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EMERGENZA UMANITARIA TRA IPOCRISIE E REALTÀ

Un paese di 60 milioni di abitanti, con il 12 per cento della popolazione europea, collocato nel cuore del Mediterraneo, può davvero pensare di non fare i conti con il fenomeno dei richiedenti asilo? Ma è tutto il sistema dell’accoglienza che non funziona e che necessita di una legge organica, con una chiara ripartizione di competenze tra centro e periferia, un coinvolgimento degli enti di tutela e una programmazione degli interventi. Quanto alle risorse, basta ricordare che l’accordo Italia-Libia costa 250 milioni di dollari l’anno, per venti anni.

 

Sono circa 28mila gli immigrati sin qui arrivati sulle coste italiane. Di questi, solo una minoranza sta facendo domanda di asilo. Nella stragrande maggioranza si tratta di persone venute da noi per ragioni economiche. Secondo la prassi, avrebbero dovuto essere trasferite nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) dove vengono inviate le persone irregolarmente presenti in attesa della loro effettiva espulsione. Ma questi centri sono in tutta Italia tredici per un totale di meno di duemila posti letto.

DOVE VANNO I MIGRANTI

Le strutture destinate alla prima e seconda accoglienza dei profughi e richiedenti asilo sono molto articolate, disegnano un sistema a tre livelli. I Cpsa, Centri di primo soccorso e accoglienza, istituiti con decreto interministeriale del 16 febbraio 2006, sono tre per un totale di 1.204 posti; il più famoso è quello di Lampedusa che da solo può contenere 804 persone. Tre sono anche i Cda, Centri di accoglienza, istituiti nel 1995 dalla cosiddetta “ex legge Puglia”, per complessivi 2.054 posti. Mentre sono cinque per un totale di 998 posti i Cara, Centri di accoglienza per richiedenti asilo, istituiti dal decreto legislativo n. 25 del 28 gennaio 2008 che ha recepito la direttiva “procedure”, ma per il quale dopo tre anni manca ancora il regolamento attuativo. Infine esistono sette centri Cda+Cara per un totale di 2.337 posti.
Si tratta complessivamente di diciotto strutture per circa 6.600 persone che dovrebbero garantire la prima e seconda accoglienza ma che essendo quasi sempre al completo non possono essere utilizzati per fare fronte a una massiccia affluenza.
Esiste poi lo Sprar, Sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati, gestito dagli enti locali in accordo con il ministero degli Interni che dovrebbe occuparsi della terza fase, quando ottenuto lo status di rifugiato, si affrontano le tappe dell’inserimento linguistico, lavorativo e abitativo (tremila posti per un massimo di sei mesi). Spesso però lo Sprar si fa carico anche della prima accoglienza. Nella realtà quindi le distinzioni non sono così chiare, e anche se la strategia del decentramento territoriale ha migliorato la situazione sia per quanto riguarda l’esame delle domande che per l’accoglienza, la mancanza di un disegno organico è evidente.
Teoricamente, un richiedente asilo può fare domanda di accoglienza anche durante la permanenza nei Cie, ma queste strutture sono anch’esse in difficoltà perché il Pacchetto sicurezza (legge 94/2009) ha prolungato la permanenza degli ospiti fino a un massimo di 180 giorni provocando di fatto un effetto saturazione. Tutto ciò peraltro non ha contribuito ad aumentarne l’efficienza in termini di effettive espulsioni.

IL RUOLO DELLE REGIONI

Il 6 aprile è stato firmato un nuovo accordo (dopo quello del 30 marzo) tra Stato, Regioni ed enti locali: per affrontare l’emergenza umanitaria seguita alle rivolte in Tunisia e Libia, viene previsto il ricorso a due importanti strumenti. Il primo è l’articolo 20 del Testo unico sull’immigrazione, ovvero la possibilità di adottare “misure di protezione temporanea per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea”. Il secondo è l’articolo 5 della direttiva 55/2001, emanata dopo la crisi umanitaria conseguente alla guerra in Kosovo, che prevede la concessione di una protezione temporanea in caso di afflusso di sfollati. Poiché si tratta di una disposizione europea, il governo si è assunto l’impegno di sostenerla presso il Consiglio dei ministri dell’Interno dell’Unione.
La prima misura è rivolta ai migranti provenienti dalla Tunisia (quelli che il governo ha definito per settimane “clandestini”) , la seconda a coloro che arrivano dalla Libia (i profughi).
Occorre ricordare che il governo ha iniziato a parlare di un flusso massiccio dal Nord Africa a febbraio, prima che iniziassero gli sbarchi a Lampedusa; all’epoca si parlava di almeno 50mila persone. Perché allora il governo che aveva previsto con così tanto anticipo i fatti (sebbene esagerando un po’ sui numeri) non ha pensato di ricorrere prima ai due strumenti che la normativa consente? Come fu fatto ad esempio nella primavera del 1999, quando l’esecutivo riuscì ad adottare tempestivamente l’articolo 20 per l’emergenza del Kosovo, dal punto di vista dei numeri più grave della attuale.
Nell’accordo del 6 aprile le Regioni e gli enti locali hanno chiesto di superare l’idea delle mega-tendopoli per lasciare spazio all’utilizzo di strutture vere e proprie e a una distribuzione sul territorio per piccoli numeri.
È chiaro tuttavia che l’attuale sistema di accoglienza è insufficiente per affrontare tutto ciò che esula dalla normale amministrazione; occorre pertanto evitare atteggiamenti ipocriti e intervenire con una riforma complessiva.

RIFUGIATI IN ITALIA

Dopo la crisi di Lampedusa, il governo italiano si è ripromesso inoltre di chiedere una revisione della convenzione di Dublino, che regola il diritto di asilo nell’Unione Europea. Proprio in questi giorni è uscito il rapporto 2010 dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, con cifre che spiegano perché si tratterà di un’impresa ardua.
Per effetto dell’accordo Italia-Libia del 2008, le domande di asilo presentate in Italia nell’ultimo biennio sono state assai scarse. E anche se guardiamo al quinquennio 2006-2010 il nostro paese con un totale di 80mila domande presentate è solo sesto nell’Unione Europea, preceduto da Francia (185 mila), Svezia (141 mila), Regno Unito (140 mila.000), Germania (131 mila) e Grecia (83 mila).
Un più equo computo dei richiedenti asilo sui residenti di ogni paese, pone però al primo posto Cipro con il 24 per mille, seguito da Malta con il 19 per mille, Svezia 15 per mille e naturalmente Grecia 7,5 per mille (la frontiera del fiume Evros tra Grecia e Turchia si conferma sempre più strategica per la “fortezza Europa”).
La media europea è stata del 2,3 per mille nell’ultimo quinquennio, l’Italia con il suo 1,3 per mille risulta addirittura al di sotto, nonostante nel 2008-2009 l’accordo con la Libia abbia notevolmente ridimensionato i flussi. Un paese di 60 milioni di abitanti con il 12 per cento della popolazione europea, collocato nel cuore del Mediterraneo, dovrà comunque fare i conti con il fenomeno dei richiedenti asilo in futuro, anche se le regole di Dublino fossero riviste (e occorreranno comunque alcuni anni).
Il fenomeno dell’asilo, come quello più generale dell’immigrazione, va quindi considerato come un elemento strutturale. Bisognerebbe poi intendersi sul significato della parola “emergenza” perché oggi in Italia vivono 55mila rifugiati, mentre in Francia sono 200mila e in Germania 600mila.
Ma anche sul fronte delle risorse impiegate, per l’Italia i conti non tornano.
Le strutture sopra elencate assorbono una spesa complessiva di circa cento milioni di euro l’anno per i posti letto, e le piccole strutture dello Sprar (ventidue posti di media) sono più economiche dei grandi centri come i Cara.
Ma cento milioni non sono molti, anzi. Per l’emergenza di queste settimane spenderemo molto di più.
L’accordo con la Libia di Gheddafi (con il quale qualcuno si era illuso di risolvere quasi tutti i problemi) costa 250 milioni di dollari l’anno, per venti anni. Senza contare che i costi morali e di credibilità per il nostro paese sono stati ancora più alti, mentre il costo di vite umane nel Mediterraneo è ancora sconosciuto.
Ora queste risorse potrebbero essere riconvertite proprio per creare un sistema di accoglienza non particolarmente generoso, ma almeno in linea con gli standard europei. Occorre una legge organica sull’asilo con una chiara ripartizione di competenze tra centro e periferia, un coinvolgimento degli enti di tutela, una programmazione degli interventi non inferiore ai dodici mesi, standard qualitativi. Se in futuro ci si troverà ad affrontare i numeri prospettati dal governo in febbraio (parliamo sempre di asilo), va ricordato che la risposta spagnola è stata quella di una maggiore selettività nell’esame delle domande, mentre quella inglese è stata un bilanciamento tra ingressi per asilo e ingressi per migrazione economica.
Chiediamo aiuto all’Europa quando ci conviene, ma sosteniamo il “Pacchetto sicurezza” contraddetto dalla direttiva “rimpatri”; è appena stato varato un decreto flussi per 80mila lavoratori sul quale le Regioni non sono state consultate, ma non è stato previsto l’arrivo di 22mila migranti economici dalla Tunisia.
Sono sicuramente problemi molto complessi, ma non è dato illudersi che qualcuno li risolva al posto nostro.

* Regione Emilia-Romagna. Rappresentante delle Regioni nel Comitato tecnico nazionale sull’immigrazione.

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QUANDO GALLIANI DÀ LEZIONI DI CONFLITTO DI INTERESSI

  1. rousseau

    Questa immigrazione di carattere economico, non farebbe che ingrossare le file dei disoccupati e povere famiglie esistente nel nostro paese, dannegiando maggiormente il già fragile processo d’integrazione, che fa fatica a decollare e alimentando sempre di piú i sentimenti anti-immigrati già esistenti!

  2. Renzo

    Pensare che questa ondata di immigrati possa alimentare la nostra disoccupazione è un modo per sviare l’attenzione da un altro vero problema, che è quello della qualità dei posti di lavoro offerti nel nostro paese. Come sostiene Ricolfi: "il nostro sistema economico riesce a creare quasi esclusivamente posti di lavoro poco appetibili, che gli italiani rifiutano e gli stranieri accettano". Last but not least: grazie ai numeri che ci ha fornito Lavoce cominciamo a capire perché "l’Europa non ci aiuta".

  3. loredana bergo

    Concordo con l’articolista che occorrono soluzioni pratiche (e politiche), di fronte ad un fenomeno sociale ineliminabile. Certo non è una soluzione la politica che cavalca o amplifica la paura dell’immigrato. Soprattutto guardando al confronto dei numeri che il servizio ci ha fornito!

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