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Dalla guerra delle valute alla guerra dei numeri

Il problema del sistema economico internazionale non è quello dei tassi di cambio. Basta guardare i dati su Stati Uniti, Cina, Europa e Giappone. Quindi non si può affrontarlo in termini di guerra delle valute, che al massimo sono il sintomo di una malattia che ha origine altrove. La questione cruciale è la forte divergenza tra i principali paesi del mondo sugli obbiettivi di crescita e di stabilità economica. A Seul, allora, i leader del G20 farebbero bene a tentare di comprendere i problemi altrui, prima di ricorrere a mosse unilaterali pericolose per tutti.

 

Probabilmente, al prossimo incontro dei capi di stato del G20 – che si svolgerà a Seul l’’11 e 12 novembre – la delegazione americana non riuscirà a imporre una misura oggettiva (tipo: partite correnti/Pil >4 per cento), capace di individuare con precisione gli squilibri internazionali e neppure verranno approvati incentivi per indurre i governi a risolvere quegli squilibri senza far ricorso a misure protezionistiche o “guerre delle valute”. Tuttavia, quasi certamente verrà assegnato al Fondo monetario internazionale il compito di scrutare con molta attenzione una serie di indicatori al fine di segnalare le aree di disequilibrio strutturali. Cominciamo a dare un’’occhiata a qualche numero importante, in una prospettiva non troppo breve.

CINA: COME PERDERE COMPETITIVITÀ E AVERE UN ATTIVO DI PARTITE CORRENTI

Negli ultimi quindici anni, la moneta cinese si è rivalutata di quasi il 60 per cento in termini reali effettivi, cioè rispetto a tutte le principali valute e tenendo conto del differenziale dei prezzi al consumo (grafico 1). Quasi la metà della rivalutazione è dovuta ai differenziali d’inflazione. Ancora nel 2010 i prezzi al consumo in Cina dovrebbero crescere di oltre il doppio di quanto aumenteranno negli Stati Uniti e in Europa (3,5 per cento contro 1,5 per cento). Se avessimo un indicatore affidabile dei costi unitari del lavoro cinesi, probabilmente, la rivalutazione dello yuan sarebbe stata anche più sostanziosa, giacché il costo del lavoro in Cina, sopratutto nei settori esposti alla concorrenza internazionale ha conosciuto una dinamica superiore al costo medio della vita. Sostenere che il governo e le autorità monetarie cinesi abbiano impedito la rivalutazione dello yuan è dunque sbagliato. Al massimo si può dire che abbiano frenato una rivalutazione da loro ritenuta incompatibile col modello di sviluppo export led tipico di quasi tutti i paesi nella fase di decollo economico.

Grafico 1

A metà degli anni Novanta, i conti con l’’estero cinesi erano sostanzialmente in pareggio. Solo negli anni successivi questi hanno cominciato a impennarsi, fino a toccare il loro massimo in termini di Pil prima della grande crisi; da allora l’’attivo cinese si è quasi dimezzato portandosi dal 10,6 per cento del 2007 al 4,6 per cento di quest’’anno (tavola 2). E ciò nonostante la progressiva perdita di competitività delle merci cinesi connessa al citato apprezzamento del tasso di cambio reale.

Grafico 2

Fonte: International Monetary Fund

CINA: DOMANDA INTERNA CHE NON TIRA?

Sebbene negli ultimi quindici anni i consumi delle famiglie cinesi siano aumentati meno del Pil – così che la loro quota è passata dal 42 al 35 per cento (tavola 3) – è pur vero che essi sono cresciuti due volte di più di quelli americani, sette volte più di quelli europei e giapponesi (tavola 4). Sul versante opposto gli investimenti cinesi sono mediamente aumentati più del 10 per cento all’’anno e hanno rappresentano quasi il 40 per cento del prodotto interno lordo. Ma si può accusare di investire molto sulle generazioni future un paese che ha ancora un reddito pro capite che, a parità di potere d’acquisto, è meno di un quinto di quello americano (8.500 dollari contro 45.600) e una popolazione che sta subendo un rapido processo d’’invecchiamento (la percentuale della popolazione in età lavorativa è passata dall’’80 per cento dell’inizio degli anni Settanta al 40 per cento di oggi)? Questa politica ha tra l’altro permesso di far superare la soglia di povertà a oltre 400 milioni di persone in soli dieci anni. Un traguardo certo non trascurabile.

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Grafico 3

Fonte:World Bank

 

  Grafico 4

Fonte:World Bank

USA: NON CHIEDERE L’’IMPOSSIBILE ALLA POLITICA

Per certi versi simmetrica appare la posizione americana. L’’altro grande imputato degli squilibri internazionali, negli ultimi quindici anni, ha accumulato una posizioni finanziaria sull’’estero fortemente deficitaria (ovvero ha accumulato debiti nei confronti del resto del mondo), anche se il deficit di parte corrente non ha mai superato il 5,5 per cento in termini di Pil e oggi è vicino al 3,5 per cento (tavola 2). È interessante tuttavia osservare che questi squilibri non sono stati provocati dalle oscillazione del cambio effettivo reale del dollaro, che anzi negli ultimi quindici anni è rimasto sostanzialmente stabile, ma da quello che gli economisti chiamano l’assorbimento interno” e dalla propensione alla crescita. Negli Usa, infatti, il peso dei consumi sul Pil è aumentato di oltre dieci punti negli ultimi trentacinque anni (dal 60 al 70 per cento, tavola 3) mentre l’’attuale tasso di disoccupazione (pari al 10 per cento, per inciso identico a quello europeo) risulta politicamente inaccettabile. Questo spiega l’’accanimento della Fed nel perseguire una politica monetaria particolarmente espansiva (la così detta QE2: quantitative easing 2). Con tale politica la Fed intende stimolare la domanda grazie a tassi di interesse a lungo termine più bassi; a un cambiamento nella composizione dei portafogli verso attività più rischiose, con conseguente aumento del valore dei titoli azionari e quindi un aumento della ricchezza dei consumatori e a un deprezzamento del dollaro che spinga le esportazioni americane. La manovra è stata criticata da molti paesi proprio perché capace di accrescere la competitività delle merci americane e da molti economisti perché la ritengono invece incapace di raggiungere gli obiettivi. Come notato sull’’Economist, in realtà, sia la prima manovra di quantitative easing (a cavallo tra 2009 e 2010) sia l’’annuncio della seconda (agosto 2010) hanno effettivamente portato a una riduzione dei tassi a lunga e a un aumento dell’’indice di Borsa. Certo, politiche strutturali sarebbero più efficaci, ma richiedono un lungo periodo di tempo e un accordo politico trasversale, difficile da raggiungere nel nuovo scenario politico americano. Se possiamo chiedere agli americani di consumare di meno e risparmiare di più per sanare il forte indebitamento dell’’economia, come per altro stanno già facendo, non appare invece giusto domandare loro di convivere per un lungo periodo di tempo con un esercito di oltre quindici milioni di disoccupati (di cui una buona fetta giovani), senza quantomeno tentare di usare tutti gli strumenti di politica economica a disposizione nel breve periodo per cercare di assottigliare quell’’esercito, soprattutto in assenza di una fattiva collaborazione da parte degli altri paesi.

GIAPPONE: UN SECONDO DECENNIO PERDUTO

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Più problematico è il caso del Giappone: sono vent’’anni che non cresce (al di là di quest’anno), mostra un surplus di partite correnti mediamente attorno al 3 per cento in termini di Pil e un tasso di cambio nominale effettivo che si è svalutato di circa il 20 per cento degli ultimi quindici anni, facendo quindi guadagnare alle merci giapponesi competitività sui mercati internazionali. E ciò nonostante i numerosi governi che si sono succeduti abbiano perseguito una politica monetaria decisamente espansiva e abbiano accumulato un debito pubblico vicino all’’astronomica cifra del 200 per cento del Pil. Il Giappone rappresenta pertanto il vero anello debole del sistema monetario internazionale. Strano se ne parli così poco.

EUROPA A PIÙ FACCE

Più articolata e complessa è la situazione europea. All’’apparenza, l’’area dell’’euro si mostra estremamente equilibrata sia in termini di cambio reale effettivo che di conti con l’’estero. Tuttavia, come ben sappiamo, al suo interno ci sono paesi, quali la Grecia, la Spagna e l’’Italia, che hanno perso molta competitività e altri, come la Germania, che l’’hanno guadagnata (tavola 5). Così, la Germania ha conseguito (dal 2002) attivi di parte corrente sempre più consistenti, mentre gli altri principali paesi hanno a stento tenuto le posizioni o nettamente peggiorato i loro saldi di parte corrente. Alla disciplina imposta dall’’euro e da una politica monetaria unica, non è seguita la costruzione di uno stato federale, in cui gli squilibri “regionali” possano e debbano essere gestiti in maniera cooperativa, al fine di preservare il bene comune. Da questo punto di vista, il nuovo Patto di stabilità in discussione non sembra rappresentare la soluzione al problema degli squilibri strutturali all’’interno dell’’area. E non solo per la vaghezza con cui vengono specificati gli indicatori di squilibrio, ma anche per la difficoltà di definire, al di fuori di un approccio cooperativo, le azioni concrete da intraprendere quando gli squilibri non riguardino il bilancio pubblico ma siano il risultato di milioni e milioni di decisioni private indipendenti.

Grafico 5

Fonte: Bank of International Settlements

 

               Grafico 6

Fonte: Bank of International Settlements

PRIMO: CAPIRE LE ESIGENZE ALTRUI

In conclusione, il problema del sistema economico internazionale non pare certo quello dei tassi di cambio e quindi è ben lontano dall’’essere affrontabile in termini di “guerra delle valute”, che al massimo sono il sintomo di una malattia, ma non certo la causa. La questione cruciale è invece una forte divergenza tra i principali paesi del mondo in termini di obbiettivi di crescita e stabilità economica e quindi una sostanziale incomprensione dei problemi altrui, da cui segue uno scarso o cattivo coordinamento delle politiche economiche. Sarebbe bene che, a Seul, i capi di Stato e di governo cominciassero a fare innanzitutto uno sforzo di comprensione reciproca, prima di tornare a casa propria e procedere a mosse unilaterali potenzialmente molto dannose per tutta l’’economia mondiale.

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  1. Boitani-Hamaui

    Utile analisi per inquadrare l’attuale dibattito. Ricorderei solo che nel 1994 lo yuan era stato svalutato sull’anno prima di circa il 45% in termini nominali, da 5.50 yuan/$ a 8.44 yuan/$.

  2. Piero

    Un grazie all’autore dell’articolo per la visione d’insieme.. ed un grazie a Boitani-Hamaui per la sua importante precisazione.. unendo le due cose direi che lo yuan in termini reali è rimasto sostanzialmente stabile.. però allora non capisco una cosa.. se non è stata la svalutazione perché l’occidente è stato invaso dalle merci cinesi.. cosa è camiato.. credo sia stato il cambiamento nel Wto a liberalizzare commerci che prima erano allo stato potenziale.. certo che i 400 milioni di minori poveri in Cina corrispondono forse a 400 milioni di ceto medio occidentale che scende.. Sui tassi a lungo invece ho una opinione diversa.. il QE2 si concentra in acquisti 2-10 anni.. le Banche d’Affari pare che ritengano che il Bull Market dei Trentennali è finito.. passata la Sbornia monetaria fra qualche anno ci sarebbero Inflazione e Tassi Alti.. magari Stagflazione se siamo molto sfortunati..

  3. Poincaré

    Buona sera prof.Boitani, colgo l’occasione di scrivere in questo "spazio", non per commentare l’articolo ma per chiedere la sua opinione su alcune considerazioni. In primo luogo, e questo si allaccia al suo scritto, mi pare che i rapporti salariali tra i paesi europei ed economie emergeni come Cina e India sia ancora di uno a dieci in quasi tutti i segmenti, quindi la rivalutazione dello yuan non è che abbia spostato di molto il problema. In secondo luogo, quando vedo i tassi di variazione del Pil per sostenere una qualche tesi, mi chiedo se gli economisti non si rendano conto che il Pil è un prodotto scalare e non uno scalare. Questa cosa faceva inorridire anche Keynes, che lo scrisse a chiare lettere. Se guardo al traffico di perfezionamento passivo e al declino dell’utopistica società dei servizi mi domando quale destino ci sia per l’occupazione nel nostro mondo, ovverosia se stiamo assistendo a una fase transitoria fatta di modesta crescita e distruzione delle opportunità di occupazione. In particolare in Italia, vorrei capire quanti sarebbero i disoccupati se si facesse un’indagine seria sulla chomage deguisée. Grazie.

  4. AZ

    Riguardo al costo del lavoro, in alcuni settori di alto profilo tecnologico (nominale) negli ultimi 5 anni le cose si sono un poco aggiustate: mentre l’unità di lavoro cinese nel 2005 costava mediamente 1/5 di quella occidentale, oggi costa mediamente 1/3. Se il processo di avvicinamento fosse lineare i margini di vantaggio risulterebbero completamente erosi in 5,7 anni da ora (poco consolante). Una consistente rivalutazione dello yuan accelererebbe il processo. Ma i motori dell’offshoring e dell’outsourcing (che costituiscono la spina dorsale dell’export cinese e una delle prime cause del calo occupazionale in occidente) non sono mossi solo dal differenziale del costo del lavoro. In questa fase la presenza qualificata in Cina (di multinazionali grandi e piccole) è la base operativa per guadagnarsi una fetta del mercato cinese prossimo venturo (su cui esistono solo stime ispirate al più entusiastico ottimismo). In questo gioco per ora Pechino continua ad avere il coltello dalla parte del manico e la storia recente insegna che forza e propensione al multilateralismo non vanno d’accordo.

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