In autunno ci aspetta una manovra sui comuni basata sui fabbisogni standard? È uno strumento da utilizzare con cautela. Perché se è una buona idea mettere a disposizione dati e informazioni per un confronto sulle modalità di offerta dei servizi, altra cosa è pensare di servirsene per fare cassa.
IL FABBISOGNO STANDARD
Tra le manovre che il Governo si preparerebbe a varare in autunno, si fa strada con sempre maggiore insistenza un intervento sugli enti territoriali, comuni in primis. La novità è che si pensa di intervenire utilizzando le nuove stime dei fabbisogni standard, la cui metodologia di calcolo è stata recentemente approvata dal Consiglio dei ministri.
L’idea in linea di principio è sacrosanta: se ridurre si deve, invece di applicare i soliti tagli lineari e colpire nel mucchio, è meglio chiedere maggiori sacrifici a chi spende di più rispetto a quanto sarebbe necessario, il suo fabbisogno standard appunto. Se l’idea è giusta, l’applicazione però potrebbe risultare perniciosa, almeno alla luce di quanto ora noto sulla metodologia usata per il calcolo dei fabbisogni. In sostanza, così come sono ora, i fabbisogni vanno bene per qualche operazione di benchmarking; non per far cassa.
LA BANCA DATI
La stima dei fabbisogni standard per i comuni delle Regioni a statuto ordinario nasce col decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216, che assegna a Sose, la società di proprietà pubblica che già si occupa di stimare gli studi di settore, l’identificazione delle soluzioni metodologiche proprio per la determinazione degli standard di spesa. Secondo il decreto, Sose si deve avvalere della collaborazione scientifica di Ifel, il centro studi dell’Anci, mentre alla Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale (Copaff) spetta l’approvazione delle soluzioni via via individuate. In una prima fase, la collaborazione tra Sose e Ifel ha generato una gigantesca operazione di raccolta dati, tramite la somministrazione di questionari ai singoli comuni, sulla organizzazione interna e sulle modalità di produzione dei servizi. L’operazione si è conclusa nel 2011. La banca dati raccolta è straordinaria per ampiezza e livello di dettaglio e integra quanto già noto dai bilanci. Sono gli stessi dati che, dopo essere stati controllati e rivisti da Sose e da Ifel, sono stati messi ora a disposizione dei comuni (non ancora dei cittadini) tramite OpenCivitas e che costituiscono le informazioni elementari a partire dalle quali sono stati poi determinati gli standard. Sono informazioni utili, anche se naturalmente un po’ datate, alla luce di tutto quello che è successo con la crisi dal 2011 a oggi.
LE STIME
Fin qui, comunque, tutto bene. È ciò che succede dopo che genera i maggiori dubbi. L’approccio che si decide di seguire all’inizio è quello della “funzione di costo” di servizi comunali, che dovrebbe consentire di determinare il minimo costo necessario per produrre un certo livello di servizio. Ma questo approccio si scontra subito con alcune difficoltà. Tralasciando gli aspetti più prettamente tecnici (come la determinazione per legge delle macro-funzioni per le quali determinare gli standard, che non ha molto senso da un punto di vista economico, o la mancanza di analisi di robustezza nelle stime), la prima questione è che gli scostamenti per alcuni municipi rispetto al benchmark risultano essere così ampi che si preferisce stimare un costo medio standard invece che un costo minimo.
La seconda è che per molti servizi non è facile identificare una “misura” del prodotto offerto, per non parlare di una “misura” della qualità. Per fare un esempio, mentre è relativamente facile misurare il prodotto del servizio di raccolta dei rifiuti (le tonnellate raccolte), è più complesso pensare a una misura dei servizi prodotti dall’ufficio anagrafe o dai vigili urbani. Nel caso dell’Anagrafe, per esempio, si può ricorrere al numero di certificati emessi, ma è probabile che i cittadini siano invece più interessati ai tempi necessari per ottenere un certificato o alla possibilità di ottenerlo online, tramite una qualche procedura che “smaterializza” il rapporto con l’ufficio.
Viste queste difficoltà, si decide dunque di stimare una “funzione di spesa”, che dovrebbe consentire di ottenere il fabbisogno medio standard di risorse per produrre un servizio per dati indicatori di bisogno del comune (ed eventualmente dati standard di prezzo per gli input), ipotizzando che quel servizio venga poi effettivamente erogato. È un aspetto cruciale per capire le stime sui fabbisogni standard elaborati, poi ampiamente riprese dalla stampa. Per esempio, risulta che tra i comuni con più di 60mila abitanti, Perugia è la città peggiore: spende il 31 per cento in più rispetto al suo standard; mentre Lamezia Terme è la migliore, con una spesa inferiore allo standard del 41 per cento. Fra i capoluoghi di Regione, la maglia rosa spetta a Campobasso, la cui spesa è inferiore del 15 per cento rispetto allo standard; la maglia nera (dopo Perugia) va a Potenza, con una spesa in eccesso del 24 per cento. In generale, le stime mostrano come al Centro-Nord si spenda meno dello standard per quanto riguarda i servizi di amministrazione generale e più dello standard per i servizi sociali e l’istruzione; l’opposto al Sud. Solo che i servizi sociali (fra i quali per esempio rientrano anche gli asili nido) sono offerti molto meno al Sud.
I RISCHI
È evidente che usare questi numeri per separare gli “spendaccioni” dai “risparmiosi”, senza tenere conto di quantità e qualità dei servizi offerti, può generare disastri. Si rischia cioè di identificare tra i risparmiosi quelli che non offrono i servizi e tra gli spendaccioni quelli che invece i servizi li offrono. Inoltre, le stime sono state fatte senza tener conto di capacità e sforzo fiscale. Per cui un comune che ha, legittimamente, deciso di tassare di più i propri cittadini per offrire più servizi rischia di passare come spendaccione, mentre un comune che ha deciso di non offrire i servizi, e dunque di non tassare, è per definizione un risparmioso. Ma se la nozione di autonomia ha un senso, è appunto quello di consentire a sindaci e consiglieri comunali di scegliere la combinazione tasse, tariffe e servizi che più gli aggrada, soggetti al giudizio dei propri elettori.
In conclusione, mettere a disposizione dati e informazioni per operazioni di benchmarking sulle modalità di offerta dei servizi è un’ottima idea, anche quando le informazioni sono incomplete, come in questo caso. È utile per i cittadini ed è utile soprattutto per gli amministratori comunali, che hanno uno strumento in più per imparare a far meglio confrontandosi con gli altri. Dove esiste un output misurabile e qualificabile è utile anche per finalità di controllo della spesa e dovrebbe essere utilizzato a tal fine. Dove però questo non c’è, il procedimento è rischioso. Pur in una situazione di crisi finanziaria, il Governo dovrebbe resistere alla tentazione di usare strumenti non pensati a questo scopo per far cassa.
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Marcello Degni
Condivido pienamente le considerazioni svolte nell’articolo. Una preoccupazione aggiuntiva, che ho argomentato in un articolo su blitz (http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/marcello-degni-opinioni/riforma-senato-costituzione-e-federalismo-il-pendolo-dalle-regioni-allo-stato-1934624/), è data dall’inserimento nel testo di riforma costituzionale in discussione in Senato del criterio di finanziamento integrale delle funzioni fondamentali, “sulla base di indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza”. Si tratterebbe, a mio avviso, di un eccessivo irrigidimento in una materia che richiede grande duttilità e capacità di sperimentazione. Nella funzione di produzione dei beni pubblici influiscono sulla combinazione dei fattori produttivi sia il grado d’inefficienza sia gli squilibri strutturali, che possono determinare divari nei costi e nei fabbisogni.
Il lavoro della SOSE (“The Italian way towards Standard Expenditure Needs”, presentato il 6 giugno 2014) è molto utile se utilizzato per sviluppare una severa “accountability” diffusa, con la diffusione e il confronto delle esperienze. Sarebbe di contro assolutamente controproducente se fosse utilizzato per calibrare risorse e gradi di libertà degli enti territoriali. Ancor peggio poi se in un’ottica di mera cassa, di cui ci potrebbe essere bisogno in autunno.
Luigi Oliveri
Articolo semplicemente perfetto. Che mette in evidenza, benissimo, anche le tantissime lacune e carenze dei sistemi di valutazione delle performance, basati esattamente, per lo più, sugli stessi errori di stima e di individuazione dei “prodotti”. Ecco perchè, in generale, i sistemi di valutazione servono a pochissimo.
Francesco Porcelli
Salve,
condivido il tenore dell’articolo. E’ molto importante interpretare e utilizzare i fabbisogni standard in modo corretto, ovvero come uno strumento per superare il criterio della spesa storica nell’ambito della perequazione fiscale al fine di responsabilizzare gli enti locali stimolando un’offerta più efficiente dei servizi pubblici locali.
Segnalo, inoltre, che SOSE e il MEF sono pienamente consapevoli dei rischi che si incorrono nel giudicare i livelli di efficienza dal mero confronto tra spesa storica e fabbisogno. Un indicatore questo ultimo semplice e utile dal punto di vista gestionale per i comuni ma, chiaramente, povero dal punto di vista normativo.
All’interno di Opencivitas, nell’ambito del Vademecum alla BI, cosi con in tutti i documenti pubblicati da SOSE si legge, ad esempio: “È importante precisare che il differenziale tra spesa storica e fabbisogno è riconducibile sia all’efficienza con cui i servizi locali vengono forniti, sia ai livelli quantitativi delle prestazioni. L’individuazione di queste due componenti è in corso di definizione e sarà inserita nelle future evoluzioni di Opencivitas.”
Ezio Pacchiardo
Usare il costo medio in luogo del costo minimo significa spendere la stessa cifra ma rimodulata sui diversi comuni, quindi gran lavoro per nulla. Inoltre si corre il rischio che se il costo medio che si stabilisce è calcolato sulla base del costo unitario la spesa potrebbe anche aumentare, ciò accadrebbe qualora le quantità acquistate a costo unitario maggiore fossero minori di quelle acquistate a costo unitario minore. Solo l’adozione di un costo standard basato sul minimo o su un valore intermedio tra il costo medio e il costo minimo darebbe risultati migliorativi circa la riduzione della spesa. Sostenere la tesi del costo medio mi pare un vero ‘non senso’.
Giovanni De Lorenzi
Condivido pienamente le conclusioni degli autori. Il sistema degli enti locali è stato (ed è tuttora) pesantemente contaminato dalle politiche del governo centrale che hanno certamente avuto lo scopo precipuo di conseguire risparmi di spesa, ma che hanno invero condizionato principalmente la scelta della tipologia di spesa degli amministratori. Per non far sì che anche l’utilizzo dei fabbisogni standard di trasformi nell’ennesima erosione dell’autonomia degli enti locali (che poi è anche la ragion d’essere delle amministrazioni territoriali), è a mio avviso corretto aderire all’assunto degli autori laddove ritengono che le informazioni e i dati messi a disposizione dalle rilevazioni dei fabbisogni (e costi) standard, debbano poter essere utilizzati in primo luogo nell’ambito di una analisi di benchmarching per gli attori dell’ente locale e in secondo luogo in una logica comparativa da parte dei cittadini che debbono essere posti in grado di valutare non solo il costo di un servizio, ma anche quantità e qualità di quel dato servizio, erogato anche da altri enti locali magari con costi inferiori, sebbene di qualità decisamente scarsa. Insomma, il servizio erogato dal mio Comune costa più di quello erogato dal Comune limitrofo (e io pago in termini di tasse o tariffe un prezzo superiore); tuttavia per quel servizio, da me ritenuto di qualità superiore rispetto a quello analogo erogato dal comune limitrofo, io sono “contento” (rectius: soddisfatto) di pagare quella tariffa, poiché considero giustificato tale differenza di costo. In caso contrario, dopo avere effettuato tutte le valutazioni del caso, potrò incidere con il mio voto in sede di tornata elettorale sul mancato consenso di quella data amministrazione.
Piero
Si vuole buttare via un lavoro fatto e pagato dai cittadini, ricordo agli autori che i servizi di amministrazione sono svolti dai dipendenti comunali mentre quelli per il sociale e l’istruzione sono sempre dati in appalto, in ogni caso si può iniziare da quelli generali, i dati devono essere pubblicati e inseriti nel sito di ogni comune, poi saranno i cittadini che faranno le scelte se l’ente non si adegua ai costi standard.
Il governo deve obbligare la pubblicazione di tali dati non può imporre che l’ente locale spenda meno se al contrario il cittadino e’ soddisfatto dell’amministrazione e paga con le Imposte locali e le tasse il servizio.
Piero
Il Governo, al contrario aveva promesso l’aggregazioni dei comuni. Qui si deve intervenire, ridurre del 30% il numero dei comuni e togliere le provincie e rendere più virtuose le regioni e’ una manovra possibile. Sulla sanità gestirà dalle regione devono essere applicati i costi standard, se le regioni non sono capaci di gestire la sanità in modo corretto ( non si comprende perché un posto letto costa più in Sicilia che in Lombardia), lo stato deve riappropiarsi della sanità.
anna banchero
Sono molto d’accordo con l’articolo , in particolare per i servizi sociali dove i fabbisogni standard fissano delle quantità di servizi e delle tipologie senza porsi alcun problema degli assetti organizzativi, senza indicare i livelli essenziali, quindi cristallizando di fatto una spesa storica acritica e senza alcuna innovazione. Ciò appare del tutto irrazionale e anche antieconomico perché non analizza ciò che è superato e va innovato, soprattutto sotto il profilo dei modelli comunali oggi molto frastagliati ed anacronistici se si pensa alle forti differenze di popolazione nell’ambito degli 8000 Comuni italiani. Con che logica si stabiliscono fabbisogni standard senza prima definire delle grandezze standard per erogare in termini sostenibili i servizi sociali? E quale rapporto concreto tra questi fabbisogni ed il sistema sanitario? Come si potrà procedere a politiche integrate per non autosufficienti ed altre categorie fragili? Ha ragione l’UE quando ci accusa di non avere disegni strategici per il settennio 2014/2020. Infatti procediamo con misure di”effetto” ma slegate da un vero disegno organico di riforma delle Autonomie.
Marco Esposito
Giusto mettere in guardia sull’utilizzo dei fabbisogni standard per fare cassa. Anche perché i dati contengono una seria anomalia: per due capitoli di spesa su 12 e cioè asili nido e istruzione (valore 5,6 miliardi su 33,9 miliardi) è stato calcolato come fabbisogno standard la spesa storica, la quale in genere è molto bassa nel Mezzogiorno. Ciò porta a sottostimare il fabbisogno dei Comuni del Sud e quindi a concentrare in tali territori i potenziali risparmi, senza alcun nesso con l’equità e l’efficienza.
Antonio carbone
Condivido l’analisi e le conclusioni degli autori, ma c’è un aspetto che riguarda l’approccio generale alla questione degli “standard di spesa” che non mi convince (anzi mi preoccupa tantissimo).
Cercherò di riassumerla con un esempio che è oramai prassi diffusa:
una azienda sanitaria, per garantirsi il servizio di pulizia delle sue strutture, affida l’incarico mediante gara d’appalto ad una società che paga i propri addetti 700/800 € al mese. Il servizio viene svolto con soddisfazione degli utenti e i relativi costi diventano uno “standard” per la pubblica amministrazione.
Siamo sicuri che va tutto bene? Quelle persone che lavorano per un salario al di sotto della soglia di povertà entrano nel “conto”?
Io spero, ma non credo, che sia solo una svista.
Ps. La realtà e’ ben peggiore di come l’ho esemificata! Si pensi solo che tra un appalto e il successivo i lavoratori spesso non vengono pagati e garantiscono il servizio per “mantenere il posto di lavoro”.
Ma anche a volere affrontare la questione solo dal punto di vista puramente contabile, non sono nemmeno convinto che la soluzione dell’esternalizzazione di tutti i servizi porti a un reale risparmio.
O forse sono io che mi sbaglio perché conosco il settore solo come cittadino utente.