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LA RISPOSTA AI COMMENTI

Molti sono stati i commenti al nostro articolo. Non è possibile rispondere a ciascuno. Così scegliamo di rispondere (collettivamente) solo ai lettori critici, lasciando da parte quelli che hanno mostrato apprezzamento per i nostri argomenti e hanno avanzato anche spunti meritevoli di approfondimento. Tra i critici prevalgono gli argomenti contrari alla privatizzazione, e ci attribuiscono addirittura una "voglia di privato" dedotta non si sa bene da che cosa. Ma non era e non è nostra intenzione discutere di questo: ognuno la pensi come vuole e vada o non vada a votare come vuole. Non è nostra intenzione dare indicazioni di voto. L’importante è che sia chiaro a tutti per cosa si va a votare. Alcuni degli argomenti critici potrebbero trovarci in linea di principio d’accordo (Stiglitz l’abbiamo studiato anche noi), se quella di cui stiamo parlando fosse davvero una privatizzazione: peccato che, invece, non lo sia affatto.
La campagna referendaria ha profuso una grande quantità di inesattezze e forzature, che ormai hanno dato vita nella mente delle persone a un mostro virtuale. Qui non si tratta di monarchia o repubblica. Non stiamo parlando di sottigliezze, ma di qualcosa di sostanziale. Alla gente che va a votare si sta facendo credere che il voto è "contro la privatizzazione" e "contro l’ingiusto profitto". Perfino la RAI, negli spot informativi, descrive la norma oggetto del primo quesito come quella che "consente l’affidamento della gestione a privati" (sic). Ci dispiace per chi in buona fede lo ha creduto e tuttora lo crede, ma purtroppo non è così.
Primo punto. Checché vi abbiano fatto credere, la norma oggetto del primo quesito non riguarda la privatizzazione dell’acqua (o del servizio idrico), bensì l’obbligo di gara. Se vincerà il no, non ci sarà nessun obbligo di privatizzazione, perché la legge non prevede quello. Se invece vincerà il sì, non ci sarà nessun divieto di coinvolgere privati, perché nella norma che riprenderebbe vita (la cui abrogazione parziale prevista dall’art. 23-bis verrebbe annullata) la gestione dei servizi a rilevanza economica può essere effettuata mediante società pubblica, concessione a privati o società mista, come infatti è stato finora.
L’unica cosa che cambierebbe veramente è che con la vecchia norma la scelta della gestione in house potrebbe avvenire in modo diretto e senza ulteriori spiegazioni (non solo per l’acqua, ma per tutti gli altri servizi locali). Con la nuova norma che si vuole abrogare, invece, il comune che desidera mantenere la gestione pubblica può farlo, (i) se riesce a dimostrare che la gara è inutile, meritandosi la deroga di cui al comma 3, oppure (ii) se l’azienda pubblica partecipa alla gara e la vince. Non esiste alcun obbligo di vendere il 40%: questa opzione serve solo se si vuole a mantenere l’affidamento esistente senza invocare la deroga, ma ci sono sempre le altre due strade, ugualmente possibili e legittime. Molte aziende si stanno organizzando per ottenere la deroga per il mantenimento dell’in house, e dati i criteri fissati molto generosamente dal DPR 168/2010, con ogni probabilità ci riusciranno.
Chi dunque sostiene che il referendum è "contro la privatizzazione", evidentemente non conosce bene la norma che vorrebbe vedere abrogata. E chi, pur conoscendola molto bene, continua a raccontare favole solo perché – se la verità venisse detta fino in fondo – la gente non andrebbe a votare, fa solo disinformazione. Il decreto Ronchi non obbliga nessuno a privatizzare. Abolirlo, non impedisce a nessuno di privatizzare. Chi non ne fosse ancora convinto, è pregato di informarsi meglio.
Secondo punto. Acqua gestita dal pubblico non vuol dire acqua gratis, perché i costi qualcuno li deve pagare. Che sia la fiscalità o la tariffa, questo qualcuno sono sempre i cittadini. È incredibile come tanta gente sembri non capire una cosa così elementare. L’impatto distributivo di fiscalità e tariffe non è identico, ma non è affatto scontato che la fiscalità sia più progressiva (e quindi più egualitaria) della tariffa. Discutiamo semmai di come costruire le tariffe in modo da evitare impatti sociali troppo gravosi: si può fare, ci sono molti modi per farlo. Ma ai referendari preme invece convincere i cittadini che le tariffe sono elevate per colpa del profitto, e che si possano abolire senza aggravio per la fiscalità. Parlano di "fallimento del full cost recovery": ma che fallimento sarebbe, visto che è praticato in tutto il mondo? E soprattutto dalle gestioni pubbliche che funzionano, dalla Scandinavia alla Germania, dall’Olanda agli Usa? Ma se poi gli si chiede come pensano di coprire quei costi cincischiano: li vogliono in fiscalità generale, ma senza aumentare le tasse.
E, nell’impossibile tentativo di far quadrare il cerchio (diritti per tutti, tariffe basse e niente nuove tasse), sono costretti a inventarsi o improbabili riduzioni di altri capitoli di spesa (i mitici cacciabombardieri, la solita riduzione dell’evasione fiscale); a sostenere cose impossibili, come il fatto che se si fanno investimenti per ridurre le perdite questo farà diminuire i costi, e permetterà di finanziare l’investimento con i risparmi, mentre qualunque tecnico sa che accadrà esattamente il contrario, ossia che per ridurre le perdite i costi devono aumentare; o a prospettare strumenti finanziari – patacca, come i bond irredimibili (un vero e proprio furto ai danni delle generazioni future, cui rimarranno i debiti da pagare ma non le reti, perché un bel giorno dovranno essere rifatte daccapo con tariffe più alte o nuovo debito).
La questione tuttavia è: ammesso che la fiscalità riesca a recuperare qualche margine di manovra, rinunciando al cacciabombardiere o catturando qualche evasore, per cosa è opportuno utilizzare in via prioritaria queste risorse? Per diminuire la pressione fiscale? Per gli ammortizzatori sociali, l’istruzione, il welfare, i beni culturali? Oppure per la bolletta dell’acqua? Perché usare il denaro pubblico per finanziare un obbligo di servizio universale che è già affermato e garantito (visto che l’acqua arriva già in tutte le case), e costa in media solo 90 euro all’anno pro capite (25 centesimi al giorno), ed è dunque già alla portata di (quasi) tutti? I cittadini devono sapere che acqua gratis non significa non pagare dazio, ma significa meno spesa pubblica in qualche altro capitolo. E’ legittimo scegliere più acqua a basso prezzo e meno welfare (noi non siamo d’accordo, ma sono ammesse opinioni diverse). Ma non è legittimo far credere che la scelta sia tra acqua gratis e acqua a pagamento.
Sembra che campagna referendaria stia riportando a galla una cultura tipica degli anni 70 e 80 del secolo scorso: quando tutti invocavano diritti, ma nessuno si preoccupava di come avremmo pagato i costi corrispondenti. Il risultato, allora, fu gran parte del debito pubblico che ancora abbiamo sulle spalle. Ci è servito per molti anni a pagare spesa corrente, dalle pensioni baby, a una sanità il cui costo sistematicamente sfondava i tetti previsti, a un settore pubblico usato come ammortizzatore sociale. Ora, non paghi di aver depredato le generazioni future con la finanza allegra di quel periodo, si imbrogliano le carte in modo da farci credere che questo ennesimo pasto gratis si auto-finanzi. I cittadini sappiano che, invece, i pasti gratis esistono solo nel paese dei balocchi. Su questo non sono ammesse "opinioni", così come non ne sono ammesse sulla legge di gravità. L’aritmetica può essere assai sgradevole, ma non è un’opinione, purtroppo (o per fortuna).
Ci preme peraltro di ricordare che, tuttavia, se il secondo referendum dovesse passare, verrebbe abolito l’inciso "adeguatezza della remunerazione del capitale investito", ma non il principio del "full cost recovery", ribadito nello stesso comma dello stesso articolo, giusto una riga dopo.
La tariffa, con o senza referendum, continua a dover coprire il costo del servizio, ossia il costo della gestione, l’ammortamento e il costo del capitale investito. Se la finanza pubblica vorrà mettere a disposizione circuiti agevolati, o al limite anche a fondo perduto, potrà eventualmente farlo (nessuno glielo impedisce: basta votare una legge finanziaria che lo preveda), ma finché non lo farà, il gestore i soldi li deve chiedere al mercato (ossia alle banche, agli investitori). E quel costo andrà pagato.
Terzo punto. L’acqua costa meno se la gestisce il pubblico? Qui si confonde il costo (ossia gli stipendi, i materiali, gli impianti, l’energia, gli interessi sui debiti) con la tariffa. Se le tariffe non coprono i costi, le aziende falliscono. Se le gestioni sono vincolate a recuperare i costi con le tariffe, una diminuzione di queste può aversi solo se i costi diminuiscono, ossia se la gestione diventa più efficiente (usa meno personale, acquista meno servizi o tecnologie meno costose), oppure se non si fanno gli investimenti. In un settore in cui la concorrenza non c’è e anche le gare funzionano male, la presunzione di superiorità del privato da questo punto di vista è spesso contraddetta dai fatti, ma se è per questo ciò non significa neppure il contrario. Vent’anni di studi empirici concludono sostanzialmente in pareggio, e mostrano che l’efficienza aumenta dove il sistema di regolazione funziona meglio (si può fare, senza dimenticare che anche la regolazione indipendente incontra limiti non è certamente una bacchetta magica). Niente osanna alla mano invisibile, dunque: ma neppure ostracismi a prescindere. Se molti lettori avessero la bontà di non partire in quarta citando esperienze note solo in via aneddotica e si volessero confrontare seriamente con la montagna di studi che la ricerca ha profuso in questi anni, scoprirebbero che le cose non sono così ovvie come la vulgata tende a far credere.
Ribadiamo che la norma (e il referendum) non intervengono su una tabula rasa, e che non è certo questo voto il modo per prendere posizione sulla questione. I piani d’ambito sono già approvati, la dinamica tariffaria già prevista (in base alle norme vigenti, uguali per tutti, che il referendum non abroga), le regole per definire revisioni dei piani sono già stabilite. Un’eventuale gara da lì dovrebbe partire; se l’offerta fosse uguale o peggiore rispetto a quella dell’affidamento già in essere, il comune avrebbe tutte le ragioni per mantenere l’affidamento in essere. Dunque le tariffe non possono aumentare oltre a quanto già previsto, ma semmai diminuire, o aumentare di meno.
Qualcosa potrà cambiare, semmai, se cambierà il metodo tariffario normalizzato, cosa che peraltro anche noi auspichiamo: sarà uno dei principali compiti della nuova agenzia di regolazione, che attendiamo al varco. La tariffa deve incentivare il gestore a ridurre i costi (si può: se ci riescono in altri paesi possiamo riuscirci anche noi), consentendogli di guadagnare il giusto (ossia, il costo del finanziamento sul mercato e il premio per il rischio che si assume investendo). Il rischio è una variabile che dipende dalla regolazione: più il costo va in tariffa "a piè di lista", più limitato è il rischio; più il costo è definito ex ante e tenuto fermo, più elevato è il rischio.
Ce n’è abbastanza, a questo punto per dire a tutti, critici e sostenitori: arrivederci a Trento, o meglio a Rovereto, dove sabato 4 uno di noi due (non vi diciamo chi) si scontrerà sul ring con Ugo Mattei, e voleranno, se questo è il clima, botte da orbi. Speriamo che la prospettiva di veder scorrere il sangue faccia aumentare l’audience!

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P.S. due risposte ad personam:

A Marco Bersani: prima di affermare cosa "sanno tutti gli economisti", abbia la bontà di consultare qualcuno che l’economia la conosca davvero; se gli economisti che affermano le cose che lui sostiene sono per caso gli stessi che gli hanno suggerito i bond irredimibili, ci viene il dubbio che lo abbiano imbrogliato per bene.

A Salvatore Acocella vorremmo solo ricordare che 1) se gli attuali assetti di regolazione sono molto difettosi (per esempio quello del settore autostradale), non significa che non possano essere messi in piedi assetti migliori, che tendano a minimizzare sistematicamente gli extra-profitti; se altri ci riescono, non è vietato che ci riusciamo anche noi. 2) Poste e Ferrovie non sono mai state privatizzate (in Italia): sia Poste che F.S. sono società per azioni, il cui controllo totalitario è pubblico, di preciso del Ministero dell’Economia. Le informazioni a supporto di tanto sarcastico ideologismo dovrebbero almeno essere esatte. 3) com’è che il settore pubblico è corrotto e incapace quando si affida a privati, e invece non lo è quando gestisce in proprio? Non sarà forse che quando gestisce in proprio inefficienze e disservizi passano più facilmente sotto silenzio? Perché se dal rubinetto esce l’arsenico l’Acea va sbattuta in prima pagina mentre la gestione pubblica di Viterbo invece no? Perché si cita Girgenti Acque (Agrigento, peraltro molto più pubblica che privata, visto che il socio "privato" è il gestore pubblico di Catania) come emblema del disservizio, e si tace che quel disservizio esiste da un secolo e nessuno, né il pubblico né il privato, ha saputo finora porvi rimedio?

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25 commenti

  1. Paolo Sinigaglia

    Qui non si focalizza il punto. L’art. 15 del decreto 135/09 “Ronchi” modifica le procedure di affidamento dei servizi pubblici di rilevanza economica previsto dall’art. 23 bis della legge 133/2008. Il vecchio testo già affidava “in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica”, lasciando all’ente locale la scelta sul tipo di società (privata, pubblica, mista) a cui affidare il servizio. Il nuovo testo forza la situazione, prevedendo al comma 2b la possibilità di affidare a società miste solo se al 40% con soci privati. Il comma 8 poi disciplina il regime transitorio: prevede la fine delle gestioni proprie e l’obbligo di affidare il servizio entro tempi stabiliti. Questo obbligo risulta odioso e ha scatenato i referendum: passando da una situazione equilibrata ad uno squilibrio i referendari arrivano a squilibrare dall’altra parte. É invece una buona proposta quella del PD che permette agli enti locali di scegliere il tipo di gestione e mette al centro del sistema un’autorità indipendente, indispensabile per contrastare i conflitti di interesse tra enti locali e società controllate.

    • La redazione

      Ho manifestato più volte le mie critiche al Decreto Ronchi e al 23 bis, anche per ragioni molto simili alle sue. Se si trattasse di votare contro il 23 bis per queste ragioni, probabilmente voterei sì al primo referendum (e no al secondo). Ma oramai il voto ha assunto significati politici che trascendono da questi significati tecnici. Per questo non intendo regalare a nessuno la possibilità di strumentalizzare il mio voto, e non voterò. A.M.

  2. Jacopo Fiori

    Leggendo velocemente alcuni commenti e alcune parti della sentenza della Corte Cost. 25 /2011 mi è parso di capire che se l’esito del referendum sull’art. 23 bis fosse la vittoria del Sì e la conseguente abrogazione dell’articolo stesso, non tornerebbe in vigore la vecchia disciplina ma sarebbe automaticamente applicata la normativa europea che impone la gara per l’affidamento del servizio. In questo caso sarebbe errato dire che il primo quesito verta sull’obbligo di gara. Sapete confermare o smentire quello che dico?

    • La redazione

      Non esiste nessuna norma europea che obbliga a mandare a gara i servizi (lo afferma tra l’altro la stessa CCost). La norma europea e quella italiana precedente che rivivrebbe dicono che la gestione può essere pubblica (in house) o privata (solo in quel caso ci vuole una gara). La vecchia norma era pertanto pienamente in regola con i principi europei vigenti, ed è il Decreto Ronchi ad andare al di là, forzando l’applicazione della gara: scelta legittima (l’UE non lo vieta), ma non necessaria (l’UE non lo obbliga).

  3. Claudio

    Scrivete: "Se le gestioni sono vincolate a recuperare i costi con le tariffe, una diminuzione di queste può aversi solo se i costi diminuiscono, ossia se la gestione diventa più efficiente (usa meno personale, acquista meno servizi o tecnologie meno costose), oppure se non si fanno gli investimenti". Io penso che il privato sia più "libero" di abbassare i costi, tagliando sulla qualità del servizio, anche perchè meno controllato rispetto al pubblico. E poi sulla questione sulle autostrade che fanno mega-profitti voi ne prendete atto e proponete di cambiare le regole: bene, allora prima sistemiamo queste regole e poi vediamo se dare tanto spazio alla gestione privata e non viceversa. Nonostante la qualità delle vostre risposte non siete riusciti a farmi cambiare idea e voterò due bei sì.

    • La redazione

      Perché mai il controllo della qualità dovrebbe essere meno efficace con il privato? In genere succede il contrario: il controllore pubblico tende più facilmente a chiudere un occhio quando le gestioni sono pubbliche, e ad applicare le regole con rigore quando il gestore è un soggetto privato. Questo almeno mostra l’esperienza in tutto il mondo. Anche l’opinione pubblica mostra un atteggiamento molto più tollerante con il pubblico e con il privato, a parità di disservizio. Sul fatto che le regole (tariffarie) vadano fissate prima di fare le gare sono peraltro d’accordo con lei (e se avrà la bontà di rivedere gli articoli che ho pubblicato su LaVoce sull’argomento, vedrà che lo sono sempre stato). Il metodo tariffario attuale è carente in molti punti, e prima di fare qualsiasi gara andrebbe cambiato, in particolare per quelle norme che disciplinano (o meglio, non disciplinano affatto) la revisione dei piani. Solo che una di queste regole è, e per me deve continuare ad essere, quella secondo cui le tariffe devono coprire tutti i costi, anche quelli finanziari (ossia la remunerazione dell’investimento). Altrimenti, gli investimenti non si fanno.

  4. Francesco

    Evidentemente gli sconquassi combinati da tanta gente che straparla senza averne motivo sono più gravi dell’immaginabile. L’illusione di massa ha fatto credere a tanti inconsapevoli cittadini che: 1 – le aziende sono private se si guarda il vestito (forma giuridica di società di capitale) e non chi lo indossa (soggetto economico proprietario); 2 – le colpe della mala-gestione sono, ancora una volta, del vestito e non di chi lo indossa (quasi che il pubblico si trasformi da disonesto a virtuoso se trasforma la sua s.p,a in Ente di diritto pubblico perchè non si fanno profitti! Boh!); 3 – che la rilevanza economica del servizio idrico sia data dalla remunerazione del capitale e non dalla caratteristica del tipo di servizio (industriale) gestito (smentito dalla stessa Corte Cost. Nella Sentenza di ammissibilità del 2° quesito referendario); 4 – che le tariffe aumentino per i profitti e non perchè non ci sia più la fiscalità generale a coprirne i costi; 5 – che le tariffe siano comunque alte (quando sono le più basse d’Europa e questo a discapito degli investimenti) e debbano ridursi.

  5. Armando Pasquali

    Boitani e Massarutto respingono al mittente, cioè a me, l’accusa di perseguire “una voglia di privato” che non sarebbe deducibile da nulla. A me sembra invece il contrario. Le precisazioni di cui al punto 1 per dimostrare che è falso che il referendum sia “contro la privatizzazione” sono certo corrette. Ma ci muoviamo su un piano formale, non sostanziale. Qual era l’obiettivo della legge Galli prima e del decreto Ronchi poi? Mantenere lo status quo, cioè l’acqua gestita dal pubblico, o cambiarlo, ovvero far entrare i privati nella gestione? La risposta è ovvia. Del resto, da una ventina d’anni a questa parte, a livello nazionale, europeo, mondiale (Wto) la legislazione è sempre orientata verso le liberalizzazioni, le privatizzazioni, le deregolamentazioni. Chi lamenta un’impostazione ideologica in questo dibattito ha ragione. Però l’ideologia c’è in entrambi gli schieramenti: sia in chi si oppone alla trasformazione della società in senso neoliberale, sia in chi considera positivamente questo cambiamento. (PS. La finanza degli anni ’70 – fatto il paragone con i vicini europei – non era allegra sul piano delle uscite, ma delle entrate: il diritto all’evasione fiscale nasce allora.)

    • La redazione

      L’obiettivo della legge Galli era la gestione industriale del servizio e la sua autosufficienza economica, non certo la privatizzazione. Tant’è che, nella sua attuazione, hanno prevalso di gran lunga le gestioni pubbliche. Per quanto mi riguarda, ritengo che le gestioni pubbliche, se e quando sono in grado di mettere in piedi una gestione industriale finanziariamente autosufficiente, possano funzionare altrettanto bene. Il suo commento dimostra per l’ennesima volta quanto sia pericoloso e fuorviante sovrapporre la questione "chi gestisce" (il colore del vestito dell’idraulico) con la questione "chi paga". Nel libro che ho appena pubblicato, parlo di "talebani della liberalizzazione" e di "mujaheddin dell’acqua pubblica": opposte ideologie da cui cerco di mantenermi distante. Veda un po’ lei se questo significa "voglia di privato"! A.M.

  6. Marco

    Riga 11: “Qui non si tratta di monarchia o repubblica. Non stiamo parlando di sottigliezze, ma di qualcosa di sostanziale.” Spero che siano due periodi usciti dai tasti e dalle menti degli autori in maniera infelice per errore…

    • La redazione

      Grazie dell’opportunità che ci offre di chiarire meglio il concetto. Qualche lettore argomentava che anche nel referendum "monarchia contro repubblica" c’erano un sacco di sottigliezze (quale repubblica? quale monarchia?), ma la scelta di campo era chiara al di là di quelle sottigliezze, e dunque non stessimo a menarla troppo con i nostri distinguo. In questo caso, invece, secondo noi, è necessario. Non si vota per una cosa contro l’altra, perché non esistono né l’una né l’altra. Molte delle cose che vengono affermate per contrapporre le due "soluzioni" sono falsamente correlate e tendenziosamente accostate (in particolare, il tema delle tariffe, che non dipende affatto dal "privato"). Dunque non è affatto capzioso né pedante andare a scavare negli aspetti tecnici e illustrare nei dettagli le alternative.

  7. ciro amato

    Gli autori dicono: “Con la nuova norma che si vuole abrogare, invece, il comune che desidera mantenere la gestione pubblica può farlo,
    (i) se riesce a dimostrare che la gara è inutile, meritandosi la deroga di cui al comma 3, oppure
    (ii) se l’azienda pubblica partecipa alla gara e la vince.”
    Vorrei essere chiaro come lo sono stati loro. Sono economisti e non credo conoscano a sufficienza la giurisprdenza della corte di giustizia Ue. Il decreto ronchi prevede l’obbligo di affidare il servizio al privato e poi, non se la gara è inutile, ma se il mercato non risponde e con l’istruttoria prevista dal 23 bis si potrà fare l’in house. La corte Ue dice chiaramente che l’in house è una eccezione. La regola europea è il mercato. Non sono uno dei comitati acqua, ma il problema è affermare con il referendum che il problema è proprio questo. La Ue non ci può dire che questo segmento di servizio va a mercato. La questione è politica, cioè di valori, ma voi la buttate sul tecnico economico per smuovere le acque. Quella economica è una razionalità che in queste discussioni non serve se non dopo le scelte di fondo. Quindi …un passo indietro please!

    • La redazione

      La deroga prevista nel comma 4 dell’art.23bis stabilisce che l’ente locale non è obbligato ad effettuare la gara se la gestione in house rientra nella fattispecie prevista (ossia se sussistono particolari condizioni che rendono inefficace il ricorso al mercato, con onere della prova a carico degli enti locali medesimi). In aggiunta, il regolamento attuativo della norma (DPR 168/2010) prevede che nel caso dell’acqua i criteri in questione vengano così tradotti: conti economici in ordine (ossia non in perdita); reinvestimento degli utili (no dividendi distribuiti ai comuni); tariffa inferiore alla media nazionale. Sono criteri del piffero, come ho già argomentato in un altro articolo: ma quelli sono. Chi li rispetta potrà mantenere l’inhouse senza ulteriori problemi. Non è vero che in Europa "la norma è il mercato". La norma europea prevede l’inhouse come soluzione perfettamente legittima, purché la società affidataria non esca poi dalle mura di casa (a questo servono i paletti che la giurisprudenza europea ha costruito per delimitarla). Non è vero neppure che la Corte di giustizia ritiene l’inhouse un’eccezione, e se fosse si tratta di un’eccezione pienamente legittima, in modo particolare se si parla di servizio idrico. Tant’è che la gestione pubblica è la norma in quasi tutti i paesi UE. E poi mi scusi: ma se fosse come dice lei (se ci fosse davvero un obbligo europeo in tal senso) allora la CCost avrebbe dovuto bocciare il referendum!

  8. Paolo

    Erano davverro molti ann che non leggevo un articolo italiano così lungo nel quale fossero esposte tante idee ed opinioni,e in forma così chiara e corretta e sostenuta da argomentazioni concrete. Sono d’accordo con le tesi sostenute, ma anche se non lo fossi sarei contento: forse c’è ancora qualche speranza di uscire dalla medioevale attuale ignoranza della nostra terra.

  9. CIRO AMATO

    Corte Cost n. 325/10: "la normativa comunitaria consente, ma non impone, agli Stati membri di prevedere, in via di eccezione e per alcuni casi determinati, la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale. Lo Stato italiano, facendo uso della sfera di discrezionalità attribuitagli dall’ordinamento comunitario al riguardo, ha effettuato la sua scelta nel senso di vietare di regola la gestione diretta dei SPL ed ha, perciò, emanato una normativa che pone tale divieto. Il testo vigente dell’art. 23-bis è conforme alla normativa comunitaria, nella parte in cui consente l’affidamento diretto della gestione del servizio, "in via ordinaria", ad una società mista. Secondo la normativa comunitaria, le condizioni integranti la gestione in house ed alle quali è subordinata la possibilità del suo affidamento diretto debbono essere interpretate restrittivamente, costituendo l’in house providing un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica". Questa sentenza è troppo chiara ed è quella richiamata nel quesito referendario.

  10. Michele

    Gentili Professori Boitani e Massarutto, ho trovato alcuni paper concernenti lo studio di modelli concorrenziali nei servizi di erogazione e gestione dell’acqua nel Regno Unito. Per quanto vi risulta, esiste sufficiente evidenza empirica in favore del modello concorrenziale? Vi sono increasing returns to scale che supportano il monopolio naturale? Esistono problemi di differenze nei costi connessi a motivi geografici che impediscono il diffondersi della concorrenza anche tra territori confinanti, e.g. Basilicata (regione molto ricca di bacini idrici) vs. Puglia (regione interamente carsica, priva di bacini idrici in superficie)?

  11. Patrizio Biffoni

    Non mi è chiaro un punto. Nella gara che viene indetta per l’affidamento del servizio possono partecipare sia imprese private che possedute dal pubblico? Cioè se nella gara succede che (ad esempio) l’impresa pubblica x riesce a garantire, a parità di investimenti e qualità, tariffe più basse, delle altre imprese private, può vincere il bando? Oppure l’unico modo per mantenere il servizio in house è tramite l’eccezione prevista dalla legge? Grazie per la pazienza.

  12. Franco

    Il 23 bis non "prevede l’obbligo di affidare il servizio al privato" perchè impone, come via ordinaria, la gara a cui però possono partecipare anche le aziende pubbliche e senza nessuna restrizione come per le aziende pubbliche in house affidatarie dirette del servizio (che ha invece ha i limiti descritti benissimo dai due autori). La 325/2010 non fa altro che ricordare che la normativa europea è meno restrittiva di quella italiana perchè considera l’eccezione dell’in-house facilmente utilizzabile (come il Italia prima del 23-bis ecco perchè il 90% degli affidamenti è avvenuto ad aziende pubbliche o miste con maggioranza pubblica) e quindi se passa il SI’ praticamente in Italia non succederà nulla giacchè il 23-bis non è neanche entrato fattivamente in vigore!!

  13. marco ardemagni

    I vostri articoli due articoli sull’acqua sono stati segnalati (anche da me) in un thread su questo tema sul blog noisefromamerika.org dove però qualcuno ha sollevato il punto qui espresso anche da Jacopo Fiori: ovvero siamo sicuri che l’abrogazione dell’articolo 23-bis riporti in vigore la normativa precedente? E’ una perplessità che continuo ad avere anche dopo vostra la risposta al suo commento. In particolare mi sembra che non teniate conto delle seguenti osservazioni espresse in coda al punto 4.2.2 dalla sentenza della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del quesito referendario relativo all’articolo 23-bis della c.d. Legge Ronchi. "All’abrogazione dell’art. 23-bis, da un lato, non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo (…) dall’altro, conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria". Non cioè, parrebbe, di precedenti leggi italiane compatibili con la normativa comunitaria, ma la normativa comunitaria tout court. In particolare le due direttive europee 92/50/CEE e 93/38/CEE che escludono il servizio idrico dagli obblighi di mercato e consentono gli affidamenti "in house". Che ne dite?

  14. Francesco Urticchi

    A me il punto fondamentale pare questo: l’obbligo fisso di remunerazione del 7% del capitale, del tutto slegato da un obbligo di investimento. Chi ci dice che i privati investiranno (seriamente) per riparare i buchi e non si intascheranno semplicemente i profitti?

  15. Adriano S.

    Ringrazio gli autori per essere stati così chiari, ed averci aiutato a capire meglio i quesiti referendari. Mi rimangono due dubbi. Ma come sarà la gara? Chi vincerà l’appalto? Secondo me il modo migliore sarebbe affidarlo a chi propone tariffe più basse per i consumatori. Invece? Ultimo quesito. Ma le tariffe saranno determinate in modo completamente arbitrario? In questo caso avremmo una situazione di monopolio, che non so quanto sia desiderabile. Vi ringrazio di cuore, e spero che potrete aiutarmi a risolvere questi due dubbi, prima del Referendum! Un saluto

  16. marco 86

    Credo siano state fatte tante considerazioni molto giuste e dettagliate ma, vorrei farvi riflettere su un principio, semplice ma di un’importanza fondamentale. Qualunque servizio di primaria necessità per il cittadino deve essere gestito dallo stato! Su questo non c’è nessuna discussione e purtroppo, non sarà nessuno dei due punti del referendum a cambiare le cose! A parità di costi ed efficenza del servizio la gestione pubblica conviene sempre, perchè il privato deve ricavare un utile, mentre lo stato no, deve solo offrire un servizio al cittadino! Questo è il risparmio, il nostro risparmio! Sia che si parli di acqua, (come in questo caso) sia che si parli di corrente elettrica, gas, sanità, ecc. Possiamo poi stare qui a discutere ore, sull’inefficenza di tutto quello che è pubblico, che ci fa apparire il privato come un miraggio. La verità è che la colpa di tutto questo è dovuto al non controllo delle autorità preposte e alla sempre più diffusa mancanza di senso civico e del bene comune di chi opera in malo modo in questi settori….e purtroppo lo paghiamo tutti noi!

  17. FabC

    Concordo quasi integralmente con quanto scritto; una applicazione accorta dell’art. 23-bis e del dpr 168/2010 può costringere al sostanziale abbandono dell’in house (molto più difficilmente in relazione al servizio idrico). Conclusione da me benevenuta, in ragione delle modalità con cui lo sesso è stato finora gestito nella realtà italiana. Quanto all’eccezionalità dell’in house bisogna capirsi: l’in house è un’eccezione rispetto alla disciplina degli appalti pubblici, ma è al contempo un modello organizzativo autonomo e diverso dalla gara. Se correttamente applicato (nel rispetto dei requisiti CE) quello dell’eccezionalità è un falso problema, perchè l’in house sarebbe molto più simile all’autoproduzione che all’affidamento esterno. Per usare le parole del Consigliere Giovagnoli: " l’in house non è un contratto cui eccezionalmente non si applicano le regole dell’evidenza pubblica, ma è un “non contratto”, proprio perché manca una relazione intersoggettiva necessaria per dar vita ad un rapporto contrattuale". Il problema sta nell’uso abnorme che se ne fa; per il che sia benvenuta una normativa rigorosa.

  18. Luigi

    La corte costituzionale ha affermato, nel giudizio sull’ammissibilità del referendum, che "all’abrogazione dell’art. 23-bis, da un lato, non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo (reviviscenza, del resto, costantemente esclusa in simili ipotesi sia dalla giurisprudenza di questa Corte − sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997 –, sia da quella della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato); dall’altro, conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (come si è visto, meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica." Questo lo avete considerato nel pronunciarvi per il no?

  19. Giovanni

    Volevo ringraziarvi perchè il vostro è il miglior articolo che ho trovato in queste settimane sull tema dell’acqua. E vi fa onore che sia su un giornale ad accesso libero come Lavoce.

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