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POLITICHE DI BUON SENSO SULL’IMMIGRAZIONE

L’immigrazione resta uno dei temi più incandescenti e più difficili da affrontare della politica italiana. Ma la semplificazione dei percorsi di cittadinanza è indispensabile per consentire una effettiva integrazione sociale. A partire dall’introduzione dello jus soli e del voto alle amministrative ai residenti stranieri. Anche perché i lavoratori stranieri in Italia pagano tasse e contributi alle casse dell’Inps. Il governo Monti ha già dato segnali di svolta rispetto al recente passato. Otterrà risultati adottando un approccio pragmatico.

Tra le scelte qualificanti del governo Monti compare la delega sull’integrazione ad Andrea Riccardi. Qui certamente si coglie una svolta, di linguaggio e di approccio culturale, rispetto al governo precedente. Più volte, poi, il presidente Napolitano ha incitato governo e parlamento a riformare le norme sulla cittadinanza, in favore dei minori nati in Italia da genitori immigrati. Vorremmo quindi provare a suggerire qualche pista di lavoro al nuovo esecutivo, pur sapendo che il tema resta tra i più incandescenti e dunque difficili da maneggiare.

SEGUIRE UN APPROCCIO PRAGMATICO

Per questa ragione, il primo suggerimento è quello di adottare un approccio minimalista, pragmatico, scevro di quelle ambizioni di grande riforma che hanno condotto alla sconfitta il ministro Ferrero all’epoca del secondo governo Prodi. Più il nuovo governo riuscirà a depoliticizzare le questioni, a porle sul piano del buon senso, della soluzione di nodi pratici, maggiori saranno le possibilità di coagulare una maggioranza sufficiente nei delicati passaggi parlamentari.
Partiamo allora dalla questione sollevata dal presidente Napolitano, che sarà prevedibilmente al centro del dibattito nei prossimi mesi. Il problema è serio: le norme italiane sono le più restrittive dell’Europa a 15, dopo che la Grecia ha riformato la propria legislazione. Pensare di formare dei buoni cittadini lasciandoli fuori dalla comunità non appare una politica sensata. Ma i minori nati qui sono quelli relativamente avvantaggiati, a patto che non si muovano dall’Italia per più di tre mesi: a 18 anni, fino al compimento dei 19, possono chiedere e ottenere la cittadinanza. I problemi maggiori riguardano i ragazzi ricongiunti, fosse pure all’età di un anno, e quelli che per un certo tempo si allontanano dal territorio nazionale, tipicamente per essere accuditi dai nonni: ricadono nella norma generale dei dieci anni di residenza, più i tempi di esame della pratica. Dunque, l’intervento di riforma dovrebbe puntare soprattutto a concedere la cittadinanza a coloro che hanno frequentato almeno cinque anni di scuola in Italia, eventualmente tra i 13 e i 18 anni.
Un altro grande nodo è quello di una riforma dell’attuale disciplina degli ingressi. Sappiamo che i decreti flussi, nella versione attuale, servono ad altro: a sanare rapporti di lavoro già instaurati, o a favorire l’arrivo di parenti e amici. Meglio allora ripristinare l’istituto dello sponsor (legge Turco-Napolitano), con quote annuali di ingressi per ricerca di lavoro coperti da congrue fidejussioni e dalla mediazione di un garante. Volendo, si potrebbe aggiungere: con l’aggiunta di una sponda istituzionale (sindacati, enti locali, ong, organizzazioni ecclesiali, eccetera), disponibile a farsi carico dell’insegnamento della lingua italiana, dell’orientamento e del sostegno nella ricerca del lavoro.
Per il settore domestico-assistenziale, si potrebbe anche pensare a sperimentare un sistema di conversione dei permessi di soggiorno, che già esiste per gli studenti che conseguono un titolo di studio in Italia: persone che entrano con un visto turistico e trovano un datore di lavoro disposto ad assumerle regolarmente, potrebbero evitare di passare attraverso la via crucis del lavoro nero e delle sanatorie.
Le politiche migratorie denunciano poi un evidente deficit sul piano dell’attrazione di lavoratori qualificati e della valorizzazione delle competenze dei migranti, più volte posto in rilievo da Tito Boeri. Si potrebbe obiettare: la nostra economia purtroppo non richiede laureati. Noi importiamo braccia ed esportiamo cervelli. Tuttavia, un’esplicita politica di attrazione di immigrati di alto livello, concordata con imprese e centri di ricerca, oltre a metterci in linea con i paesi del primo mondo, avrebbe effetti positivi sulla promozione di un’immagine diversa e diversificata del lavoratore immigrato: non solo manodopera, ma anche capitale umano di pregio. Per farlo, occorre sciogliere però alcuni nodi, come quello di corsie privilegiate per consentire loro di farsi accompagnare dalle famiglie. Oggi gli immigrati qualificati sono sottoposti agli stessi vincoli e alle stesse estenuanti procedure degli altri.
Ma anche tra quanti sono arrivati per le vie normali (ossia perlopiù i faticosi percorsi di emersione: visto turistico-soggiorno irregolare-sanatorie), le persone istruite non mancano. Incontrano però difficoltà spesso insormontabili nel far riconoscere diplomi e competenze. Tra le chiusure attuali e un’assoluta liberalizzazione, dovrebbe essere possibile individuare modalità agili e praticabili di accertamento delle competenze effettive e di convalida almeno di alcuni tipi di titoli.
A questo nodo, se ne accompagna un altro: l’esclusione dal pubblico impiego, a causa di una vecchia norma mai abrogata, ma dichiarata invalida e discriminatoria da molti tribunali quando gli immigrati hanno la forza e le risorse per appellarsi. Anche su questo punto, fatto salvo il caso di funzioni pubbliche in senso proprio, ci si dovrebbe chiedere che senso ha tener fuori gli immigrati dalle aziende di trasporto, dagli ospedali o dai cimiteri.
La politica del buon senso potrebbe prevedere poi un intervento molto semplice: prolungare di un anno i permessi di soggiorno. Oggi molti migranti e i loro datori di lavoro perdono ore e giornate di produzione per queste procedure, gravando nello stesso tempo le questure di scartoffie e sottraendo personale alla lotta alla criminalità. In tempi di crisi economica, c’è poi il rischio concreto che parecchi immigrati non riescano a rinnovare il permesso, senza che questo si traduca in un effettivo allontanamento dal territorio nazionale. Specialmente se hanno qui moglie e figli.
Un problema analogo si pone per gli sbarcati dal Nord-Africa: il governo uscente ha prolungato i loro permessi di soggiorno per ragioni umanitarie. Ma se non si passa a un permesso che consenta loro di guadagnarsi da vivere in maniera onesta e regolare, fabbricheremo degli sbandati, senza però riuscire ad espellerne che una minima parte.

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E PENSARE ALL’INTEGRAZIONE

Due suggerimenti infine sulle politiche per l’integrazione. La prima riguarda i ricongiungimenti familiari, resi più difficili dal passato governo. Comportano alcuni costi (più servizi scolastici, per esempio), ma promuovono integrazione sociale. Producono radicamento e responsabilità. Prevengono devianza e comportamenti antisociali. Trasformano gli immigrati sconosciuti in vicini di casa. Sono un investimento per la coesione sociale.
L’altra questione, difficile ma ormai matura, concerne la definizione di un’intesa con le minoranze islamiche. Oggi la mancanza di un accordo e la diffusa ostilità contro l’apertura di luoghi di culto si traducono nella realtà di centinaia di sale di preghiera semi-clandestine. Difficile impedire agli esseri umani di incontrarsi per pregare. Occorre invece guardare all’esempio dei nostri vicini, prima fra tutte la laica Francia, per costituire un interlocutore sufficientemente rappresentativo e definire un quadro di regole condivise, consentendo l’esercizio della libertà religiosa con modalità trasparenti e controllabili.
Sappiamo che su argomenti come questi, ad alta sensibilità simbolica ed emotiva, la ricerca del consenso rischia costantemente di prevalere sulle soluzioni ragionevoli. La vicenda delle elezioni milanesi, tra zingaropoli e allarme-moschee, insegna però che non sempre gli elettori sono disposti a seguire gli imprenditori politici della paura.

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ISTITUTI DI CREDITO: QUI CI VUOLE CAPITALE FRESCO

  1. Tommaso

    Anche le piccole cose possono fare una grande differenza. Un mio amico che e’ immigrato da ormai piu’ di 10 anni in Italia, mi ha detto che tuttora quando viene fermato dalla polizia la carta d’identita’ italiana (che possiede) a loro non interessa. E’ il permesso di soggiorno che vogliono vedere. Bene, peccato che il permesso di soggiorno venga rilasciato su un comune foglio di carta formato A4, che uno deve continuamente portarsi a dietro. Non sarebbe piu’ pratica una carta plastificata formato carta bancomat? E’ una piccola cosa, ma la somma di tante piccole odiose cose rendono certamente bene l’idea che “loro” sono “loro” e non saranno mai i benvenuti qui da “noi”. Odioso.

  2. AM

    Se per amministrative si intendono le comunali, sono pienamente favorevole al diritto di voto ai cittadini stranieri. Ma per coerenza il voto dovrebbe essere attribuito anche ai cittadini italiani che posseggono nel comune la loro seconda casa e che pagano le imposte locali (ICI e TARSU). E’ giusto che un tunisino che paga le imposte a Rapallo voti alle comunali di questo comune, ma, trattandosi di elezioni amministrative, il voto dovrebbe essere concesso anche al pensionato milanese proprietario di un’abitazione a Rapallo, dove trascorre alcuni mesi all’anno. Sono sicuro che se nelle località turistiche votassero anche i proprietari delle seconde case certi scempi e sprechi sarebbero evitati.

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