Lavoce.info

LA PAROLA FINE SULLA RIFORMA BRUNETTA

L’accordo del 4 febbraio tra governo, Cisl e Uil cancella uno dei punti qualificanti della riforma del pubblico impiego: la distribuzione obbligatoria dei dipendenti in tre livelli di valutazione. Troppo semplicistico e draconiano ridurre il problema della produttività dei dipendenti pubblici a un risultato valutativo precostituito in laboratorio. Ora una semplice intesa sindacale ne elimina gli effetti. Ma sarebbe stata più opportuna una vera autocritica, con una nuova riforma che imponesse valutazioni serie, meritocratiche e differenziate.

Il re è nudo o la montagna ha partorito un topolino oppure tanto rumore per nulla. Sono molti i modi di dire a cui far ricorso per stigmatizzare la certificazione del sostanziale fallimento dell’esperimento di introdurre in modo forzato nel pubblico impiego una valutazione differenziata che deriva dall’intesa governo-Cisl-Uil dello scorso 4 febbraio. Ma la sostanza non cambia,
Ormai è chiaro il gioco al ribasso voluto dai sindacati e al quale il governo si è prestato sull’applicazione della riforma del ministro Brunetta, per manifesta impossibilità di far funzionare in modo razionale il sistema delle “fasce di valutazione”.

L’OSSESSIONE DELLA CACCIA AL FANNULLONE

L’accordo del 4 febbraio, infatti, nella sostanza finisce per disapplicare proprio uno dei punti maggiormente qualificanti della riforma: l’obbligatoria distribuzione dei dipendenti in tre livelli di valutazione.
Non è detto, tuttavia, che di per sé ciò sia un male. Certo, la riforma Brunetta (il decreto legislativo 150/2009) non è sicuramente nata e cresciuta sotto una buona stella. Èstata impostata in modo da andare a regime nel 2011 (per gli enti locali, in parte nel 2012), ma una serie di incertezze interpretative dovute alla non felice formulazione del testo, la feroce opposizione delle organizzazioni sindacali alla sua completa attuazione, una serie di sentenze dei giudici del lavoro secondo le quali la riforma non potrebbe essere applicata se non dopo la nuova contrattazione nazionale collettiva, l’hanno resa sostanzialmente una norma-slogan. Molto pubblicizzata, poco attuata.
Su queste pagine più volte si è rimarcato l’errore di impostazione insito nella riforma e che consiste nell’insistere eccessivamente nella valutazione della prestazione individuale come sistema meritocratico. L’ossessione della “caccia al fannullone” ha fatto perdere di vista che anche nelle aziende i premi sono per lo più assegnati per la produttività dell’impresa o di gruppi di lavoro. Difficilmente, se non per particolari categorie di lavoratori (ad esempio gli agenti di vendita) si insiste troppo sui premi individuali. Troppo alto il rischio che da una sana competizione si trascenda in una competitività fine a se stessa, senza benefici per l’organizzazione. In fondo, questa è stata una delle principali motivazioni delle clamorose dimissioni di Pietro Micheli dalla Civit (Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche), che dovrebbe garantire la corretta applicazione della riforma.
L’accordo del 4 febbraio, tuttavia, in piena contraddizione con gli intenti della riforma impone di salvaguardare il salario dei dipendenti pubblici, compreso quello discendente dalla valutazione della produttività. Rendendo impossibile modificare il sistema di valutazione e, dunque, la distribuzione in fasce di premio e, di conseguenza, la differenziazione del merito.
A questo punto, l’intero sistema di valutazione immaginato dalla riforma, che prevede documenti complessi, scadenze, organismi interni di valutazione di nuovo conio, un ente nuovo e oneroso (8 milioni di euro l’anno) come la Civit, perde oggettivamente di senso. Anche considerando, come lavoce.info ha avuto modo di evidenziare, che – almeno per il comparto Regioni-enti locali, in media i premi per il merito ammontano a circa 400 euro lordi.
L’accordo certifica come fosse forzato e poco giustificato pretendere che il 25 per cento dei dipendenti pubblici (fascia di merito d’eccellenza) fosse di per sé produttivo, mentre un 50 per cento fosse capace di lavorare in modo ordinario (fascia mediana), e sicuramente il restante 25 per cento (ultima fascia valutativa) non meritevole di alcun incentivo economico. Troppo semplicistico e draconiano ridurre il problema – se tale davvero è – della produttività dei dipendenti pubblici a un risultato valutativo precostituito in laboratorio.
Inevitabile, dunque, giungere a una disapplicazione (sotto mentite spoglie) della relativa norma. Sarebbe stata più opportuna una vera e seria autocritica, mediante una riforma legislativa che imponesse valutazioni serie, meritocratiche e differenziate, ma senza prefissarne i risultati. Il legislatore dovrebbe esentarsi dall’agire come un capo ufficio e gestire direttamente i rapporti di lavoro.

DOPO IL 4 FEBBRAIO

Due considerazioni finali e una domanda. Prima considerazione: dopo anni di gran parlare e approfondire la riforma, una semplice intesa sindacale ne elimina sostanzialmente gli effetti, lasciando in piedi, però, l’onerosissimo sistema di valutazione. Occorre chiedersi se il costo valga il beneficio. Seconda considerazione: la Civit, in barba a qualsiasi regola di efficienza aziendale, aveva di recente imposto alle amministrazioni di garantire il contraddittorio per la valutazione, rendendo obbligatoria la conciliazione, che il recente collegato lavoro (legge 183/2010) ha reso facoltativa. Rendendo, così, il processo valutativo ancor più farraginoso e incerto, esposto a continui ricorsi.
La domanda: a sottoscrivere l’accordo del 4 febbraio col governo, in un’ottica di ipertutela di lavoratori non poco protetti, come i dipendenti pubblici, sono quegli stessi sindacati che, sul piano delle relazioni sindacali con la grande industria, hanno invece decisamente lasciato molto terreno sulle tutele?

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  L'eredità del #metoo: molestie e ricatti sessuali sul lavoro
Leggi anche:  Jobs act: cancellarlo non risolve i problemi del lavoro

Precedente

I TAGLI CHE NON FANNO RUMORE

Successivo

FESTA DELL’UNITA’ D’ITALIA (…che tristezza!)

17 commenti

  1. Vincesko

    Ho lavorato molti anni nell’ambito del Controllo di gestione di una grossa azienda IRI. Il controllo in Italia, per un fatto culturale – forse di derivazione cattolica – non piace a nessuno e, quando viene fatto, è spesso edulcorato e di esso si tende a fare, anche nelle aziende, un uso c.d. “politico”, nel senso che viene piegato, strumentalizzato a fini di potere interno. Il criterio meritocratico, tanto sbandierato in teoria, ma così poco applicato nella pratica, è , insieme, figlio e vittima della stessa cultura, che permea l’intera società italiana e quindi anche – e soprattutto – la sua classe dirigente (politica, sindacale, ecc.) , che in più pretende per sé – senza pudore, sicura della complicità assolutoria – l’applicazione di un doppio standard morale.

  2. Antonio Damiano

    La riforma era partita male e finisce peggio. Condivido totalmente l’analisi di Olivieri e credo sia sbagliata la scelta, di molte amministrazioni, di pensare di valutare tutto il personale per l’attività ordinaria, al fine di distribuire il salario accessorio. Ritengo, invece, che le amministrazioni dovrebbero procedere con l’approvazione di pochi progetti strategici che coinvolgano solo alcuni dipendenti. Se poi, il team che ci ha lavorato, ha raggiunto l’obiettivo ottiene la produttività. Sarebbe stato molto più semplice ed efficace..ed invece….

  3. gianfranco rebora

    Qualche mese fa avevo già scritto di "pietra tombale sulla riforma brunetta" in relazione alla manovra finanziaria di Tremonti. Ora se ne traggono le inevitabili conseguenze d’intesa con i sindacati. Il problema è che non si è mai voluto fare una riflessione critica sui contenuti di riforma tentati dal 1992 ad oggi e sui paradigmi concettuali sottostanti, prima di tutto l’idea di direzione per obiettivi e la conseguente incentivazione. Ma c’è anche la questione del datore di lavoro pubblico che resta un’astrazione se manca una condivisione da parte dei diversi centri decisionali e si fanno forzature con strumenti solo apparentemente forti come le leggi. Le diverse parti hanno continuato a operare in modo opportunistico e la Civit, trovandosi priva di un reale spazio strategico, ha aggravato le cose con il suo attivismo, divenendo esempio vivente di come un’alta produttività priva di intelligenza di cose e situazioni abbia scarso valore, anche se sostenuta da sapere scolastico. In attesa di una riflessione di più ampio respiro, che richiederebbe un diverso quadro politico, ora bisognerebbe almeno salvaguardare la parte più valida della riforma che riguarda la trasparenza.

  4. raffaele principe

    Qualcuno ha paragonato la Brunetta agli ordini di Stalin, che voleva un tot di inquisiti e puniti con il gulag o la fucilazione. Ma almeno aveva "la scusante" di partire dai propri fallimenti per cercare i "colpevoli". La Brunetta individua gli "incapaci" a priori, a prescindere: pertanto, se una struttura funziona benissimo(prendiamo la Protezione civile, da questo governo tanto decantata) dovranno comunque cercarne un 25% di fannulloni da castigare. I romani avevano le decimazioni dopo le sconfitte militari, Stalin la Siberia e Brunetta i fannulloni. E’ chiaro che un discorso serio, invece, si può fare individuando uno standard qualitativo per settore, comparando le singole strutture con questo standard e valutando il comportamento, collettivo e anche dei singoli lavoratori. I dirigenti si devono far carico dell’organizzazione, della responsabilità e della formazione della struttura di loro competenza. Un altro dei problemi più seri è la pessima distribuzione del personale e delle risorse, non solo fra settori, ma anche all’interno dello stesso settore, a livello territoriale e/o di ufficio.

  5. Alberto

    La riforma Brunetta, con le tre fasce di valutazione, non avrebbe risolto il problema, traducendosi probabilmente in una guerra tra dipendenti per avere il favore del dirigente. Nella P.A. di oggi, uno dei problemi è l’eccessiva ingerenza della politica, la scarsa chiarezza degli obiettivi, la mancata applicazione di sanzioni per le inefficienze. Come esempio, si potrebbe guardare alla spesa dei fondi UE, sui vari comparti produttivi e sui vari obiettivi. E inoltre, non nascondiamocelo, i tagli fatti alla P.A. spesso sono stati solo un mezzo per esternalizzare servizi e fare proliferare collaborazioni e contratti con società e cooperative, su cui esercitare in modo più incisivo i ricatti e la discrezionalità della politica.

  6. Giovanni Wyder

    Sono consulente aziendale, specializzato in materia. Un buon sistema di valutazione delle prestazioni, sia individuali che di gruppo, deve basarsi in buona parte più sul raggiungimento di obiettivi concordati che sul comportamento, onde evitare giudizi soggettivi di preferenze. Obiettivi SMART (= specifici, misurabili, ambiziosi, realistici, e tempificati), che riguardino non solo il lavoro, ma anche lo sviluppo del singolo o del team. Questi criteri richiedono formazione a tutti i livelli e valgono anche per enti pubblici e statali. Cordialmente. Giovanni Wyder.

  7. Cosimo Benini

    Pietà ci vuole. Per connotare il velo da distendere, come un sudario, sull’azione pubblicitaria di un ministro politico, chiamato a fare fumo e fiamme per dar sfogo al bieco revanscismo di una parte della società italiana contro un’altra. Mi scuso: vorrei esprimere un commento tecnico, ma il mio intelletto si rifiuta di prendere in considerazione la propaganda governativa alla voce "riforme". Non posso, pertanto, che chiamare questo teatrino con il suo nome: propaganda.

  8. ALBERTO LANZA

    Nel condividere totalmente le considerazioni dell’autore, colgo l’occasione per soffermarmi sull’interrogativo finale dallo stesso sollecitato, per chiedermi e chiedere: non è ormai evidente che esiste un "patto di reciproco sostegno" tra una parte del sindacato e l’attuale maggioranza di governo che fa si che tal sindacato sia riconosciuto come riformista e propulsore di un rinnovato e moderno sistema di relazioni sindacali quando, nell’ottica della maggiore produttività e dell’efficienza della fabbrica, consente che il lavoro possa essere valutato attraverso l’adozione di una metrica decisamente penetrante nei confronti della prestazione lavorativa, anche al prezzo di interventi limitativi su aspetti quali il diritto alle pause, agli straordinari, alle assenze, al diritto di sciopero e, ancora, quando ripristina nel settore del lavoro pubblico quella distribuzione egualitaria e orientata verso il basso delle scarse risorse destinate a incentivare la prestazione lavorativa; alla faccia delle riforme della pubblica amministrazione, del mercato del lavoro, della libertà d’impresa a meno che, almeno per quest’ultima, non sia semplicemente sufficiente modificare l’articolo 41 della Costituzione.

  9. carmelo lo piccolo

    Non credo che l’affossamento di fatto della cosiddetta "Riforma Brunetta" sia da attribuire al Sindacato. In realtà si è trattato di un provvedimento dal chiaro intento propagandistico fin dalla sua approvazione, che mirava a sfruttare il risentimento di massa verso i "garantiti" impiegati pubblici, che a giudizio del Governo e di molti economisti (compresi, mi dispiace dirlo, quelli de "La voce.info!) andavano penalizzati in tutte le maniere possibili per far scontare loro il "privilegio" di essere di fatto non licenziabili. Chi vuole veramente riformare il pubblico impiego, più che costruire fumosi e farraginosi sistemi di valutazione che servono solo a precarizzare psicologicamente le persone, dovrebbe occuparsi con umiltà e determinazione di due aspetti fondamentali: come costruire un contesto "motivazionale" che induca tutti a migliorarsi e dei percorsi di carriera che valorizzino non il mero possesso del titolo di studio, ma la effettiva professionalità del dipendente, da accertare con procedure selettive non autoreferenziali e non controllabili dall’ente pubblico in alcun modo, per evitare "promozioni di massa".

  10. matteo

    Lavoro in una PA del Nord Italia in cui la valutazione individuale è attiva da almeno 10 anni e posso testimoniare che è stata un fallimento completo. Anzitutto i sindacati hanno imposto dei criteri talmente larghi che un dipendente può ricevere valutazione negativa solo se ha un comportamento ai limiti del licenziamento, poi a livello dirigenziale cane non morde cane per cui sono tutti invariabilmente promossi. Morale in 10 anni, alcune decine di migliaia di schede di valutazione hanno prodotto forse 50 valutazioni negative e tutte concentrate nei livelli bassi della gerarchia. E ovviamente la produttività non è cambiata….che poi nel mio ente è in media discreta o buona ma, comunque, non è migliorata per effetto della valutazione.

  11. MAURIZIO

    Ritengo che le valutazioni serie siano possibili anche oggi. Perché non vengono svolte? A mio avviso perchè non interessano ai clienti interni (dall’usciere al direttore generale) e neppure al livello di indirizzo polico-amministrativo. Nel primo caso è umanamente comprensibile; il salario accessorio, che almeno negli enti locali è di entità modesta, permette alle basse qualifiche di integrare lo stipendio tabellare e arrivare a livelli di "decenza" salariale. Nel secondo caso c’è da osservare che i politici che amministrano gli enti locali sguazzano nel clientelismo e sono interessati a far assumere parenti ed amici fautori di voti e cordate elettorali. Creano a tal fine spesso società per azione di dubbia utilità o sovraccaricano di persone quelle esistenti. Può capitare che, appena insediati, blaterino di efficienza e produttività per ragioni di immagine soprattutto in situazioni eclatanti e di forte malcontento. Naturalmente le critiche sono sempre retrospettive verso i precedenti amministratori. Ci sarebbe tanti aneddoti in proposito che ognuno che abbia frequentato all’interno gli uffici può proporre, ma è letteratura..

  12. Michele Luccisano

    Condivido quasi tutto quello che scrive Oliveri, ma invito anche lui a considerare che i principi della c.d. riforma Brunetta sulla premialità e della differenziazione delle valutazioni oggettivamente e proporzionalmente legate ai risultati conseguiti dai dipendenti, non erano (e non sono) estranei all’ordinamento di comuni e province e agli stessi ccnl di comparto. Diversamente da Oliveri penso che l’intesa del 4 febbraio sia una conseguenza del fatto che quei principi in realtà fossero sconosciuti all’altro mondo della p.a., a partire dai Ministeri, ove l’applicazione non s’era mai nemmno tentata in passato. La rigidità di alcune delle norme della riforma (ad es., l’obbligo delle tre fasce e la struttura quasi obbligatoria che ne derivava, come la riduzione dell’area di contrattazione), era stata voluta per impedire la disapplicazione che s’era avuta in passato quando s’era dovuto fare i conti con norme davvero di solo principio. Anche in questa ottica si legge – io penso – quella brutta intesa del 4 febbraio che però non paralizza i principi della riforma. Quei principi che gli enti locali magari già applicavano e che io penso possano ancora applicare. Anzi debbano applicare.

    • La redazione

      Una riforma è realmente tale se determina una modifica su un assetto precedentemente esistente. E’ vero che l’ordinamento locale era già improntato a criteri assolutamente simmetrici a quelli della "legge-Brunetta" (tanto è vero che gli enti già in regola con detto ordinamento avevano ben poco da adeguarsi, contrariamente a quanto ha sostenuto per un anno la Civit…); ma, allora, la riforma non è, per detto ordinamento, una riforma reale, in quanto nulla, o pochissimo, ha cambiato. L’unico cambiamento concreto, valevole, sia pure in forma meno drastica, anche per gli enti locali era l’introduzione delle fasce di valutazione, che ora l’accordo del 4 febbraio getta alle ortiche. Dunque, la riforma per gli enti locali da un lato non ha riformato granchè in merito alla premialità, dall’altro subisce indirettamente lo stop dell’intesa. Non è che qualcuno, pertanto, intenda buttare via tutto, semplicemente ci si limita a constatare quale sia l’efficacia concreta della riforma. E non possiamo certo affermare che sia particolarmente elevata…

  13. Aristotele

    Ma se a valutarmi è solo il Dirigente a cui sto antipatico? O che sa che politicamente sto da una altra parte? E poi questo dirigente che è in quel posto perchè nominato dal Politico di turno, cosa volete che faccia, se non gli interessi del Politico! E l’impiegato che farà notare alcune discrasie che fine volete che faccia? Sarà considerato il rompiballe che rema contro e che si deve punire. Il modo si trova. Sempre! Prima di fare discorsi ad alti livelli filosofici, si deve conoscere intimamente la situazione, vera e reale, non della PA, ma di chi ci lavora. Si capirà, quindi, che la PA va male perchè si vuole che sia così. Pensate che qualche impiegato del Trivulzio non abbia fatto notare che affittare in quel modo non andava bene? Pensate bene! Non lo ha fatto perchè ci avrebbe rimesso, come minimo la produttività, e poi sarebbe stato oggetto di mobbing, anche da parte dei colleghi, ai quali conveniva perchè, altrimenti, sarebbe toccato anche a loro. Concorsi, concorsi seri!!!! Un concorso non è forse il massimo della concorrenza?

  14. Dario Quintavalle

    Al contrario, la riforma ha funzionato benissimo: è servita a un ministro vanaglorioso a farsi pubblicità, e al Prof. Ichino a tornare in Parlamento; ha mascherato la vera riforma, cioè il blocco del turnover e quindi la riduzione dei ranghi della PA, con perdita di decine di migliaia di posti di lavoro (-12.000 effettivi solo al Ministero della Giustizia); ha deviato sui pubblici dipendenti (presunti fannulloni a prescindere da qualunque dato attendibile) la rabbia e il malcontento popolare per i costi della Casta; ha distrutto ogni senso dello Stato e del servizio pubblico (vedi il recente attacco del premier alla scuola pubblica); ha creato una leva di sedicenti esperti di pubblica amministrazione, ammessi a dire qualunque sciocchezza e strapagati; non ha toccato minimamente i meccanismi clientelari di nomina degli alti gradi dell’amministrazione; non ha chiuso minimamente il rubinetto delle leggi e leggine (ultima, il Milleproproghe) che ogni giorno modificano il quadro di riferimento tanto per i cittadini quanto per la PA, con costi di transazione sempre più alti. Bravi davvero!

  15. Marco Guardabassi

    Effettivamente la forzosa suddivisione in tre fasce predefinite era, ed è, difficilmente comprensibile. ma ciò non tocca, a mio giudizio, la validità del principio: la gestione delle risorse umane, anche nella p.a., non può prescindere dalla valutazione, che ne è strumento fondamentale. dalla vicenda personalmente traggo grande sconforto: ancora una volta la spunta la refrattarietà, tutta italiana, alla valutazione. anzi, la refrattarietà ad essere valutati, compensata da una smodata propensione a valutare gli altri. tutti bravi a giudicare, nessuno che accetti di essere giudicato. e i commenti di questo blog mi sembrano in gran parte confermarlo. purtroppo non fanno eccezione i dirigenti (categoria cui appartengo) che, invece, dovrebbero considerare la valutazione (attiva e passiva) come parte del proprio ordinario lavoro. tutti vorremmo "valutazioni serie, meritocratiche e differenziate"; purtroppo in questo momento e nelle condizioni in cui è il nostro apparato pubblico, sa di "benaltrismo" e nei fatti rischia di finire, al solito, con la vituperata (a parole; in realtà amatissima) distribuzione a pioggia (todos caballeros!).

  16. Rossella Potocco

    Quell’accordo non esclude affatto gli effetti di quello che Lei chiama “uno dei punti qualificanti della riforma del pubblico impiego pur se abbisognevole di autocritica “. Infatti, quando al punto 3 si legge: “a tale scopo per l’applicazione dell’art. 19, comma 1 del d.lgs 150/2009 potranno essere utilizzate esclusivamente le risorse aggiuntive…”, vuol dire che i firmatari accettano a tutti gli effetti di applicare,per le risorse aggiuntive,il criterio di suddividere i dipendenti pubblici in tre fasce rigide, altro che eliminarne gli effetti.C’è un vero e proprio sdoganamento del criterio secondo il quale il 25% del personale (i bravissimi) riceve il 50% delle risorse aggiuntive, il 50% del personale (i senza infamia e senza lode ) incassa il restante 50% e l’ultimo 25% (gli asini) non incassa nulla. Basterebbe da solo, con tutta la sua stupida rigidità, a squalificare l’intera Riforma Brunetta che, comunque, contiene molte altre chicche, per così dire, “qualificanti”. Per accorgersene basta leggerla. Aggiungo il testo dell’accordo citato per un agevole controllo : http://www.fp.cgil.lombardia.it/userfiles/file/pubblico-impiego/2011/110204-testo-accordo-separato-contrattaz-int

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén