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Quando il federalismo non basta

Un modello di federalismo basato su costi e prestazioni standard e su un ampio decentramento del processo decisionale può rappresentare la migliore risposta al problema dell’Italia diseguale? Bastano gli incentivi economici e le sanzioni per superare i limiti di una diversa dotazione di capitale sociale tra Nord e Sud? Una logica simile è stata seguita nella lotta all’analfabetismo. E il risultato è stato l’incapacità delle politiche locali e nazionali di modulare qualità e intensità dell’istruzione in funzione degli effettivi e diversi fabbisogni del paese.

 

Da tempo, le notizie su diffusi casi di cattiva amministrazione locale si associano agli annunci di cambiamento che potrà produrre l’’avvento del “federalismo”, ovvero di un modello caratterizzato da incentivi e richiami alla responsabilità, sia di chi governa che dell’’elettorato. Sul piano della teoria economica, questo approccio si confronta con le tesi di chi, come gli studiosi del capitale umano e sociale, tendono a riconoscere l’’importanza della dimensione culturale che caratterizza le diverse parti del nostro paese. Secondo tale filone di analisi, ciò che accade oggi, sul piano del funzionamento delle amministrazioni così come dello sviluppo economico, va messo in relazione con un insieme di valori che si sono sedimentati nel tempo e, come tali, solo marginalmente influenzabili da fatti contingenti.

ANALFABETISMO E PIL

Una conferma di tale visione può essere ricavata dal semplice confronto tra la distribuzione regionale di due dati: il Pil per abitante del 2009 e il tasso di analfabetismo al censimento del 1951. Il grafico riportato in tabella illustra l’’esistenza di una robusta correlazione tra i due fenomeni (R quadro di 0,86): a un estremo della distribuzione troviamo il Trentino Alto Adige, che associa il maggior Pil per abitante a un tasso di analfabetismo che, nel 1951, era dell’’1 per cento (in quanto parte dell’impero d’Austria, la scuola dell’’obbligo fino a 14 anni fu qui avviata nel 1774). All’’altro estremo troviamo la Calabria, una delle regioni più povere d’’Italia e che nel 1951 aveva una quota di analfabeti del 35 per cento. Le altre regioni italiane si distribuiscono lungo la linea di interpolazione in modo quasi uniforme, con il Nord addensato nella parte alta, le regioni del Centro in mezzo e quelle del Sud in basso.

Occorre altresì sottolineare che la relazione presenta una qualità abbastanza stabile nel tempo: vale per il confronto con il Pil del 1971, così come con le stime sul valore aggiunto del 1938 e del reddito del 1951. Meno evidente è il raffronto con il censimento del 2001, dove il dato dell’’analfabetismo è sostituito dall’’indice di non conseguimento della scuola dell’’obbligo. Ma una buona tenuta della relazione si avrebbe anche con i dati dell’’analfabetismo rilevati nei decenni immediatamente successivi all’’unificazione d’’Italia, posto infatti che le evidenze del 1951 altro non sono che una trasformazione lineare di quelle dell’’Ottocento. Infine, la correlazione appare molto buona anche rispetto agli esiti dei test Invalsi dello scorso anno sulle prestazioni degli studenti in italiano e in matematica.
C’’è sufficiente evidenza per sostenere che si è di fronte a un dato strutturale. Ma rappresentativo di che cosa?
In primo luogo, si potrebbe riconoscere che il tasso di analfabetismo rappresenta una buona approssimazione di tutta quella serie di altre variabili che la letteratura ha utilizzato per rappresentare il capitale sociale nelle regioni italiane: partecipazione alle elezioni, criminalità, insolvenze bancarie, vicende storiche del lontanissimo passato, solo per citarne alcune. Ma forse, questa variabile potrebbe essere vista come qualche cosa di più. In effetti, un tasso alto di analfabeti significa scarsa propensione a rispettare vincoli normativi (obbligatorietà dell’’istruzione) sia da parte dei cittadini che di chi li dovrebbe applicare, incapacità di organizzare servizi pubblici adeguati, scarsa sensibilità rispetto ai bisogni dei soggetti più deboli di una comunità.

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IL PRECEDENTE SICILIA

Partendo da questo ragionamento, dovrebbe altresì essere riconosciuta l’’incapacità delle politiche, locali prima e nazionali poi, di modulare qualità e intensità dell’’istruzione in funzione degli effettivi e diversi fabbisogni del paese. Si potrebbe quasi dire che, in Italia, la lotta all’’analfabetismo ha seguito una logica di “prestazioni standard”, ispirate sostanzialmente a criteri di omogeneità: in un secolo la quota di popolazione illetterata è calata del 70 per cento al Nord e quasi dello stesso valore al Sud, pur essendo in presenza di punti di partenza molti diversi e di oggettivo svantaggio per il Mezzogiorno.
In questo senso c’’è da chiedersi se il “prossimo” modello di federalismo, basato su costi e prestazioni standard, nonché su un ampio decentramento del processo decisionale, possa rappresentare la migliore risposta al problema dell’’Italia diseguale. In altre parole, possiamo realmente ritenere che gli “incentivi” economici e le sanzioni possano essere in grado di superare i limiti che offre la diversa dotazione di capitale sociale tra Nord e Sud del paese? La solidarietà può essere semplicemente tradotta in una dotazione di risorse che compensi la minore capacità fiscale dei diversi territori?
C’’è un precedente che aiuta a capire i limiti di questi ragionamenti. Basta osservare le vicende della Regione Sicilia. Dotata di uno statuto di amplissima autonomia, che ne faceva una sorta di Stato nello Stato, non ha mai attivato –nei fatti – tutte le competenze che erano di sua spettanza e, nonostante le maggiori risorse di cui godeva e gode rispetto al resto del Mezzogiorno, è riuscita a perdere posizioni relative: tra il 1971 e il 2009 il Pil per abitante è passato dal 75 per cento della media nazionale al 64 per cento di oggi. Più in generale, dall’’avvento delle Regioni, avvenuto nei primi anni Settanta, il Pil del Sud ha perso posizioni, mentre le regioni del Centro Nord le hanno migliorate. Tale evidenza potrebbe essere spiegata come conseguenza di meccanismi di decentramento dei poteri ispirati a principi inadeguati e poco responsabilizzanti. È però chiaro che, le stesse regole, applicate sia al Nord che al Sud, hanno finito per produrre esiti diversi sia nel funzionamento della pubblica amministrazione che per quanto concerne le ricadute che la stessa ha sull’’economia presa nel suo complesso.
Per questo motivo vi sono forti ragioni per pensare che l’’avvio di una nuova stagione del decentramento, caratterizzata da poteri e responsabilità più estesi, possa tradursi in una grande occasione di sviluppo del Nord e in una sfida troppo impegnativa per molte realtà del Mezzogiorno.

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La risposta ai commenti

14 commenti

  1. carlo grezio

    L’italia ha bisogno di una profonda riforma istituzionale e amministrativa per dare migliori servizi al cittadino in cambio di costi minori e con minor spreco di risorse. Le regioni non sono una risposta adeguata. Quelle a statuto speciale ne sono la prova: o sono un disastro assoluto da commissariare come la Sicilia, oppure danno buoni servizi ad un costo spropositato come la Provincia di Trento. Le regioni sono di fatto i gestori della sanità pubblica (assorbe l’80% dei bilanci); ne deriva una doppia constatazione: 1. per gestire bene la sanità non serve un mostro burocratico come la regione. 2. Quello che rimane oltre alla sanità nella gestione regionale è così poca cosa che può essere delegato alle province o tornato allo stato. Le province sono una migliore UnitàLocaleGestionale da dotare di Autonomia Amministrativa rispetto alla regioni (che vanno abolite). Nessun presidente di provincia avrà velleità da governatori o si sentirà padano. La moderna IT rende inutili un gran numero di uffici periferici. Serve qualità e non quantità. Molti dipendenti pubblici regionali sono inutili. Il cittadino può controllare valutare a livello provincia, la regione è meno trasparente dello stato centrale.

  2. antonio petrina

    Il refrain ormai logoro e desueto su "federalismo si, federalismo no" sembra di moda, ma come per l’università di massa è meglio uno straccio di riforma, anzicchè nulla (rectius: peggio della proliferazione di sedi e corsi che hanno prosciugato la mater alma?) : è meglio il carburante (le risorse) di una discreta auto, che una macchina special (il mitico decentramento) senza carburante?

  3. Marcello Battini

    Si tratta di una ipotesi interessante, da non sottovalutare, ma che, al meno in parte, potrebbe essere superata de i poteri, trasferiti dallo Stato centrale, fossero assegnati all’Ente Regione, abolendo le Province, riducendo i poteri dei Comuni all’ordinaria amministrazione, consentendo allo Stato di Commissariare le Regioni inadempienti.

  4. AG

    Sono perfettamente d’accordo con l’articolo. Credo che lo siano anche i promotori di questa politica, non a caso prevalentemente settentrionali. Quello che mi risulta difficile capire e cosa c’entri il "federalismo" con i meccanismi contorti e burocratici previsti in concreto dalla riforma, compresi i meccanismi di punizione. Credevo che "federalismo" fosse l’autonomia di governo (compreso la possibilità di fissare tasse e spese) con i governanti locali che rispondono del loro operato ai loro elettori e non ai parametri ministeriali.

  5. dvd

    Ho letto con interesse l’analisi che mette in correlazione il livello di istruzione con altri fenomeni sociali e ancora di più la correlazione tra la recente italianizzazione (più che alfabetizzazione) di territori che "godono" di autonomia locale. Dico italianizzazione, perchè prima del 51′ non erano "zulù" ma popolazioni perfettamente integrate nella società ma di idioma diverso dal nostro e ciò nonostante si sono adeguati in fretta e oggi rappresentano i territori meglio gestiti. La morale che si potrebbe trarre dalla sua analisi è che se qualcuno non vuole "sopravvivere" è giusto che gli altri ci provino e si rendano indipendenti da chi vuole "morire". Questo è quello che io percepisco dalla sua analisi, che condivido e che personalmente la leggo come sopra. Il "riscatto" a mio parere deve partire direttamente da quei territori, non dall’alto, se no l’alternativa è quella di scrivere ancora per molto: "..Calabria, regione povera.." con il rischio poi che la gente del Trentino pensi che i calabresi preferiscono rimanere così, poveri!

  6. Vittorio Silva

    Il Federalismo aiuterà molto il Nord e danneggerà il Sud? Innanzitutto è ancora da dimostrare, in secondo luogo, come si dice, cavoli loro! Se non gli piacerà essere sottoposti a regole più rigide, si inventino un Bossi napoletano e chiedano la Secessione! 😉 Tojo

  7. Vincesko

    L’arretratezza del Sud e del divario tra di esso e il Centro-Nord, che permane anzi si accresce, e degli altri problemi, dovrebbe partire necessariamente proprio da qui, dalla mentalità, dal dato culturale (in senso antropologico), perché non solo i siciliani – come scriveva Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo”, ma tutti i meridionali si credono padreterni, e quindi perfetti. Per chi non è del Sud è difficile capire che un altro dei pilastri della cultura meridionale – probabilmente il portato del cattolicesimo e che si tramanda di generazione in generazione – è l’invidia e il conservatorismo sociale – l’altra faccia del “noi siamo dèi” -, per cui, invece che considerarlo uno stimolo all’emulazione e al miglioramento, si giudica negativamente il successo dell’altro e impera un meccanismo automatico, una sorta di riflesso condizionato delle persone, che sono “costrette” a frenare qualunque iniziativa privata o, soprattutto, pubblica, e favoriscono una omologazione in cui poi riescono a prevalere sempre gli stessi. Per risolvere la Questione antropologica meridionale e quella generale, la riforma culturale è un obiettivo essenziale, e di lungo termine, che deve basarsi prioritariamente sul coinvolgimento delle donne, in particolare le madri, che devono diventarne l’oggetto ed il soggetto principale, per approcciare finalmente il problema del Sud non soltanto con misure economiche (rivelatesi in 150 anni insufficienti), ma, parallelamente, anche culturali, con oggetto e soggetto appunto le donne, trasformandole da problema e fattore di conservazione in risorsa e motore del cambiamento. Solo se si affronta il problema alla radice, nel luogo giusto – la famiglia – e investendo sulla figura fondamentale – la madre – nel periodo giusto – durante la gravidanza e nei primi 3 anni di vita dei figli – non solo possiamo educare ad essere bravi genitori, che è un mestiere difficile e pressoché nessuno lo insegna, evitare la condanna di Sisifo di continuare a fare un lavoro inutile dopo, prevenire ed assistere il 20% di casi di donne che vanno in depressione o di bambini con problemi psichici, ma anche riuscire a porre solide basi per una vera, autentica, necessaria rivoluzione culturale.

  8. Giovanni Podda

    Dunque bisognerebbe rinunciare all’occasione che hanno alcune zone dell’Italia di riagganciare il nord dell’Europa solo perchè qualcuno rimarrà indietro? Un Nord che corre può solo fare bene al Sud del paese, un intero paese che langue non giova a nessuno. E poi per il Sud credo sempre nel vecchio adagio (scusate la volgarità) "Quando l’acqua tocca il culo, s’impara a nuotare".

  9. alessio fionda

    La cosa davvero grave (nel silenzio dei palazzi della politica) è che non esiste nessun paese in Europa con così alti tassi di diseguaglianza interna come il nostro e ciò avviene in quasi tutti gli indicatori (tassi di occupazione e disoccupazione, livelli di istruzione, di Pil, di illegalità, di evasione fiscale, di raccolta differenziata, di lunghezza dei processi ecc…). Abbiamo regioni autonome come il Trentino Alto Adige con performance svedesi e la Sicilia da livelli da paesi in via di sviluppo, regioni a statuto ordinario come la Toscana e l’Emilia Romagna che registrano alti livelli di capitale sociale e poi la Calabria e la Campania con storie aberranti… Il federalismo non sarà mai la soluzione se sarà un federalismo uguale per tutti, sarebbe necessario innanzitutto avere uno Stato centrale forte, autorevole e competente che sappia guidare ed accompagnare il processo federalista e decidere di volta in volta a chi dare competenze e a chi toglierle e soprattutto sanzionare davvero gli amministratori incompetenti bloccando loro davvero la carriera politica… Utopia?

  10. Jorge

    E’ chiaro che i problemi italiani non possono in alcun modo essere analizzati e compresi se non si considerano le profonde differenze esistenti tra le regioni. Da una attenta analisi di dati resi disponibili negli ultimi giorni, si nota per esempio che in Lombardia i livelli di conoscenza linguistica/matematica/scientifica degli studenti a 15 anni (vedi test PISA) sono ai livelli dei primi 10 paesi (al mondo!) e ciò a fronte di una spesa per l’istruzione sul PIL che in Lombardia è la metà della media europea (vedi ISTAT "noiItalia 2010" – pag. 94). Anche la Sanità lombarda vede risultati molto buoni, testimoniati dall’afflusso di pazienti da tutta Italia, con una spesa pro capite in linea con il resto del paese e con una efficacia ed efficienza complessiva ai più alti livelli internazionali. La soluzione di molti problemi italiani richiede "semplicemente" la estensione al resto del paese delle eccellenze gestionali esistenti in alcune regioni. Perchè ciò possa avvenire, a fronte degli ostacoli di natura sociale e culturale citati nell’articolo, ritengo utile un piano che preveda il trasferimento temporaneo dei migliori amministratori verso le regioni meno efficienti.

  11. Fiorenzo stevanato

    E’ giusto analizzare ed anche criticare l’orientamento federalista delle riforme in atto. In buona parte, le osservazioni possono essere condivisibili ma il lettore si attende anche una proposta alternativa per non trovarci sempre al punto di partenza con tanta rassegnazione.

  12. Giuseppe

    Qualcuno (Vincesko) si azzarda ad elevare a questione antropologica il problema. Si sta fraintendendo il significato della ricerca sul capitalie sociale,e le implicazioni normative. Il capitale sociale non deve essere utilizzato come pretesto per liquidare le difficoltà di una popolazione ad un problema di "cultura sbagliata" che andrebbe sradicata,modificata. La carenza di capitale sociale è conseguenza del prolungarsi nel tempo di ingiustizia sociale e legale, miseria e ignoranza, e non si risolve con l’indottrinamento: non cambia le aspettative e la percezione concreta che i cittadini hanno del ruolo dello stato,della giustizia legale e sociale. Occorre molto tempo per incidere sulla cultura: tempi almeno generazionali. La chiave allora sarebbe trovare i meccanismi che possono funzionare se il capitale sociale è scarso,prima di immaginare di poterlo creare. Ma in realtà non è nemmeno tanto la scarsità,quanto la difficoltà per la cosiddetta "parte sana"di agire coerentemente con i propri valori in un contesto degradato. E le carenze nelle infrastrutture, non si risolvono con le parole. E quando hai l’aqua al culo affoghi, se non hai i mezzi per nuotare.

  13. massimo lanfranco

    Una correlazione molto chiara, che puntualizza il fallimento delle politiche tipo "cassa del mezzogiorno" sviluppate negli ultimi 50 anni. un territorio non può essere "sollevato" dall’esterno come è ben esemplificato dalle azioni internazionali nei paesi in via di sviluppo o negli stati "falliti". l’unico aiuto che lo stato può dare al sud è quello di incentivare la creazione di una classe dirigente locale (politica e burocratica) che guidi le regioni del sud. la proposta di Jorge di mandare i migliori amministratori nelle regioni meno efficienti è destinata al fallimento: si tratta di uno sforzo che dovrebbe durare non meno di 30 anni. creare una nuova generazione di politici ed amministratori richiede una generazione e molti miliardi di euro di investimenti in educazione e formazione.

  14. Vincesko

    Vorrei dire a Giuseppe che io sono meridionale e che Cultura in senso antropologico vuol dire (Wikipedia): "Insieme dei costumi, delle credenze, degli atteggiamenti, dei valori, degli ideali e delle abitudini delle diverse popolazioni o società del mondo". Parlavo della donna come fattore critico per lo sviluppo del Sud. Sembra proprio ci sia correlazione tra ruolo e grado di partecipazione della donna e indice di sviluppo di un Paese: IV Rapporto Onu sullo sviluppo umano nei paesi arabi, Rapporto UNDP sullo Sviluppo Umano 2010, Rapporto ISTAT relativo al II trim. 2010 (tabb. 13 e 14), il dato d’inattività delle donne, pari al 48,6% (39,4% al Nord e 42,4% al Centro) è determinato dal peso negativo del Sud: “Nel Mezzogiorno, il tasso di inattività della componente femminile è pari al 63,5 per cento”. Occorre – come per i Paesi arabi – rimuovere questo macigno operando congiuntamente su due direttrici: quella economica e quella culturale.

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