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SONO SOLDI BEN SPESI?

Sono ben spesi i finanziamenti alle imprese per ricerca e sviluppo? I fondi per gli ammortizzatori sociali? Per la sperimentazione didattica? Il libro, di cui pubblichiamo brevi estratti dal primo e quarto capitolo (edito da Marsilio, 184 pagine, 16 euro), illustra le potenzialità della valutazione degli effetti di politiche basata sull’analisi “controfattuale”. Ne presenta gli utilizzi negli Usa, in Germania e Francia. Discute lo stato della valutazione in Italia e della sua arretratezza.

“Sono soldi ben spesi?” è una domanda che è legittimo – diremmo doveroso – porsi rispetto a ogni utilizzo di risorse pubbliche. La domanda assume tuttavia significati differenti a seconda di cosa si intenda per “bene”. Per alcuni osservatori spendere “bene” corrisponde all’idea di spendere correttamente, rispettando le regole e i vincoli imposti dalla legge per l’acquisizione delle risorse (… )e per la distribuzione dei benefici. (…) Per altri “bene” significa senza sprechi: quando la missione è fornire un servizio in via ordinaria contenendone i costi, il criterio di giudizio è l’efficienza. Per altri ancora il criterio di giudizio che prevale è la finalità per la quale si spende: “bene” si riferisce all’esigenza di spendere per una giusta causa; ad esempio, se l’obiettivo che si giudica rilevante è di tipo distributivo, “bene” significa spendere a favore di chi ha più bisogno.
Un’accezione altrettanto importante di “soldi ben spesi” (…) riguarda l’efficacia intesa come capacità di produrre gli effetti desiderati. Un’azione può essere corretta dal punto di vista formale, non comportare sprechi, essere rivolta alle persone giuste; tutti questi aspetti positivi non sono incompatibili con il fatto che tale azione sia inefficace, cioè produca effetti nulli o di segno contrario a quelli desiderati o attesi. (…)

le buone ragioni per misurare gli effetti di politiche

Il nostro scopo è illustrare le motivazioni, le sfide e le potenzialità della misurazione degli effetti di politiche; presentare alcune importanti realizzazioni in altri paesi e lo stato dell’arte in Italia; concludere con alcune raccomandazioni su come diffonderne l’utilizzo, concorrendo così, almeno potenzialmente, a migliorare il processo di disegno e attuazione delle politiche pubbliche.
Misurare gli effetti di una politica significa determinare se sia stata capace di modificare la situazione preesistente nella direzione voluta, allo scopo di decidere se replicarla – eventualmente espanderla – o modificarla o abolirla. Quindi non solo rilevare se un cambiamento si è verificato, ma capire in quale misura è merito dell’intervento. Si tratta di un interrogativo tutt’altro che banale.
La prima sfida per la valutazione degli effetti sta nel fatto che essa deve affrontare uno dei problemi cognitivi più difficili: l’attribuzione causale. Si tratta di ricondurre a una specifica azione pubblica il merito dei miglioramenti osservati – o dei peggioramenti evitati – nel fenomeno che intende modificare. In altri termini, il miglioramento osservato è merito della politica pubblica o si sarebbe verificato comunque? Il peggioramento osservato sarebbe stato più grave in assenza della politica oppure no? (…)
Adottiamo la definizione controfattuale di effetto: l’effetto di un intervento è la differenza tra quanto si osserva in presenza dell’intervento e quanto si sarebbe osservato in sua assenza. È immediato notare che, mentre il primo termine di questo confronto è osservabile, il secondo termine è ipotetico, non osservabile per definizione. Questo risultato ipotetico è definito situazione o risultato controfattuale. L’obiettivo della valutazione degli effetti, e insieme la sfida con la quale essa si confronta, è ricostruire in maniera plausibile che cosa sarebbe accaduto in assenza della politica e determinare l’effetto per differenza rispetto a ciò che è accaduto. (…)
La difficoltà di attribuire un effetto a una specifica causa spiega solo in parte perché la valutazione degli effetti non sia ancora una prassi consolidata, perlomeno nel nostro paese. La ragione preponderante è di ordine culturale, e può essere riassunta sotto la rubrica “presunzione di efficacia”. Con questo termine intendiamo la tendenza a presumere che una certa azione pubblica serva allo scopo purché sia realizzata secondo le intenzioni e le disposizioni di chi l’ha concepita. (…) Nasce da qui il principale ostacolo alla valutazione degli effetti: il fatto che nessuno degli attori rilevanti abbia un incentivo a porre sul tappeto la questione dell’efficacia e ad affrontarla con onestà intellettuale, rigore analitico e il ricorso all’evidenza disponibile. (…)

In italia la valutazione delle politiche non decolla

Veniamo ora all’Italia. Perché in Italia la pratica della valutazione delle politiche non decolla? (…)
Le indicazioni che vengono dalle esperienze soprattutto dell’ultimo decennio – in tema di istruzione, di politiche del lavoro e di welfare, di interventi di incentivazione alle imprese, di politiche di sviluppo e coesione, di iniziative assunte dalle Regioni, di rendicontazione e valutazione dei fondi strutturali della Commissione Europea – sono molteplici e di segno diverso. (…)
Ma, in sostanza, resta flebile l’interesse all’interrogativo “sono soldi ben spesi?” così come l’abbiamo declinato in questo libro, e conseguentemente la capacità di esprimere una domanda di valutazione, tanto più una domanda rilevante per le decisioni e quindi tempestiva.
Questo giudizio può forse sembrare estremo. Esso trova, tuttavia, un riscontro difficilmente contestabile. Abbiamo ripetutamente messo in luce come evidenze pur robuste sulla scarsa efficacia di alcune politiche, o meditate proposte per migliorarle, siano rimaste largamente inascoltate dai decisori e restino ai margini dell’interesse dei media e del dibattito pubblico. L’esperienza italiana mostra che la disponibilità di maggiori informazioni e la discreta crescita di solidi studi valutazione degli effetti di politiche non producono di per sé buone pratiche di valutazione incorporate nel processo decisionale.
Questo stato delle cose ha riflessi negativi sul mercato della valutazione. A ben vedere, anzi, un mercato della valutazione trasparente ed efficiente, cioè con modalità di funzionamento che favoriscano il confronto e portino alla selezione dei migliori (e all’emarginazione degli affabulatori e degli apologeti del committente), è ancora una meta lontana.
Il confronto con le esperienze straniere, anche quelle di paesi a noi vicini per istituzioni e cultura – la Germania e la Francia – comincia a farsi impietoso. Esso segnala un forte ritardo dell’Italia nelle pratiche di disegno, monitoraggio e valutazione degli effetti delle politiche, e ancor più la tendenza del divario è a crescere. Il nostro paese rischia una pericolosa deriva, proprio quando le società europee sono chiamate a sfide severe.
Perché questi ritardi e perché essi si accentuano? … La causa prossima ci pare abbastanza chiara: non si è ancora espressa, non vi è una forte domanda di valutazione da parte delle amministrazioni pubbliche e dei policy maker, né – ed è lo scoglio principale – dei media e di cittadini organizzati. È lo scoglio principale, perché impedisce che gli elementi di novità che pure si manifestano – il vivace interesse dei ricercatori e l’accresciuta attenzione dell’opinione pubblica – trovino modo di esprimersi e di influire sul processo decisionale.
La poca e poco attenta domanda di valutazione rimanda, peraltro, a fattori che affondano le loro radici nel tempo e hanno una lunga persistenza. Gli aspetti – e gli stereotipi – dell’italianità sono stati messi in luce da molti studiosi: storici, politologi, antropologi, sociologi, economisti. Per un altro verso cominciamo a comprendere appieno che paghiamo lo scotto di un basso capitale sociale inteso nel senso di buona cultura – fiducia generalizzata verso gli altri, osservanza generalizzata delle leggi e di norme di buona condotta … – così come delle interazioni fra difetto di buona cultura, istituzioni non ben disegnate e non ben funzionati e carenza di buon governo.
Muovere verso una diffusa, matura pratica di valutazione delle politiche dipende dunque, in larga parte, dalle “condizioni al contorno”. Ma queste condizioni non sono immutabili, non segnano un destino ineluttabile. L’esperienza di altri paesi, e in alcune fasi storiche del nostro, insegna che cambiare è possibile. Le leve principali sono nel miglioramento delle istituzioni – e del loro funzionamento – e nel ruolo di una stampa e di think tank liberi e indipendenti, capaci di mobilitare l’opinione pubblica e di alzare il costo politico del malgoverno. E anche un processo di buone pratiche di valutazione di politiche può aiutare, in piccola parte, l’evoluzione delle “condizioni al contorno”.



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PAREGGIO IN COSTITUZIONE? “VASTE PROGRAMME…”

  1. Roberto

    Offro una controprova dell’insipienza nell’assegnazione di fondi alle imprese. Sul Supplemento Ordinario n. 172 della Gazzetta Ufficiale n. 163 de 15 luglio 2011 sono pubblicati i Decreti di Ammissione ai finanziamenti di 10 progetti sottoposti dalle imprese alla valutazione del Ministero dell’Università e della Ricerca nel 2002. Ripeto, le domande sono state protocollate nel 2002!

  2. Carlo Austria

    A me sembra che la valutazione degli effetti da parte dei policy makers attuali sia molto semplice: ” Se sono stati utili a noi sono soldi ben spesi.” Più articolata è la valutazione degli amministratori comunali, ai quali potrebbe interessare la lettura del libro a puro titolo teorico, visto che soldi non ne avranno.

  3. alessio fionda

    Mi permetto di suggerire agli autori che in Italia l’analisi delle politiche pubbliche non decolla anche per due motivi: il primo è relativo al fatto che l’analisi delle politiche pubbliche non è quasi mai materia di esame nei concorsi pubblici; priviliegiamo ancora troppo la preparazione giuridica, il nostro è un sistema legal-based e non efficiency-based. Il secondo motivo è che manca a livello politico centrale, sia a livello di governo e di ministeri che di parlamento degli uffici di analisi di impatto della legislazione e di analisi delle politiche pubbliche; questo permetterebbe non solo di aumentare la cultura delle politiche pubbliche ma anche di avere leggi migliori.

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