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POCHI RISPARMI DALLA DIFESA

Nel dibattito sulla manovra Monti non sono mancate le voci che hanno chiesto di compensare una spesa sociale inalterata con riduzioni per quella militare. Che però è pari a circa lo 0,50 per cento del Pil, se depurata di stipendi e pensioni. Eventuali tagli ai programmi d’armamento produrrebbero risparmi limitati. Anzi potrebbero avere forti conseguenze negative, considerato il ruolo dell’industria italiana in questo settore. Perché il nostro export militare significa comunque posti di lavoro, imposte e nuovi investimenti in ricerca.

Nella discussione seguita alla presentazione della manovra finanziaria del governo Monti, da più parti si è chiesta una riduzione della nostra spesa militare così da non dover intaccare eccessivamente la spesa sociale. (1) Non solo una misura simile sarebbe insufficiente, ma potrebbe avere effetti controproducenti che pochi computano nel calcolo. (2)

QUANTO E COME SPENDIAMO?

Partiamo dai dati. La nostra spesa militare è poco inferiore alla media europea, ma è nettamente inferiore a quella dei nostri alleati di riferimento: l’1,2 per cento contro l’1,3 per cento della Germania (e della media UE), l’1,7 per cento della Francia e il 2,7 per cento del Regno Unito. (3)
Il dato più interessante riguarda però l’allocazione delle risorse all’interno del ministero della Difesa.
La Difesa ha quattro voci di spesa principali: esercizio, personale, missioni e investimenti. Il personale assorbe tra il 65 e il 75 per cento del bilancio totale. (4) Depurata dalla componente “personale”, la spesa militare italiana è quindi pari a circa lo 0,50 per cento del Pil. (5) La domanda è quindi d’obbligo: qualcuno pensa davvero di ripagare il debito pubblico (120 per cento del Pil) con queste risorse?

TAGLIARE NON SAREBBE COMUNQUE POSSIBILE?

Delle tre voci di spesa restanti, due possono difficilmente essere toccate: costi di esercizio (addestramento, eccetera) e missioni internazionali. Perché una volta invocato, il multilateralismo va anche pagato (missioni Onu, EU e Nato). Inoltre, insieme queste voci non arrivano ai 3 miliardi di euro.
L’ultima voce (investimenti) riguarda la costruzione dei famosi caccia-bombardieri, i sottomarini, le fregate, eccetera. (6) È qui che si levano le richieste di tagli. In primo luogo, i programmi militari sono pluriennali, durano circa 40 anni. Una fregata, per esempio, richiede dieci anni per la fase di progettazione, ricerca e sviluppo e due o tre anni per la produzione e sarà poi in servizio per 25 o 30 anni. Il costo totale va quindi spalmato su tutti questi esercizi. Pertanto, anche un programma costoso come l’F-35/Lightning II Joint Strike Fighter (13 miliardi di euro totali) contribuisce a regime per (soli) 325 milioni di euro annui (non attualizzati) se spalmato su tutta la sua durata (quaranta anni).
C’è un secondo elemento. I costi più importanti di un programma vengono sostenuti nella fase iniziale (ricerca, sviluppo e test). Tranne Forza NEC, l’Italia non ha programmi recenti. Quindi i costi iniziali sono già stati pagati. Di conseguenza, i risparmi possibili sono ancora più limitati. Assumiamo di cancellare oggi l’intero programma F-35. Assumiamo anche di poter recuperare il 70 per cento del costo totale (previsione molto generosa). Significa, a regime, risparmi annui per 227 (325*0.7) milioni di euro (non attualizzati) fino al 2035. Non è tutto. Per via delle sue economie di scala e delle sue ripide curve di apprendimento, il mercato degli armamenti è un oligopolio internazionale. Essere tra gli oligopolisti significa avere accesso a extra-profitti dall’estero. Può sorprendere, ma l’Italia è nel club degli oligopolisti. (7) Il suo export militare significa posti di lavoro, imposte e nuovi investimenti in ricerca in Italia.
Poiché con gli acquisti nazionali contribuiamo a finanziare la ricerca, le economie di scala e l’apprendimento tecnologico e industriale, se tagliamo i nostri programmi rischiamo di compromettere la nostra posizione internazionale, con conseguenze nefaste su export e quindi Pil, occupazione e imposte (future). Per fare un esempio, nel 2009 l’export militare italiano ha sfiorato i 5 miliardi di euro. Oppure, si pensi di nuovo all’F-35. L’Italia spenderà 13 miliardi di euro per 131 velivoli. Questa è solo una parte della storia. Facendo parte del consorzio produttore, cosa resa possibile dalle nostre competenze industriali, l’Italia parteciperà alla produzione di un programma del valore di 300 miliardi di dollari, per circa tremila aerei. (8)
Non sto dicendo che questa è la migliore allocazione possibile delle nostre risorse. Ma i calcoli vanno fatti fino in fondo. Se tagliamo l’F-35, quanto export presente e futuro perdiamo? E con quali conseguenze sul Pil e sulle entrate fiscali?

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SOLO RISPARMI LIMITATI

In conclusione, uno scambio di tagli tra spesa sociale e militare non è in grado di produrre i risparmi necessari. Ciò è dovuto al fatto che la nostra spesa militare è troppo esigua ed è sbilanciata su pensioni e stipendi.
Allo stesso modo, degli eventuali tagli ai programmi d’armamento produrrebbero risparmi limitati che, dall’altra parte, potrebbero avere delle forti conseguenze negative a livello di reddito nazionale (riduzione dell’export) che a loro volta contribuirebbero a peggiorare, anziché migliorare, la situazione economica del nostro paese e del suo bilancio pubblico.
Ci vorrebbe un’analisi più approfondita per discutere la questione nel suo complesso. Il fatto che l’industria della difesa possa giocare un ruolo positivo a livello economico e industriale non significa infatti che questa vada sostenuta incondizionatamente, o che tutti i programmi d’arma vadano accettati, o ancora che non ci siano casi nei quali la spesa militare finisca nell’assistenzialismo. (9) Allo stesso modo, da decenni gli economisti discutono se la spesa militare abbia effetti moltiplicativi sul reddito o meno. Purtroppo per ragioni di spazio non posso approfondire questi aspetti. Per il momento, eliminiamo le illusioni. Se possibile, è giusto che la Difesa contribuisca al risanamento del paese. Ma il suo contributo non può che essere minimo, quanto il suo bilancio.

(1) Si veda “Più tagli alla difesa meno al welfare: Sinistra e Idv all’attacco della manovra”, La Repubblica online, 6 dicembre 2011; Alessandro Giglioli, “Un’altra manovra è possible,” Piovono Rane, 7 dicembre 2011.
(2) Per ragioni di spazio, non discuto la ratio della spesa militare. Se assumiamo che il futuro sarà pacifico, allora è ovvia l’inutilità di questa spesa. Storicamente, però, tutte le aspettative di pace sono state disattese.
(3) Dati dell’Iiss. Si noti che l’elevata spesa della Gran Bretagna è dovuta alla forte contrazione del Pil che il Paese ha registrato negli ultimi anni. Nell’ultimo decennio, la spesa in difesa del Paese si è sempre assestata intorno al 2 per cento. La media europea è all’1,3 per cento. L’indicatore non è molto utile perché i Paesi più piccoli, non avendo adeguate economie di scala, tendono generalmente a spendere meno degli altri.
(4) L’incertezza è dovuta al fatto che non tutto ciò che rientra nel bilancio della Difesa è Difesa (Carabinieri in funzione di sicurezza interna) e non tutto ciò che non vi rientra non è Difesa (finanziamento armamenti tramite il ministero per lo Sviluppo Economico). Si veda Iiss, The Military Balance (London: IISS, 2011): 119; Alessandro Marrone, Economia e Industria della Difesa: Tabelle e Grafici (Roma: Iai, aprile 2011); Joachim Hofbauer et al., European Defense Trande: Budgets, Regulatory Frameworks and the Industrial Base. An Annotated Brief (Washington, DC: CSIS, May 2010): 4.
(5) Per arrivare a questo dato ho adottato la stima più conservatrice delle due per quanto riguarda la spesa per il personale (65 per cento), e ho assunto che l’Italia spenda circa l’’1,45 per cento del Pil in difesa (valore dato dalla media tra i due valori estremi: 1 e 1,9 per cento). La spesa per il personale del ministero della Difesa rappresenta quindi circa lo 0,94 per cento del Pil (65 per cento*1,45 per cento). Sottraendo questo dato alla spesa militare sul Pil si ottiene 0,51 per cento.
(6) Marrone, op. cit., p. 19. La spesa in questo comparto ammonta a poco più di 5,1 miliardi di euro.
(7) Finmeccanica è attualmente l’ottava più grande azienda al mondo nel comparto difesa. Si veda, “Top 100 for 2010”, Defense News.
(8) Michele Nones, Giovanni Gasparini, Alessandro Marrone, “L’F-35 Joint Fight Striker e l’EuropaQuaderni IAI, No. 31 (Autunno 2008).
(9) Su questi argomenti si possono vedere Eugene Gholz, “Eisenhower versus the Spin-off Story: Did the Rise of the Military-Industrial Complex Hurt or Help America’s Commercial Aircraft Industry,” Enterprise and Society, Vol. 12, No. 1 (2011): 46-95. Ivan Eland, “Reforming a Defense Industry Rife with Socialism, Industrial Policy, and Excessive Regulation,” Policy Analysis N. 421 (December 2001).  Eugene Gholz and Harvey Sapolsky, “Restructuring the US Defense Industry,” International Security, Vol. 24, No. 3 (Winter 1999/2000): 5-51.

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21 commenti

  1. simone gabbi

    le considerazioni svolte nell’articolo sono parzialmente condivisibili, dato che le decisioni andrebbero prese caso per caso con riferimento a ciascun programma. Ad esempio, l’acquisto dei JSF da assemblare a cameri è una decisione che andrebbe annullata o rivista. Le motivazioni sono le seguenti: costo sproporzionato, pochi posti di lavoro garantiti veramente dal programma (le dichiarazioni ufficiali contano anche quelli che nn dipendono interamente dal programma jsf) e un aereo che è pensato per svolgere esclusivamente operazioni di attacco al suolo in un contesto di guerra ad elevata intenistà contro una difesa aerea di un livello che oggi esiste solamente in Cina e Russia, aree certamente di alcun interesse militare per l’Italia. Gli stessi soldi potrebbero essere più proficuamente investiti garantendo posti di lavoro con la costruzione di un appropriato numero di strumenti navali quali fregate e corvette, elicotteri e mezzi blindati in numero sufficiente. questi sono gli strumenti che servono davvero alle forze armate italiane e che riuscirebbero a garantire un impatto occupazionale maggiore rispetto a una linea di assemblaggio. e così via…

  2. carlo

    Premesso che l’industria della difesa non credo sia una priorità intoccabile, tagli andrebbero selvaggiamente fatti sui costi del personale (ricordate la notizia recente del costo stratosferico dei servizi di pulizia di una palazzina di appartamenti dell’aeronautica), che credo sia di 190.000 (!) persone. Tagli che chiaramente dovrebbero riguardare le spese di rappresentanza assurde: basta guardare i circoli ufficiali e gli interi palazzi di altissimo pregio utilizzati (sottoutilizzati) in centro città. Idem per il resto della Pubblica Amministrazione. Come si dice in America: “Affamare la bestia” (che peraltro è improduttiva se non la causa della scarsa produttività italiana).

  3. vittorio

    E se decidessimo di riconvertire l’industria militare? Se decidessimo di assumere solo posizioni di servizio e non militare in seno alla Nato? Insomma, c’é ancora un’opzione di pace, vera, totale, disarmata? Non è ideologia. Che senso ha costruire deterrenze – sapendo di non volere né potere scendere in guerra! Grazie

  4. amelia beltramini

    Vi leggo da molto tempo e con enorme piacere. Vi trovo puntuali, mi date informazioni che non trovo altrove. Un solo appunto in tanta perfezione: non ci sono indicazioni su eventuali conflitti di interesse. Un esempio è l’articolo di Andrea Grilli “Pochi risparmi dalla difesa”. Finita la lettura mi sono chiesta se Grilli riceve finanziamenti (anche solo per ricerca, come borse di studio o altro) da aziende del settore. Eccetera. In Italia il problema dei conflitti di interesse non viene mai trattato, e mi piacerebbe se la Voce fosse la prima a compilare per i suoi contributors una disclosure, il più completa possibile. Qui c’è una bozza in ambito medico… https://www.iqwig.de/conflicts-of-interest.924.en.html?random=76e13c The following must be disclosed: paid employment, consultancy activities, payments received, financial support received for research activities and patent applications, other financial or cash-value payments, and the possession of shares, share options or other company shares. Cordiali saluti Amelia Beltramini

  5. Paolo Prieri

    Si vis pacem, para pacem! Ovviamente se vogliamo fare parte dei “duri”, credo che il programma F35, navi e sottomarini sia ridicolo. E poi piantiamola di dire posti di lavoro! Qualunque attività dà lavoro, è un argomento che non regge: allora facciamo una vera guerra all’americana. Ma visto che la spesa militare serve in gran parte a mantenere la casta militare (la quale lucra, come è noto, altre entrate materiali e immateriali oltre agli stipendi e le pensioni, facciamome a meno.Per iniziare, cominciamo a tagliare del 50% attraverso: – azzeramento dei programmi faraonici di cacciabombardieri atomici, fregate e sotomarini, – il pre-pensionamento ufficiali e sotto ufffciali e non solo operai e impiegati – la mobilità degli stessi in altre attività civili – basta con la naia week end – basta con le finte missioni di pace per vivere il deserto dei tartari, – basta con il meteo militare, – basta con gli aerei di stato, – basta con …. gli esperti aggiungano a piacere. Si faccia invece più diplomazia per la ricerca della pace, più ricerca tecnologica con gli aerei civili, ecc. Il risparmio, per quanto piccolo, sarà sempre utile I militari, altro che lobby dei tassisti ….

  6. coceani

    Non sono problemi di quantitá come non lo sono per il costo dei parlamentari, è un problema di equitá. Se lo dobbiamo fare tutti lo facciano anche loro!

  7. Carlo Buralli

    Non intendo difendere il programma F35. Ma se si devono fare i conti fino in fondo occorre considerare, oltre alle argomentazioni svolte dall’articolo di Andrea Galli, che un simile programma implica la presenza di molte aziende italiane in settori che costituiscono la frontiera più vanzata della tecnologia, con lo sviluppo di competenze da impiegare poi in una infinità di prodotti innovativi e ad alto valore aggiunto: quelli che servono per consentire al sistema produttivo italiano di accrescere la produttività, di sottrarsi alla concorrenza dei Paesi a basso costo, e in definitiva di remunerare il lavoro più similmente alla Gwermania che alla Cina.

  8. federico

    Chissá perché dove c’è una casta c’è sempre qualche studioso pronto a difenderla. L’Italia ripudia la guerra mettetevelo in testa. E riguardo ai posti di lavoro che verrebbero persi..con i soldi risparmiati impostiamo un massiccio programma di raccolta differenziata porta a parta e vedrete quanti nuovi posti di lavoro verrebbero creati..ma voi preferite caccia bombardieri e inceneritori da lasciare in dote ai vostri figli vero?

  9. Piero Mennò

    I tagli alla difesa sono un passaggio indispensabile per rendere più equa la manovra; soprattutto non si confonda la spesa corrente (quella in cui si collocano gli stipendi) e quella per gli investimenti in conto capitale (laddove sono collocate le spese per gli F35). In primo luogo, diversamente dai dati di Gilli, mi risulta che il bilancio della Difesa è rimasto uno dei pochi settori che ha mantenuto inalterata la propria quota di spesa pubblica sul totale del bilancio, rimanendo in 20 anni tra il 7,1% ed il 6,9% del totale della spesa statale (quando ad esempio Scuola ed Università sono scesi nello stesso periodo dal 25,7% al 20,0%): è ora che faccia i conti con la realtà della crisi. In secondo luogo NON acquistare noi gli F35 non significa smettere di produrli: implica venderli ad altri; tra l’altro avere delle partecipate pubbliche che vendono allo Stato crea dei corto circuiti di corruttela di cui lo scandalo Finmeccanica è testimone. In terzo luogo è errato il calcolo dello “spalmare” la spesa in 40 anni: il massimo consentito dalla norma è 10 anni, per cui l’importo è pari a 1,3 Miliardi di Euro all’anno! Ovvero grosso modo di più dell’operazione odiosa sulle pensioni!

  10. marco

    L’articolo è in parte condivisibile, ma dalla logica non del tutto convincente; non si tratterebbe infatti di far sparire i 13 miliardi di questi maledetti aerei militari nel buco nero del risanamento del debito pubblico – si potrebbe ad esempio investire questa somma in un progetto di mobilità sostenibile da appaltare alle stesse aziende riconvertendo in parte le stesse? Forse al posto di costruire caccia e gingilli da distruzione si potrebbero costruire metropolitane leggere , treni pendolari di nuova concezione, ricerca di nuove soluzione ecc. ecc. in modo da far risparmiare un po’ di soldi spesi in benzina alle famiglie e diminuire l’inquinamento, vera minaccia per la vita del cittadino? O fare un piano energetico nazionale con la costruzione di centrali elettriche rinnovabili da maree, vento con nuove tecnologie, geotermico pulito ecc.!

  11. Mauro Formaggio

    Apprezzo la chiarezza dell’articolo, ma non condivido alcuni assunti e alcune conclusioni. Sul multilateralismo: non è detto che per noi debba consistere nell’accettare supinamente le scelte altrui. Inoltre la presenza a tutti i costi, nella speranza di un seggio al Consiglio di Sicurezza, ormai non sembra avere più prospettive. Perché non facciamo valere anche in ambito Nato l’interpretazione ristretta della nostra Costituzione? L’Italia ripudia la guerra. E le decisioni Nato, che io sappia, vanno prese all’unanimità. F-35: a dare retta all’Economist, è un cacciabombardiere con caratteristiche da attacco. E con pilota a bordo. Perché non puntiamo le risorse di ricerca militare, per esempio, potenziando lo sviluppo dei droni? O dei satelliti? Entità: anche “solamente” 1 miliardo di euro all’anno di questi tempi non sono da disprezzare, e paiono risparmiabili con il dimezzamento dei nostri contingenti all’estero. Oppure con il rischieramento in posizioni meno dispendiose, per risorse e per vite umane. Insomma, se tagliamo le pensioni, cerchiamo di sacrificare qualche sogno di grandeur, o di filantropismo armato. E superiamo gli equilibrismi semantici su “guerra” e “pace”. Cordialmente

  12. Fabrizio

    Seguo il sito da un pò di tempo e trovo interessanti i contributi vari che vengono pubblicati, anche articoli come questo anche se non condivisibile nella struttura del suo ragionamento. Mi auguro che Gilli voglia tornare sull’argomento esplorando altri aspetti qui non affrontati. Sul punto vorrei dire che non colgo in nessun modo la logica che sottende a questo intervento laddove si confonde il piano della spesa corrente (stipendi e costi di esercizio) con quella per investimenti (F35). Si parla tanto di crescita, la spesa per la dotazione dei caccia potrebbe essere destinata a settori critici come le fonti alternative (fotovoltaico, solare, eolico) che hanno dato segno in questi anni di volano per l’occupazione.

  13. AM

    L’Italia deve convincersi di non essere una grande potenza e neppure di poter competere con i nostri partner europei (Francia, Germania e UK). Di conseguenza dobbiamo collocarci in una posizione leggermente superiore a quella di Polonia e Spagna. Questo implica una riduzione dei contingenti militari all’estero indipendentemente dalla misura del risparmio. Oltre tutto anche le vite umane hanno un valore.

  14. Emilio Rossi

    Dal testo dell’articolo si evince che la spesa per stipendi e pensioni del settore difesa costano allo stato lo 0.7% del PIL. Evidentemente all’anno. Non sono un esperto della materia, ma immagino ci sarebbe spazio per intervenire anche li’. Una riduzione del 20% di tali spese equivarrebbe a un risparmio annuo di 0.14% del PIL, ossia oltre 2 miliardi. In tempi in cui si raschia il fondo del barile, mi sembra varrebbe la pena di incaricare un “tecnico” indipendente di guardare meglio a questa possibilita’.

  15. Alberto Filippi

    Se noi chiamiamo economia ciò che è diseconomia, riforme quelle che sono controriforme,  l’articolo di Gilli sta in piedi. Ma se si parte dalla scomoda realtà: scarsità di risorse, dovrebbe essere comprensibile che la produzione di armi distruttive di vite umane, così come la mafia o altre attività criminali non possono essere giustificate perchè creano posti di lavoro (meglio pagare la gente per non far niente). Un organismo non può crescere all’infinito, ma gli economisti non ci arrivano. Al Sig. Gilli consiglio due letture: Bioeconomia di G. Roegen e l’ultimo bellissimo libro di Ugo Mattei sui beni comuni, forse scoprirà la vera economia e abbandonerà la diseconomia.

  16. antonio p.

    Interessantissimo il contributo di Grilli, però una revisione di stipendi e pensioni per il personale militare (soprattutto per la “casta” militare” dovrebbe rientrare in una manovra finanziaria “equa”). Soprattutto si dovrebbe trovare il modo di riconvertire al meglio tale forza lavoro per fini civili. Abbiamo bisogno di ripensare al modello odierno di difesa, e di integrarla meglio con le necessità e le priorità del nostro paese e soprattutto dei nostri cittadini.

  17. Pierluca Meregalli

    L’unica vera possibilità di risparmio sarebbe mettere in comune la difesa a livello U.E.Siccome è una cosa di buon senso,non la si farà. Poi vuoi mettere d’accordo francesi, inglesi e tedeschi?(senza contare gli altri).

  18. Domenico Vernarelli

    Ho letto con interesse l’articolo del sig. Grilli e il dibattito che ne è seguito. Sarà pur vero, non ho elementi per confutare i dati dell’articolo, che i risparmi potrebbero essere pochi e che il taglio della spesa potrebbe avere ricadute negative sull’economia, ma comunque seppure sono elementi da prendere in considerazione realisticamente, nulla toglie che si possano ridurre le spese militari. Secondo me la Politica è anche e soprattutto libertà di pensare e proporre nuovi scenari che riescano ad andare oltre lo stato delle cose presenti altrimenti si riduce a mero conservatorismo e moderatismo.

  19. Gianni Alioti

    Dispiace che una voce autorevole nel dibattito economico come “LaVoce”, scivoli per “ignoranza” o per “compiacenza”, dal liberalismo a un “liberismo spurio”, che difende l’idea degli effetti positivi indotti dalle spese militari (e perché no dalla guerra). L’autore dell’articolo, partendo con il piede sbagliato, arriva a una conclusione altrettanto sbagliata. Secondo i dati forniti dalla Nato (sicuramente più attendibili di quelli usati) la percentuale di spese militari in Italia in rapporto al PIL risulta, nel 2010, dell’1,4% pari a quello della Germania; mentre Francia e Regno Unito sono rispettivamente al 2% e allo 2,7%, mentre la Spagna è all’1,1%. Sul maggiore impegno di spesa di Francia e Regno Unito non bisogna dimenticare che questi paesi includono nel sistema della Difesa l’armamento nucleare, con i relativi ingenti costi per la tenuta in sicurezza. Se poi prendiamo i dati del SIPRI, l’unico istituto che fa una riclassificazione dei bilanci, comparando correttamente mele con mele, l’Italia spende in realtà l’1,8% del proprio PIL, la Francia e il Regno Unito rispettivamente il 2,3% e 2,7%, la Germania l’1,3% e un paese come il Giappone solo l’1,0%. Non si capisce perché le pensioni e gli stipendi dei militari siano esclusi da qualsiasi intervento di contenimento/riduzione della spesa come previsto per il resto dei lavoratori della funzione pubblica. Il principio d’intoccabili è proprio delle caste. A maggior ragione in un settore, come quello della Difesa, dove c’è una ridondanza di minimo un terzo del personale complessivo; con una situazione grottesca non riscontrabile in nessun altro settore in Italia e in nessun altro esercito al mondo: il 46% dei militari è costituito da ufficiali. Persino il Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, dopo le prime dichiarazioni sconcertanti, ha parlato della necessità di un ridimensionamento consistente di tutte le componenti dello strumento militare: uomini, strutture, mezzi e programmi. A tagli consistenti corrisponderebbero risparmi rilevanti per alcuni miliardi di euro l’anno. Altro che contributo minimo al risanamento di bilancio!

  20. Marcello Tava

    E una spesa annua dello 0,5% del PIL le sembra poco? Stiamo parlando di circa 6,5 miliardi all’anno e siamo nello stesso ordine di grandezza del famoso parametro di Maastricht sul deficit (3%). Sarebbe interessante sapere nel dettaglio come l’Italia impieghi annualmente cifre del genere.

  21. Andrea Gilli

    Voglio rispondere, brevemente, ancora a questi ultimi commenti. Marcello Tava: no, lo 0.5% del Pil non è poco. Ma il mio obiettivo è sottolineare come qualcuno pensi di evitare tagli alle pensioni (14%) con questa voce. Gianni Alioti: le differenze di dati da Lei sottolineate vengono ampiamente discusse nel mio articolo, dove affermo infatti che è difficile ottenere dati chiari e affidabili. Dal suo commento ho l’impressione di non essermi spiegato bene. Nessuno sta dicendo che pensioni e stipendi militari debbano essere salvati. Il punto è che chi chiede tagli, in questo momento, li vuole indirizzare altrove (equipaggiamento), aumentando così ulteriormente il peso relativo di questa voce sul bilancio della difesa. Saluti, ag.

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