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NUOVO APPRENDISTATO CONTRO LO SPRECO DI CAPITALE UMANO

Cresce in Italia il numero dei giovani che non studiano e non lavorano. Anche per il fallimento della laurea triennale. Una soluzione potrebbe essere la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche: una riforma a costo zero per le casse dello Stato. L’università, insieme a un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea dello studente nelle aule universitarie e in azienda. Controlli reciproci garantirebbero la qualità della formazione.

 

Con Turchia e Messico, l’Italia vanta il primato tra i paesi Ocse nella percentuale di giovani Neet (Neither in Employment, nor in Education or Training), non occupati, né in istruzione formale o formazione. È un fenomeno in aumento: negli ultimi anni abbiamo assistito a un forte incremento della disoccupazione giovanile e, al tempo stesso, ad un preoccupante calo delle immatricolazioni universitarie, diminuite del 10 per cento in tre anni. Una delle ragioni del calo è il fallimento delle lauree triennali. Molti giovani hanno paura a imbarcarsi in un percorso di studi che potrebbe durare fino a dieci anni e provano a entrare immediatamente nel mercato del lavoro pur con basse qualifiche, contratti precari e bassi salari. Al tempo stesso, le imprese hanno ridotto gli investimenti in formazione dei giovani che entrano in azienda.

UNA RIFORMA A COSTO ZERO…

Una riforma a costo zero per le casse dello Stato è quella di introdurre la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche, le cosiddette Fachhochschule. Ciascuna università, anche sede periferica, in accordo con un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea in impresa e in ateneo. Metà dei crediti verrebbe acquisito in aula e metà in azienda. Il lavoratore sarebbe impiegato in azienda e seguito da un tutor. Con controlli reciproci fra università e impresa sulla qualità della formazione conferita al lavoratore che ridurrebbero fortemente il rischio di abuso. Benché retribuito, il lavoratore non avrebbe alcun diritto automatico a entrare in azienda.
Il rapporto tra università e ingresso nel lavoro è oggi affetto da una specie di circolo vizioso. Il sistema universitario è spesso accusato di preparare studenti poco adatti a entrare nel mondo del lavoro. Il mondo delle imprese, a sua volta, è accusato di non valorizzare le competenze apprese in università. Le indagini campionarie rivelano che in Italia il cosiddetto mismatch, la mancata corrispondenza fra le qualifiche acquisite nel corso di studio e quelle richieste dalle imprese, è nettamente più alto che negli altri paesi europei, a eccezione del Portogallo. La presenza di contratti a tempo determinato e l’’alta percentuale dei giovani che entra nel mercato del lavoro con un contratto a progetto rafforza il circolo vizioso perché riduce gli incentivi delle imprese a fornire formazione in azienda ai nuovi arrivati, dato che vengono assunti con contratti a scadenza e dunque non si investe sulla durata del rapporto di lavoro. Bisogna rompere questo circolo vizioso incoraggiando, a costo zero per le casse dello Stato, un ingresso formativo nel mondo del lavoro. Ma prima di illustrare nei dettagli la nostra proposta è utile richiamare cosa è stato fatto a riguardo negli ultimi due anni.

L’’APPRENDISTATO CONFEDERALE DI SACCONI

Nel luglio 2011 il Consiglio dei ministri ha approvato una “riforma dell’apprendistato” presentata come il principale canale di ingresso nel mondo del lavoro dei giovani italiani. L’idea della riforma è quella di demandare alle parti sociali, attraverso la contrattazione collettiva, la definizione di specifiche clausole contrattuali legate alla formazione e all’inserimento contrattuale e presumibilmente anche la gestione dei percorsi formativi. La legge approvata si limita a stabilire la durata dell’apprendistato in tre anni e a individuare quattro tipologie di apprendistato: i) quello per la “qualifica e il diploma professionale” per gli under 25 con la possibilità di acquisire un titolo di studio in ambiente di lavoro; ii) quello “di mestiere” per i giovani tra i 18 e i 29 anni che potranno apprendere un mestiere o una professione in ambiente di lavoro; iii) quello di “alta formazione e ricerca” per conseguire titoli di studio specialistici, universitari e post-universitari e per la formazione di giovani ricercatori per il settore privato; iv) quello per la “riqualificazione di lavoratori in mobilità” espulsi da processi produttivi.
Il problema centrale di ogni contratto di apprendistato è assicurarsi che abbia davvero contenuto formativo. Nella pratica molti contratti di apprendistato vengono utilizzati solo come strumenti per ottenere più flessibilità e minori costi del lavoro. Non è casuale che la quota di assunzioni con i cosiddetti “contratti di formazione e lavoro” sia fortemente diminuita in Italia da quando si è permesso un maggiore ricorso ai contratti a tempo determinato e al parasubordinato.
Il governo affronta il problema chiedendo di fatto ai sindacati di normare e monitorare i contratti di apprendistato. Ma il sindacato in tutti questi anni avrebbe già potuto monitorare la gestione di questi contratti da parte dei datori di lavoro e verificarne il contenuto formativo. Non lo ha fatto probabilmente perché non ha la forza, la presenza in tutte le aziende, per farlo. E forse non è neanche capace di farlo. I sindacati da anni gestiscono corsi di formazione finanziati dal Fondo sociale europeo. E l’’esperienza è tutt’’altro che incoraggiante.

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E GLI ISTITUTI TECNICI SUPERIORI DEL MIUR

Nello scorso maggio il Miur ha introdotto gli Istituti tecnici superiori, un passo utile per avvicinare mondo della formazione e mondo delle imprese. Gli Istituti tecnici superiori rappresentano un corso parallelo a quello universitario e sono fondazioni costruite da scuole, università e imprese. Si tratta indubbiamente di un’iniziativa interessante, ma nella nostra idea si dovrebbe dar vita a veri e propri corsi di laurea. Non servono altre fondazioni. Ne abbiamo fin troppe in Italia. Le università, probabilmente, sono poi restie a creare percorsi paralleli a quelli universitari. I trienni specializzanti devono invece offrire una prospettiva a quelle sedi universitarie che non raggiungono la massa critica che loro permette di attivare corsi di biennio o superiori di qualità.

IL CONTROLLO RECIPROCO FRA AZIENDA E UNIVERSITÀ

La verifica dei contenuti formativi forniti dall’azienda dovrebbe invece venire affidata a chi ha come compito istituzionale proprio la formazione. La riforma del governo dimentica del tutto l’’università. È un errore molto grave. Vediamo come è possibile creare una collaborazione e al tempo stesso un controllo reciproco fra imprese e università nella gestione dell’’apprendistato.
Il sistema universitario italiano ha adottato, ormai da quasi un decennio, il percorso universitario del “tre” più “due”. Secondo l’’idea originale della riforma, la prima laurea triennale generalista dovrebbe essere seguita e conclusa dalla maggior parte di chi si iscrive all’’università, mentre la laurea specialistica dovrebbe essere riservata agli studenti più meritevoli dal punto di vista accademico. La riforma ha riguardato quasi tutte le discipline e tutti i paesi europei, con l’’eccezione della scuola di medicina e della laurea in giurisprudenza, che hanno generalmente mantenuto la durata tradizionale di 6 e 5 anni. Ad ogni modo, la laurea triennale avrebbe dovuto permettere alla maggior parte degli studenti di entrare nel mondo del lavoro. Così non è stato. Quasi tutti gli studenti iscritti alla triennale proseguono con il biennio specialistico e il mondo delle aziende non è riuscito ad accettare l’’idea che la laurea triennale sia sufficiente per entrare nel mondo del lavoro da laureato. È difficile stabilire se la colpa sia del mondo delle imprese o del mondo universitario, ma è evidente che il sistema scuola-lavoro, sulla laurea triennale, non ha funzionato. Occorre quindi un nuova idea di apprendistato.

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IL NUOVO APPRENDISTATO UNIVERSITARIO

L’’idea è semplice. Ciascuna università, insieme a un numero di imprese localizzate sul territorio, dovrebbe istituire un corso di laurea triennale di specializzazione tecnica. Lo studente lavoratore acquisirà metà dei crediti del corso in azienda e metà dei crediti in università. Sia le imprese che le università metteranno a disposizione un tutor che seguirà il ragazzo in università e in azienda. Il ragazzo o la ragazza saranno formalmente impiegati presso l’impresa con un contratto di apprendistato della durata di tre anni, ma l’azienda non avrà alcun obbligo di assumere il giovane con un contratto unico di inserimento alla fine del triennio. Questo tipo di percorso è facilmente realizzabile nelle discipline aziendali, in quelle bancarie e assicurative, nelle discipline contabili, in giurisprudenza e anche nelle amministrazioni pubbliche. E, a seconda della specializzazione del territorio di riferimento, può essere introdotto in imprese chimiche, elettroniche, bio-mediche, nelle scienze medicali, nel design e nella gestione del turismo.
In Italia vi sono circa ottanta atenei, troppi. Molti non sono in grado di fare ricerca. Non hanno la massa critica per farlo. Ma possono garantire un buon livello di didattica. Ciascuno di questi atenei dovrebbe stringere degli accordi con le associazioni di categoria e i sindacati presenti sul territorio. Le imprese che aderiranno all’accordo dovranno soltanto impegnarsi a prendere nella loro forza lavoro un certo numero di apprendisti per anno. Ovviamente le province dell’Italia centrale daranno origine a percorsi di specializzazione tecnica diversi da quelli del Nord Italia e del Meridione. Si potrebbe così instaurare una specie di federalismo universitario basato sul rapporto impresa locale e università locale. Nel Mezzogiorno ci potrebbe essere una specializzazione nell’industria turistica mentre in alcune regioni settentrionali vi sarebbero corsi di apprendistato universitario in meccanica e scienze biomedicali.
Un aspetto importante riguarda il contratto di lavoro del giovane studente. Il contratto di lavoro in apprendistato universitario potrebbe essere simile a un contratto a progetto o a contratto a tempo determinato e non ci sarebbe alcun obbligo dell’’impresa all’’assunzione in via permanente. Tecnicamente è forse solo necessario che il ministero dell’Università e della ricerca autorizzi gli atenei a creare questo tipo di corso di laurea. Spetterebbe poi alle imprese locali e alle università organizzare i corsi.
Si possono anche fare delle stime. I grandissimi atenei potrebbero facilmente organizzare una decina di questi corsi con bacino di circa 800 studenti per ateneo, pari a 80 studenti per anno in ciascun corso di apprendistato. I piccoli atenei difficilmente ne organizzeranno più di due o tre ciascuno. In questo modo si potrebbe arrivare ad avere ogni anno 12-15mila nuovi giovani occupati in contratto di apprendistato. A regime, e calcolando i giovani apprendisti su tre anni, la riforma potrebbe portare i giovani occupati in apprendistato intorno alle 50mila unità, un numero di occupati che avrebbe effetti aggregati sul mercato del lavoro. Inoltre, dopo un triennio tra università e azienda, le prospettive occupazionali di lungo periodo di questi giovani sarebbero certamente migliori di quelle attuali. I giovani, una volta laureati con il contratto di apprendistato potrebbero poi entrare definitivamente nel mercato del lavoro grazie a contratti a tempo indeterminato come il Contratto unico di inserimento.

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18 commenti

  1. SAVINO

    Premetto che la continua formazione fa sempre bene e noi abbiamo fame e sete di sapere, ma oggi un laureato ha soprattutto fame di pane e sete di acqua. Di fronte a casi di laureati in materie scientifiche (quelle giuste), con voti altissimi, con specializzazione, con 2-3 master alle spalle, magari uno di questi all’estero, che hanno ricompreso stage, magari figli di famiglie normali, che ad oggi non lavorano, cosa facciamo, li classifichiamo tra quelli che non studiano più? E come mai tanti figli di papà e tanti raccomandati siedono immeritatamente in certi posti senza neanche sapere cos’è la formazione e cos’è il connubio Università-azienda? Allora il problema è sempre lo stesso, bisogna cogliere il talento laddove c’è, favorendo solo e soltanto il merito e non altri titoli di preferenza. Altre soluzioni non ce ne sono. Occorre maggiore senso di responsabilità da parte di chi seleziona le risorse umane e  ancor prima, di chi catechizza il selezionatore.

  2. Ugo Pellegri

    La sostanza della proposta dei professori Boeri e Garibaldi è stimolante. Mi permetto una critica. Perché vogliamo continuare a parlare di corso di laurea, dopo l’introduzione delle lauree triennali, abbiamo visto assurgere alla dignità accademica una miriade di mestieri importanti e qualificanti che nulla hanno a che fare con tale dignità. Fermo restando che ormai s’impone l’abolizione del titolo accademico, perché, per nobilitare la formazione professionale, dobbiamo darle la veste di una laurea? Siamo proprio sicuri che sia l’Università la sede più idonea? Certo la partecipazione dell’Università è utilissima come quella dell’imprenditoria ma perché la sede più propria non può essere quella della formazione professionale? A mio parere occorre che la finalità prima sia la preparazione di giovani per un mercato attivo del lavoro e non il fare corsi, talvolta, utili ai soli professionisti che organizzano e fanno docenza.

  3. Alessandro Figà Talamanca

    Il dato assoluto sulle immatricolazioni non è significativo, perché varia negli anni il numero dei diciannovenni ed il numero dei diciannovenni maturi. E’ il rapporto tra immatricolati e diciannovenni che può essere un indice dell’attrattività degli studi universitari. In effetti negli ultimi anni (fonte undicesimo rapporto del cnvsu) questo rapporto è calato, sembrerebbe però (non ho ancora dati grezzi) che gran parte del calo sia attribuibile all’esaurirsi del fenomeno delle immatricolazioni tardive. Il rapporto tra immatricolati diciannovenni e diciannovenni dovrebbe essere restato negli ultimi anni quasi costante e molto vicino al 50%. Secondo le tabelle 2.6 e 2.7 del citato rapporto, nell’anno 2001-02 solo il 61,6% degli immatricolati aveva 18 o 19 anni, e il 19,9% degli immatricolati aveva più di 22 anni. Per contro nel 2008-09 la percentuale dei 18-19 enni era salita a 69,7. con solo il 12,9% con più di 22 anni. Comunque un giudizio di fallimento della laurea triennale non può essere basato solo sul calo delle immatricolazioni senza tener conto dell’andamento demografico.

    • La redazione

      Li abbiamo ben guardati i dati cnvsu. non li abbiamo riportati solo per ragioni di brevità. ci dicono che non è un problema demografico: non c’è stata una diminuzione delle coorti in uscita dalla scuola secondaria. Al contrario, nel 2010 ci sono stati 5.000 diplomati in più che nel 2008 ed è non solo il numero assoluto di immatricolazioni, ma anche il rapporto fra immatricolazioni e persone con 19 anni di età ad essere fortemente calato negli ultimi anni, dopo essere cresciuto quasi ininterrottamente nel Dopoguerra ed essere raddoppiato dal 1980 al 2005. Non è neanche colpa delle tasse universitarie. Le entrate contributive per studente sarebbero addirittura diminuite in termini reali negli ultimi anni. E poi c’è un tetto alla tasse di iscrizione che, almeno in linea di principio, non può essere superato neanche da atenei strangolati dai tagli dei trasferimenti statali.

  4. alessio fionda

    Alcune questioni. punto primo: dove sono i dati relativi alla laurea triennale?, l’ISTAT ci dice il contrario ossia che il tasso di occupazione a 5 anni dei laureati triennali è circa pari a quello dei laureati magistrali. punto secondo: il vero dramma sta nei fuori corso e nel fatto che nelle università pubbliche uno studente non lavoratore possa sostare a tempo indeterminato e infatti la percentuale dei laureati italiani che non studiano e non lavorano è la più alta che si registra nella media dei paesi Ocse (9,6%) e supera di molto quella della Francia (6,1%), Regno Unito (6,2%), Germania (8,1%) e perfino Spagna (12,3%); in Italia non studia né lavora il 18,6% dei laureati. (Dati OECD 2009). Punto terzo: agire a livello culturale per ri-valorizzare il lavoro manuale. Pubbliche amministrazioni e associazioni di categoria potrebbero passare dalla frase fatta “i giovani non vogliono fare professioni manuali” alla frase: lavoriamo per fare scegliere loro queste professioni e allo stesso tempo migliorarle e modernizzarle laddove possibile.

  5. Giorgio Stefanoni

    Vorrei segnalare all’attenzione degli autori dell’articolo, che questo genere di programma di studio in Italia esiste già. Infatti, la Libera Università di Bolzano offre dei programmi di alternanza studio-lavoro in Informatica [1) e in Ingegneria Gestionale [2]. Avendo studiato alla LUB ed avendo conosciuto colleghi nel programma studenti in attività, posso dire che esistono delle problematiche. La più rilevante è sicuramente la propensione delle aziende a non fare formazione ed invece usare l’apprendista come braccia da lavoro. Per questo penso sia importante trovare delle formule che costringano l’azienda a professionalizzare lo studente. Giorgio Stefanoni [1] http://www.unibz.it/it/inf/progs/bacsie/educational/default.html [2] http://www.unibz.it/it/sciencetechnology/progs/bachelor/industrial/working/default.html

  6. Francesco Pastore

    La proposta dell’articolo è molto convincente e affronta una serie di limiti del nostro sistema di istruzione, la cui inefficienza e il cui isolamento dal mondo del lavoro sono fra le principali cause dell’alta disoccupazione giovanile. Non bisogna nascondere i limiti culturali delle imprese e delle università e imporre pertanto controlli adeguati, soprattutto all’inizio. Credo sia anche necessario che tutti comprendano l’importanza di un maggior collegamento con il mondo del lavoro. Per il paese si tratta di una novità assoluta e occorre superare le resistenze culturali con la discussione a tutti i livelli. Anche la tv dovrebbe parlare più spesso di questi problemi. Ci vorrà tempo …
    Si può attingere non solo all’esperienza della Germania, ma anche ad esempio alla laurea triennale per infermieri. Alla fine del percorso, i giovani sono subito assorbiti dagli ospedali. Infatti, le domande di iscrizione aumentano di anno in anno, anche se questo percorso non dà accesso alla professione medica. Ciò conferma che le famiglie vorrebbero proprio questo: un’università che trasmetta il know how, anche attraverso la pratica, e permetta ai giovani di trovare subito lavoro. Le unioni industriali dovrebbero indicare imprese guidate da giovani e disposte a seguire le nuove regole.
    Inoltre, la proposta ha il merito far riflettere sulla crescita, che significa anche maggiore occupazione dei gruppi più svantaggiati. Ciò significa anche minor carico fiscale per gli attuali contribuenti.

  7. Andrea

    Ottima proposta ed articolo esauriente, in Piemonte si stanno muovendo in questa direzione per il PhD. Si potrà conseguire il dottorato di ricerca in azienda lavorando con un contratto di apprendistato grazie ad un un accordo tra Regione Piemonte, Politecnico di Torino ed aziende private.

  8. Aldo

    Va tutto bene signori, formazione, diploma, laurea e master…..ma nella mia esperienza lavorativa italiana posso affermare che, del mio modesto diploma tecnico “anni 80” ho usato in azienda circa il 10% delle cose che avevo studiato ed i miei colleghi ingenieri “anni 80” forse il 2%. Allora mi viene da pensare che, se in italia la mia storia aziendale fosse estendibile anche a molte altre persone, il problema non sta nella formazione, di qualsiasi livello essa sia, ma nella capacita’ degli imprenditori/aziende di servirsene al meglio, facendo crescere prima loro stessi/e e poi anche questo nostro strano paese. Infine, un pensiero di dispiacere a quelli che restano esclusi dalla formazione che avrebbero sperato ed un plauso a quegli insegnanti che continuano a formare i nostri ragazzi in mezzo a mille difficoltà quotidiane.

  9. tommaso

    Formare un capitale umano cosi specifico giá in una fase preliminare della formazione potrebbe anche risolvere un problema di breve periodo ma, nel lungo periodo, potrebbe creare una generazione di persone poco flessibili rispetto a cambiamenti del mercato. potrei essere invece piú d’accordo se la fusione azienda-universitá avvenisse a livelli di laurea specialistica o/e master.

  10. foran

    La Laurea Triennale è stata un trucco miserevole per impoverire la preparazione Universitaria e favorire lo sfruttamento dei giovani nell’inserimento nel mondo del lavoro:posso vantarmi di essere uno tra i non molti ad essermene accorto subito non appena tutto ebbe inizio. La verità è che in Italia la Laurea (mi riferisco soprattutto all’ambito scientifico-ingegneristico) non serve più a nulla, tanto sta cadendo in basso il livello tecnico del nostro paese. Parola di un Ingegnere Elettronico di 28 anni che, dopo 3 anni di esperienza a tempo indeterminato, si è visto offrire da una grande azienda italiana a Roma (circa 80.000 dipendenti) un contratto di apprendistato mentre, pochi mesi dopo, è felicemente scappato in Germania per lavorare presso un’altra big (circa 100.000 dipendenti) con contratto a tempo indeterminato e con stipendio circa il doppio di quello che prendeva nel lavoro precedente e circa il triplo di quello che avrebbe preso se avesse accettato il suddetto apprendistato. Il tutto senza sapere una parola di tedesco, ma potendo usufruire di corsi di tedesco pagati in toto dall’azienda tedesca stessa (per altro, Molto tedesca). Addio Italia, paese finito.

  11. Marco Felicetti

    Vi seguo sempre con interesse ed anche questo articolo è ricco di spunti e riflessioni. Mi sembra necessario, però, comprendere perché avvenga “un preoccupante calo delle immatricolazioni universitarie”. A mio avviso, per proporre soluzioni efficaci, occorre indagare maggiormente le cause di questo calo. 1 – Clientelarismo: è più importante conoscere che sapere. I giovani percepiscono la mancanza di meritocrazia e questo porta sfiducia sulla possibilità di migliorare la propria posizione. 2 – Bassi salari: perché faticare se non porta risultati? I salari di ingresso (che rimangono tali per molto tempo) sono troppo bassi e livellati (nel mio campo,l’informatica: l’ingegnere informatico neoassunto guadagna quanto il magazziniere del supermercato.Dopo alcuni anni guadagna circa 8 euro netti l’ora, cioè quanto una colf: perché studiare?) 3 – E finalmente siamo alla causa da voi indicata, corsi o programmi universitari errati e scollati dall’ambiente di lavoro. Credo che sarebbe utile risolvere anche i primi due problemi e non solo il terzo.Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate. Grazie e buon lavoro!

  12. doris carlet

    Ho letto con interesse l’articolo e trovo convincente l’ipotesi di riforma dell’apprendistato che viene presentata. Come altri commentatori, trovo anch’io però che il vero limite sta nell’approccio che gli imprenditori hanno con i laureati. Purtroppo, sono pochi gli imprenditori illuminati che sanno valorizzare e utilizzare le intelligenze dei propri collaboratori in funzione di un arricchimento aziendale. In genere e soprattutto dall’introduzione del lavoro ‘intermittente’ in poi, il fattore umano,non è più considerato strategico (uno vale l’altro) e, di conseguenza, non vale la pena investirci su. E non è del tutto vera l’affermazione che l’università non prepara per il mondo del lavoro: i nostri laureati che migrano all’estero trovano immediatamente lavoro e, se dopo due o tre anni si ripropongono in Italia, non trovano lavoro perchè sono troppo qualificati…. Evidentemente, il problema è nel sistema.

  13. Carlo Alabiso, Dipartimento di Fisica, Università di Parma

    1) Il numero dei laureati di primo livello è pari circa al 55% della media OCSE, a fronte di un numero di iscritti quasi in linea con gli altri paesi, Come nel secolo scorso. Eppure il DDR 509/99 era stato approvato solo 6 mesi dopo gli impegni europei di Bologna99, proprio allo scopo di ribilanciare quel dato macroeconomico, dovuto essenzialmente al fatto che il nostro primo livello, il Diploma, parallelo alla Laurea come la Fachhochschule. assorbiva solo il 10% di studenti.
    2) La totale elusione dei Crediti ha di fatto perpetuato la struttura del Corso di Laurea a curriculum rigido, con un triennio propedeutico alla sola Laurea Magistrale, cioè la vecchia laurea unitaria. Da cui il numero immutato dei laureati. Non servono nuove lauree monotematiche, ma un Bachelor con grande possibilità di scelta da parte degli studenti. Tra l’altro, i curricula rigidi favoriscono i mega Atenei, quelli da 60.000 studenti in su, vere anomalie nell’area OCSE, dove i più grandi ne hanno la metà.

  14. Paolo Credi

    Il 1 giugno è stato sottoscritto, da Confapi pmi Modena e Cisl e Uil di Modena, l’Accordo provinciale “Implementazione di un percorso di Alta Formazione in Apprendistato per il conseguimento della Laurea Magistrale in Ingegneria presso l’Università di Modena e Reggio Emilia”. L’accordo, primo in Italia posto in questi termini, darà la possibilità agli studenti che hanno conseguito la laurea triennale in ingegneria, di iscriversi al corso di laurea specialistica con l’opzione di seguire il percorso di studio di apprendistato in alta formazione. In questo caso la durata del corso di laurea passerà da due a quattro anni e la regolare frequenza a lezioni ed esami sarà affiancata dall’assunzione con contratto part-time, pari a venti ore settimanali, di apprendistato nelle imprese aderenti a Confapi pmi di Modena. Gli studenti saranno seguiti da un tutor aziendale e da un tutor universitario con i quali costruiranno un percorso finalizzato al raggiungimento della laurea magistrale.

  15. bob

    “… il fallimento della laurea triennale.” Mio nipote dopo il liceo ha fatto una laurea triennale in informatica. Lavora! Ha scelto in questi giorni da 3 proposte di lavoro ( Roma – Milano) e per migliorarsi sta facendo un master. Una cosa sola deve finire in questo Paese è finirà: la burocrazia! Finirà perchè non ci saranno più risorse è perchè proprio oggi il mio cliente francese di Lille ha assunto il 15° impiegato ( 1200 euro di stipendio + 300 euro di contribuzione).

  16. rosario nicoletti

    L’articolo ripropone, in alternativa allo sciagurato 3+2, i “diplomi” universitari di buona memoria, scomparsi poi nel nulla. Per quel che ne so – siamo verso la metà degli anni ’80 – alcune università tentarono di dare vita a corsi di diploma con la collaborazione di organizzazioni industriali presenti nel territorio. Si trattava di diplomi “in parallelo” e non “in serie” come l’attuale corso “3”. Forse a causa di questa caratteristica (politicamente scorretta), nessuno si è in seguito interessato a questi “diplomi”. Mi sembra che la proposta contenuta nell’articolo non sia lontana da quanto allora si cercò di fare.

  17. Utopia

    Si parla solo di master,università,ecc.senza soffermarsi al lavoro vero e proprio che dovrebbe essere per tutti e con tutte le risorse disponibili anche con meno ore. Il problema italiano è in primis la raccomandazione,presente soprattutto nel lavoro pubblico perchè statale dunque a vita.Inutile continuare a scrivere sciocchezze,in italia serve solo la raccomandazione.E poi sarebbe l’ora di finirla di parlare solo dei “giovani”: ci sono persone di tutte le età che hanno bisogno,questa dei giovani è solo una scusa perchè il lavoro in Italia è sempre stato un problema e questo lo dimostrano i giornali di qualche decennio fa.

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