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Se la locomotiva va nella direzione sbagliata*

L’avanzo della Germania è in gran parte verso la zona euro. E’ stato originato da un boom di produttività specifico alla manifattura tedesca. Il riequilibrio avrebbe richiesto l’apprezzamento del cambio reale della Germania: è avvenuto il contrario. La governance europea comporta ora che l’aggiustamento spetti ai paesi partner, senza compiti per i tedeschi. Ciò provoca effetti depressivi e distorsioni per la zona euro. Le strategie per la crescita dovrebbero accantonare la retorica manifatturiera e rimettere all’ordine del giorno la questione dell’efficienza dei servizi.

Germania, modello da imitare? Il balzo che il paese si appresta a fare nel 2010, con il Pil oltre il +3 per cento contro l’’1 per cento nel resto dell’’eurozona e il successo delle sue produzioni nei mercati mondiali, sembrano non lasciare dubbi: si dovrebbe fare come i tedeschi. Eppure, per quanto ovvia possa apparire, è un’aspirazione che si fonda su una visione impropria della realtà. La Germania, con il suo ampio surplus (7 per cento del Pil nel 2002-09; di cui il 60 per cento nei confronti dell’’Unione monetaria europea, (vedi figura 1), è oggi un generatore di tensioni nell’’area euro e il suo modello trainato dall’export si espleta in parte a spese dei partner europei.

 

SHOCK ASIMMETRICO NELLA ZONA EURO 

All’’origine dell’’avanzo commerciale della Germania c’’è un fatto virtuoso: una straordinaria crescita della produttività che ha spinto imprese e prodotti a guadagnare quote di domanda internazionale. Tuttavia, il progresso tecnologico non è stato un fenomeno diffuso in quella economia. Ha riguardato solo la manifattura; è risultato del tutto assente negli altri settori, dove si addensano le produzioni non esposte alla competizione globale. Una simile divaricazione ha interessato gli altri sistemi europei, ma lo sbilanciamento nel loro caso è stato meno accentuato: in Germania, la produttività manifatturiera è salita, tra il 2002 e il 2007, del 19 per cento rispetto a quella stagnante degli altri settori; nell’’eurozona tale divario è stato solo del 6 per cento (figura 2).

 

Questo squilibrio ha causato effetti destabilizzanti analoghi a quelli generatisi all’’indomani dell’’unificazione tedesca. Nei primi anni Novanta fu uno shock asimmetrico di domanda a far tremare lo Sme; negli anni Duemila è uno shock asimmetrico d’’offerta a mettere in tensione l’’area della moneta unica. Il mutamento dei prezzi relativi dei paesi europei, necessario per il riequilibrio macroeconomico, si determinò nel 1992 con una traumatica modifica dei rapporti di cambio e l’’apprezzamento del marco. Oggi, con l’’euro, il rafforzamento del cambio reale tedesco non può affidarsi alla stessa modalità: deve realizzarsi attraverso una maggiore inflazione in Germania rispetto ai partner dell’’eurozona.

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COSA DOVEVA SUCCEDERE E COSA È INVECE ACCADUTO 

Il meccanismo di riequilibrio, in condizioni di normale funzionamento dell’’economia, è insito negli stessi effetti del progresso tecnologico manifatturiero. La maggiore domanda a favore dei beni e del lavoro dell’’industria dovrebbe condurre a corrispondenti aumenti salariali. Questi si diffonderebbero agli altri comparti che non hanno sperimentato rialzi di efficienza, determinando un’’accelerazione delle dinamiche inflazionistiche rispetto a quelle dei partner: il rialzo delle retribuzioni, attivato dal settore beneficiario del boom di produttività, sarebbe il motore del riequilibrio complessivo.
Le cose, in Germania, sono andate in senso esattamente opposto. Il salario industriale, lungi dall’’aumentare con la produttività, è bensì sceso: del 14,5 per cento in rapporto al valore del prodotto medio del lavoro tra il 2002 e il 2007 (figura 3). (1) In assenza della necessaria spinta, retribuzioni e prezzi tedeschi sono scesi del 10 per cento circa rispetto ai partner (figura 4) e l’’equilibrio macroeconomico europeo si è progressivamente allontanato. L’’aggiustamento avrebbe richiesto, tenuto conto dei divari settoriali di produttività, una dinamica dell’’inflazione relativa tedesca quasi speculare a quella osservata. (2)

IMPULSI DEPRESSIVI E DISTORSIONI NELL’’AREA EURO

Quanto avvenuto in Germania è il risultato di scelte politiche interne, espressione democratica delle preferenze degli attori sociali di quel paese. Tuttavia, in un’’area pienamente integrata e senza tassi di cambio, queste scelte si scaricano sui vicini: si tratta di una questione di governance europea del tutto ignorata nella discussione comunitaria e dal nuovo Patto, attento solo al risanamento degli squilibri di segno negativo. Il mancato aggiustamento tedesco induce impulsi depressivi nell’’eurozona e porta ad attribuire un’’enfasi eccessiva, gravida di distorsioni, al ruolo della manifattura (e delle esportazioni) nella crescita.
In assenza di apprezzamento reale in Germania, l’’onere del riequilibrio cade per intero sui paesi euro, chiamati a generare per loro conto il necessario differenziale inflazionistico, abbassando prezzi e salari sotto i livelli di quella economia. Ciò si traduce, senza movimenti in senso opposto nella cosiddetta locomotiva europea, in un impulso negativo sulla crescita dell’’area. Al contempo, l’’esigenza di correggere lo squilibrio con l’’economia tedesca spinge i paesi euro a fare simmetricamente quel che è stato realizzato in Germania, emulandone l’’espansione sbilanciata nella manifattura e trascurando la produttività negli altri settori. È un’’evoluzione quasi obbligata, ma non desiderabile. La gran parte della spesa dei cittadini europei non è in beni trasformati, ma si dirige (per circa il 60 per cento) in servizi, distribuzione e public utilities, a bassa efficienza e scarsamente sostituibili con importazioni. Da ciò derivano vincoli al potere d’acquisto dei consumatori, le cui spese, non a caso, hanno teso a stagnare nell’’arco dell’’esperienza euro. Se si mira a rilanciare il benessere dei cittadini del vecchio continente, restituendo per questa via motivazione e spinta all’’integrazione europea, la trasposizione meccanica negli altri paesi del modello tedesco va, dunque, nell’’opposta direzione. Le strategie per la crescita dovrebbero, invece, accantonare la retorica manifatturiera e tornare a mettere all’’ordine del giorno la questione, da tempo abbandonata, dell’’efficienza dei servizi.
* Le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non coinvolgono l’’Istituto di appartenenza.

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(1) Nel 2008-09 si è verificata un’’inversione di tendenza, ma è stato un fatto del tutto episodico legato alla contingenza della crisi (vedi figura 3).
(2) Una stima “retro-della-busta” indica che, a parità di condizioni, la dinamica dei prezzi tedeschi si sarebbe dovuta collocare, tra il 2002 e il 2009, di circa l’’8 per cento sopra quella dell’’area euro. Ciò può essere ottenuto dalla seguente relazione: inflazione tedesca – inflazione eurozona = variazione cambio nominale Germania/eurozona (pari a zero) + 0,60*[differenziale di produttività manifattura/altri settori in Germania (+19,3%) – differenziale di produttività manifattura/altri settori nell’eurozona (+5,7%)], dove 0,60 è il peso dei beni non manifatturieri nel paniere di spesa dei cittadini europei. Si suppone nella stima che i differenziali di produttività osservati in Euklems tra il 2002 e il 2007 (ultimo dato disponibile) non si siano modificati nel biennio 2008-09.

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15 commenti

  1. Riccardo Colombo

    Mi trovo in gran parte d’accordo con l’articolo tranne per un punto: non capisco perché il modello tedesco, basato sulla crescita dell’industria manifatturiera, non possa non andare bene anche per l’Italia, dove la manifattura è, nonostante tutto, ancora forte? Non possiamo lavorare anche noi sulla produttività, sulla tecnologia e sulla qualità? Condivido che sia necessario ridurre i prezzi dei servizi, partendo dalle public utilities, ma ciò significa affrontare le rendite di posizione di soggetti spesso fortemente intrecciati con il mondo pubblico. L’ultima questione riguarda i sindacati. I salari reali sono diminuti ma questo è anche il risultato di un mancato salto di qualità delle organizzazioni sindacali, che non hanno saputo darsi una dimensione almeno europea? Perché i metalmeccanici italiani, tedeschi e polacchi non possono sviluppare azioni comuni? Credo che il tema dell’internazionale dei lavoratori (tanto per usare una dizione ottocentesca) non sia più eludibile.

    • La redazione

      Penso che la manifattura italiana sia ancora forte proprio perchè, nonostante la Cina (anzi si deve dire grazie alla pressione competitiva della Cina), ha lavorato sulla produttività, sulla tecnologia e sulla qualità. Ci sono naturalmente problemi settoriali/aziendali come Fiat; ma Fiat non si identifica più con la manifattura italiana (ne è circa il 3%). Per l’associazione europea dei lavoratori, l’ostacolo è costituito dal fatto che i mercati del lavoro (istituzioni, regole, organizzazioni e politiche) rimangono, nell’Europa integrata, una questione nazionale; ciò non può portare ad atteggiamenti comuni.

  2. Alberto Cottica

    Wow! Ottima analisi, complimenti e grazie. La prescrizione finale sui servizi, però, mi sembra un po’ italocentrica: qui da noi, si sa, le liberalizzazioni mai fatte pesano molto sull’economia. Non è così sicuro che altri paesi abbiano un guadagno di produttività così alto da realizzare – anche perché misurare la produttività dei servizi è sempre un po’ una scommessa.

    • La redazione

      Grazie per l’apprezzamento. Sui servizi l’Italia ha certamente un forte ritardo, anche nei confronti di altri paesi europei. Il problema è che quanto avvenuto in Germania allontana l’Italia e le altre economie dallo sforzo per il miglioramento di efficienza dei settori protetti. Proprio per quello che lei sottolinea, si tratta di una strada inappropriata per vari paesi europei, tra cui l’Italia.

  3. Sergio ascari

    Non capisco come si possa parlare di squilibrio: semplicemente le imprese tedesche competono con quelle degli altri, e se la Germania cresce di più è perché sono le imprese tedesche sono in media più competitive. Quando si è voluto fare un mercato ed una moneta unica, era chiaro che poteva andare così. Mutatis mutandis lo stesso è accaduto in Italia dopo l’unificazione, oltre un secolo fa. Quanto al dilemma industria/servizi, è falso. Molti servizi oggi competono a livello internazionale, si pensi alle telecomunicazioni. E gli altri se sono efficienti contribuiscono alla competitività della manifattura: proprio la carente competitività dei servizi in Italia è evidentemente alla base della sua debole competitività industriale. Semmai è sbagliato pensare che questa si possa compensare a scapito di quel che resta del lavoro industriale

    • La redazione

      Certamente le imprese tedesche sono molto competitive, sono grandi, ben organizzate e anche assistite da una efficace politica economica internazionale; oltre a ciò, però, quelle imprese beneficiano di un cambio reale sottovalutato nell’ambito della zona euro. Questa è una grossa complicazione in un’area con moneta unica e in una situazione, peraltro, di ouput gap diffusamente negativi: è appena alle spalle la più grande recessione del dopoguerra e le ferite sono ancora aperte. La correzione del disallineamento dei cambi reali può (anzi "deve" per le regole europee) essere fatta dalle altre economie; temo che questo non aiuti per un bel po’ di tempo ad azzerare gli output gap negativi (quindi, bassa crescita e disoccupazione), porti ad alimentare disaffezioni nei confronti dell’Europa, incentivi ad abbandonare le liberalizzazioni; certo le telecomunicazioni si sono aperte alla competizione, ma è troppo poco; ognuno di noi, in Italia e in Europa, sperimenta quotidianamente le conseguenze di mille inefficienze e posizioni di rendita.

  4. paolo41

    In Europa ci sono circa 80 "grandi" aziende: il 75% sono aziende tedesche, la maggior parte sostenute da una elevata tecnologia e da un ventaglio di prodotti di altrettanto elevata qualità. In alcuni settori esiste una condizione di oligopolio. La dimensione di queste aziende ha permesso inoltre di fare investimenti nei paesi in via di sviluppo (fra cui rientrano anche …Cina, seconda economia mondiale, India, Brasile, etc) dove hanno trasferito, generalmente, solo una parte del valore aggiunto di produzione (trattenendo il know-how) e, comunque, a costi decisamente più bassi. L’introduzione dell’euro, (che si è rilevato come un vero cappio al collo per le nazioni europee che potevano contare su una svalutazione della propria moneta per mantenere un certo livello di competività almeno sui costi) non ha fatto altro che potenziare gradualmente la struttura produttiva del sistema tedesco a scapito delle concorrenti europee: alcune di queste sono addirittura sparite, altre per salvarsi hanno tentato la carta della delocalizzazione. Chiamare in causa i "servizi " è, quindi, una visione parziale e comunque misleading e non aiuta certo ad identificare le vere responsabilità.

  5. Giancarlo Mazzone

    Da questa interessante analisi emergono almeno due punti, seguiti da tre riflessioni. I due punti 1°) che la Germania si riafferma essere il centro e il motore dell’Europa con quasi il 60% delle sue esportazioni verso i Paesi europei e rimane motivata a spingere verso una maggiore integrazione, 2°) che il 59% del potere d’acquisto dei consumatori europei è impiegato nei servizi la cui bassa efficienza richiede un forte recupero di produttività, la direzione giusta su cui avviarci contro la direzione sbagliata del recupero di produttività nel manifatturiero. Questa scelta aumenterebbe il benessere dei cittadini d’Europa. Le tre riflessioni: 1°) il nostro Paese non può non percorrere (non è una direzione sbagliata) con costanza il recupero di produttività nel settore manifatturiero, similare a quello tedesco anche se a un livello inferiore nelle produzioni e nelle esportazioni, 2°) il nostro Paese ha maggiore difficoltà di altri a recuperare efficienza nei servizi (è certo una direzione giusta) a causa dei guasti della politica. 3°)l’Europa è percorsa dai venti della globalizzazione dei mercati dove le merci penetrano creando problemi reali all’industria manifatturiera.

  6. Francesco Burco

    …vorrei vivere in un paese in cui la produttività al margine del lavoro cresce, seppure solo nel settore manufatturiero, piuttosto che averla ferma da 10 anni in tutti i comparti, se non in calo. Vorrei esportare più prodotti e servizi in Germania (magari finanziari come ha fatto Unicredit) e che la Germania ne esportasse più in Italia (magari le Smart che sono comode e inquinano meno). Saremmo più ricchi noi e i tedeschi. Vorrei una moneta forte che mantiene il suo valore mentre sta nelle mie tasche e un’inflazione bassa che mi consente di progettare le mie scelte di consumo e risparmio su un orizzonte lungo e stabile di vita. Vorrei vivere in un paese che mi chiede meno tasse, sperpera meno soldi, e garantisce le tutele e protezioni che rendono la vita dignitosa per tutti i cittadini! Voglio vivere in Germania?

    • La redazione

      Concordo su tutto tranne che su due punti. La produttività manifatturiera in Italia è buona ed è tornata a crescere dopo la crisi dei primi anni duemila: altrimenti non si spiegherebbe la tenuta della nostra trasformazione industriale e il buon andamento dell’export italiano anche in Germania. Il secondo punto è che le esportazioni tedesche entrano nei paesi della zona euro perché sono competitive, ma anche perché sospinte da una cambio reale squilibrato. Si può dire che, come fa il Patto di stabilità e crescita, che siano gli altri paesi a farsi carico per intero della correzione dello squilibrio; va bene, ma si tenga presente che questo mette un tappo alla ripresa in una situazione di elevata disoccupazione.

  7. Marcello Tava

    Grazie per l’articolo chiaro e condivisibile. Mi sembra che quello dei servizi (non tutti) sia l’ultimo ricettacolo conservato al protezionismo delle nazioni, mentre l’industria manufatturiera ha dovuto suo malgrado riformarsi sotto le pressioni esterne del mondo globale. Dopo la caduta del muro i lavoratori dell’industria tessile della Germania Democratica sono passati in pochi anni da 40.000 a 4.000. Non mi pare che i servizi pubblici dell’ex-DDR abbiano subito un ridimensionamento analogo. Forse l’unica strada è la privatizzazione dei servizi.

    • La redazione

      E’ come dice lei. Per i servizi, l’azione giusta non è tanto privatizzare, ma aprire alla concorrenza. In molti di questi comparti non c’è pressione competitiva, deve quindi pensarci il policy maker, non solo quello tedesco.

  8. giuseppe alfano

    Condivido l’analisi di de Nardis e mi domando se non corriamo seri pericoli, anche di involuzione politica, a seguire l’esempio della Germania come, mi pare, ci suggerisce da tempo il Governatore della Banca d’Italia. In un momenmto in cui USA e Cina vanno in competizione sulla pollitica della svalutazione per spostare gli increnmenti di Pil sul lato delle espostazioni, non è che l’Euro forte, contraddittoriamente voluto dalla Germania, farà fare flop alla stessa Germania con notevolissimi riflessi negativi su quel minimo di integrazione europea che faticosamente è stata raggiunta col Trattato di Lisbona? La Germania è forse, in associazione alla Francia, il paese meno adatto a guidare il processo di unificazione federale dell’Europa per l’attaccamento all’idea dello Stato-nazione, che è una categoria un pò obsoleta nel mondo reale della globalizzazione.

    • La redazione

      Sì, ci sono rischi di una tendenza al mercantilismo, per cui esportare è un bene (è anzi un obiettivo) e importare è un male. Sono rischi subdoli, perchè non si evidenziano con dazi e sussidi (sarebbero contrastati dal WTO ), ma attraverso forti disallineamenti dei tassi di cambio che hanno effetti analoghi alle tariffe sulle importazioni e ai sussidi alle esportazioni. Non sono solo rischi globali, ma diffusi nell’Europa integrata; sono sospinti dal caso tedesco e non affrontati adeguatamente dalle regole europee. La strada del mercantilismo è compatibile con lo Stato-Nazione, non con un approccio federale. E’ una strada che mette sotto tensione la moneta unica. Per l’apprezzamento dell’euro, forse è in parte indicato per la Germania, non lo è certamente per le economie europee periferiche, impegnate in difficili percorsi di aggiustamento interno; non incide sul 60% dell’avanzo tedesco che è nei confronti dei paesi euro.

  9. pierfranco parisi

    E’ una somma di fattori: la "fatica" e mpegno dei lavoratori (e la massa la identifica con questosono loro gli sfaticati) , la organizzazione del lavoro, gli strumenti disponibili, l’efficenza dei servizi, le infrastrutture. Bisognerebbe riuscire a misurare le differenze nei singoli fattori onde intervenire ad hoc. Altrimenti non sarà facile migliorare.

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