione lavorativa e riqualificazione professionale, sia sussidi per tempi maggiori e con copertura maggiore in percentuale sulla busta paga rispetto agli attuali sussidi italiani. La base di relazioni industriali forti e cooperative fa si che le organizzazioni paritetiche gestiscano sussidi anche su base assicurativa volontaria, con contributo anche delle aziende, che ampliano il periodo in cui viene erogato il sussidio. Ma soprattutto c’è quello che manca in Italia e cioè una politica industriale che indirizzi la formazione e la riqualificazione professionale, poichè è inutile formare se non si sa per cosa. Farlo in Italia senza aumentare i pesi delle istituzioni sopra dette è come aumentare la precarizzazione. Troppo lapidario?

  27. massimo gramazio

    La correlazione, se capisco bene, tra vincoli e tutele sui licenziamenti individuali con le "possibili fluttuazioni del mercato del lavoro", mi sembra non particolarmente appropriata. Se in effetti è vero che importanti garanzie sulla stabilità individuale del posto di lavoro, come è in Italia con l’art 18, rendono meno flessibile la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro, credo che sia altretttanto vero che le "fluttuazioni del mercato del lavoro", come l’attuale periodo di crisi, vadano invece correlate alla vigente legislazione in materia di licenziamenti collettivi (l. 223); non quindi con l’introduzione dell’arbitrato, in luogo del ricorso al giudice, che riguarda una forma di protezione individuale. In generale, per le imprese i vincoli alla flessibilità del lavoro non derivano in modo specifico dalla tutela posta dall’art 18, bensì da tutte quelle normative che attengono alla gestione collettiva del rapporto di lavoro.

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