Lavoce.info

Oltre i soliti sospetti*

Le politiche di austerità, attuate simultaneamente in molti paesi dell’Eurozona, non sono riuscite nemmeno a ridurre il debito pubblico. La pro-ciclicità insita nelle regole europee è potenzialmente molto pericolosa: basta vedere i danni di lungo periodo che la grande recessione ha prodotto.
GLI EFFETTI INDESIDERATI DELL’AUSTERITÀ
Tra le tante possibili misure dell’austerità ne utilizzeremo qui due molto semplici e dirette: la consistenza dell’avanzo primario (depurato dagli effetti dovuti al ciclo) e la variazione del saldo primario, sempre al netto del ciclo. La prima ci dice quale sia il contributo pubblico diretto discrezionale (cioè non dovuto al semplice operare degli stabilizzatori automatici) alla domanda aggregata (quello indiretto e, in genere, molto inferiore viene dalla eventuale spesa degli interessi percepiti dai detentori di titoli del debito pubblico). La seconda è un indicatore dell’atteggiamento di politica fiscale (fiscal stance): se la variazione è positiva, si è in presenza di un atteggiamento restrittivo, se la variazione è negativa, si è in presenza di un atteggiamento espansivo. (1)
Guardando dunque al saldo primario è possibile vedere come, a partire dalla fine del 2010, la finanza pubblica dell’area euro, come quella Usa, assume un atteggiamento restrittivo, con significativi miglioramenti del saldo primario aggiustato per il ciclo (figura 1). In un simile quadro si può anche notare come l’area euro abbia avuto sempre un avanzo primario superiore a quello degli Stati Uniti e come la posizione dell’Italia sia stabilmente “migliore” di quella aggregata dell’Eurozona, con un permanente attivo primario, che arriva a superare il 4 per cento del Pil nel 2012 e nel 2013. Non solo la politica fiscale americana è stata nel complesso più espansiva di quella europea, ma lo è stata di più quando più serviva, cioè immediatamente dopo lo scoppio della crisi finanziaria e si è accompagnata a una altrettanto tempestiva e massiccia politica monetaria espansiva e a una azione di ricapitalizzazione delle banche. (2)
Se vogliamo vedere meglio gli effetti dell’austerità, conviene guardare alla correlazione tra variazione del saldo primario e variazione del tasso di disoccupazione. Ci accorgiamo così che, escludendo la Grecia (per evitare che influenzi troppo i risultati con il suo ingente assestamento di bilancio e il suo enorme aumento di disoccupazione), i paesi dell’area euro che hanno fatto maggiori aggiustamenti di bilancio primario (al netto delle variazioni cicliche) sono anche quelli che hanno visto crescere di più il tasso di disoccupazione (figura 2). Dato un trend comune di crescita della disoccupazione, per ogni punto in più di “miglioramento” del saldo primario in media si è registrato un aumento di 0,67 punti del tasso di disoccupazione. E un R2=0,59 ci dice che la retta di regressione spiega quasi il 60 per cento della variabilità dei dati riscontrata. Ovvero che la correlazione tra più austerità e più disoccupazione è abbastanza elevata. In Germania, dove la variazione del saldo primario è stata nulla, il tasso di disoccupazione si è ridotto di un punto.
Figura 1
Schermata 2014-08-21 alle 09.47.58

Figura 2
Schermata 2014-08-21 alle 09.48.03

SCENDE LO SPREAD, AUMENTA IL DEBITO
La figura 3 mostra come i livelli degli spread tra tassi sui titoli pubblici a dieci anni dei vari paesi dell’area euro e tassi sui bund (tedeschi) decennali alla fine del 2010 spieghi oltre il 50 per cento dell’intensità del consolidamento fiscale come misurato dalla variazione del bilancio primario aggiustato per il ciclo. Il che conferma il ruolo significativo che le difficoltà di finanziamento del debito pubblico hanno avuto nel determinare l’atteggiamento di politica fiscale dei paesi dell’area euro. D’altro canto, le misure di austerità messe in campo hanno contribuito solo in misura relativamente ridotta alla riduzione degli spread (figura 4). Al contrario, il loro calo appare molto più la conseguenza della credibilità dell’annuncio fatto da Mario Draghi nel luglio 2012 a Londra di voler salvare l’euro “whatever it takes” e delle prospettate (ancorché mai attuate) operazioni Outright Monetary Transactions (Omt) da parte della Bce. Infatti, (i) gli spread si riducono di più nei paesi in cui erano più alti a giugno 2012, suggerendo che il precedente rialzo era stato in buona misura determinato dai sentimenti di panico che si erano diffusi sui mercati (figura 5); (ii) gli spread si riducono nonostante che i “fondamentali” continuino a peggiorare, in particolare il rapporto debito/Pil che aumenta in tutti i paesi della “periferia”. (3)
Figura 3
Schermata 2014-08-21 alle 09.48.17
 
Figura 4
Schermata 2014-08-21 alle 09.48.26
Figura 5
Schermata 2014-08-21 alle 09.48.33
Figura 6
Schermata 2014-08-21 alle 09.48.43
Dalla figura 6 si può vedere come il rapporto debito/Pil sia aumentato in tutti i paesi dell’Eurozona che hanno adottato misure di consolidamento fiscale e sia maggiore dove sono state più intense (R2=0,63).
L’insieme di questi numeri sembra confutare definitivamente l’argomento di coloro che affermano che l’austerità ha funzionato poco perché non se n’è fatta abbastanza, dal momento che più se ne è fatta, peggio sono andate le cose, sotto il profilo della disoccupazione e sotto il profilo del debito pubblico. Evidentemente, nella concreta situazione in cui si sono venuti a trovare i paesi dell’Eurozona (tassi di interesse nominali vicini allo zero, inflazione ben al di sotto del 2 per cento e simultaneità non coordinata delle politiche di consolidamento del bilancio in tutti i paesi), i moltiplicatori fiscali si sono rivelati molto più alti e molto più tradizionalmente keynesiani di quanto la Commissione e i suoi persuasori accademici pensassero. (4)
E IL PIL POTENZIALE SI RIDUCE
Il problema più grave è che lo shock negativo costituito dalla crisi finanziaria e dalle successive politiche di consolidamento fiscale ha avuto pesanti effetti sul Pil potenziale e anche sul suo tasso di crescita: si è messo in atto un forte effetto di isteresi, con distruzione di capacità produttiva.Confrontando le tendenze pre-crisi e post-crisi per i paesi Ocse, Laurence Ball ha stimato che la perdita di Pil potenziale ha riguardato quasi tutti i paesi (le eccezioni sono Svizzera, Australia e Nuova Zelanda), ma l’epicentro di questa catastrofe sono stati i paesi europei che hanno sperimentato le più intense politiche di consolidamento fiscale (i Piigs e il Regno Unito, oltre alla Finlandia). Per l’Italia, il tasso di crescita potenziale si è ridotto dal già basso 1,34 per cento nel periodo pre-crisi a un miserrimo 0,11 per cento stimato per il biennio 2014-2015.
Proprio perché il Pil potenziale italiano si è ridotto, l’ampiezza del’output gap negativo (cioè la differenza percentuale tra Pil effettivo e Pil potenziale) dovrebbe ridursi di 1,30 punti tra 2013 e 2015, in linea con la Spagna. Ancora maggiore risulterebbe la riduzione dell’output gap in Portogallo, Irlanda e Grecia, a seguito della perdita di Pil potenziale. Ma proprio questo fatto incide sul calcolo del deficit aggiustato per il ciclo (saldo strutturale), poiché la fase negativa del ciclo appare meno intensa di quanto sia nella realtà (il Pil effettivo è più vicino al nuovo, ridotto potenziale) e quindi il deficit aggiustato risulta maggiore, anche se quello nominale è invariato. Ne segue la necessità di ulteriori manovre di aggiustamento per rientrare nei “parametri” fissati dalle regole europee (incentrate sui saldi strutturali: si veda i passati interventi sul tema 27.06.201404.07.1422.07.14).
Tabella 1
Schermata 2014-08-21 alle 09.49.17
CHE FARE?
È evidente che regole di questo genere non possono tirare fuori l’Eurozona dalla recessione. Come ha detto Michael Spence, “l’Europa, teoricamente una grande potenza mondiale, non può più farsi del male da se stessa”; di fronte alla debolezza della domanda globale e ai segnali di recessione e deflazione che coinvolgono ormai anche Francia e Germania “non ha più senso il gioco di muscoli imperniato su parametri irrealistici, fissati quando la situazione era assai diversa”. (5) Inoltre, “la mancanza di riforme strutturali non può spiegare il fatto inedito e recente di uno scollamento dell’andamento ciclico tra noi e gli Stati Uniti, come non può spiegare la debolezza diffusa dell’Unione che tocca anche il paese che ne è motore: la Germania. Questo non significa negare l’importanza delle riforme, ma suggerisce che un difetto su questo fronte non può essere la causa di tutti i nostri mali”. (6) Bisogna accettare, una buona volta, di trovarsi di fronte a un’enorme e prolungata crisi di domanda aggregata (7); che la politica monetaria (con tassi di interesse nulli e pendente la spada di Damocle della corte costituzionale tedesca) sta esaurendo le armi a sua disposizione; che c’è bisogno di una politica fiscale federale o quantomeno un coordinamento espansivo delle politiche fiscali nazionali; che bisogna smetterla coi soliti sospetti e pensare che questa svolta non deve servire ad “aiutare” per l’ennesima volta gli irriformabili paesi del Sud o per consentire loro di “derogare” regole oscure e parametri discutibili, ma per consentire una ripresa di tutta l’Unione. (8) Infine, bisogna accettare che l’attuazione delle riforme “dal lato dell’offerta” nei singoli paesi potrà mettere la ripresa su un sentiero di prolungata sostenibilità, ma non può certo innescarla adesso, cioè quando serve.
 
 
* Le opinioni qui espresse sono personali e non coinvolgono l’istituzione presso la quale Lucio Landi esercita la propria attività professionale.
 
(1) Poiché entrambe queste “misure” non fanno che registrare ciò che si è realizzato, a rigore non sono in grado di misurare le “intenzioni” di politica fiscale dei governi. Ma qualsiasi misura più corretta di tali intenzioni è reperibile con difficoltà e richiederebbe analisi dettagliate di tutti i singoli provvedimenti di finanza pubblica adottati dai vari parlamenti nazionali e messi in atto dai governi. Tutti i dati utilizzati in questo articolo sono di fonte Ocse o Bce.
(2) L. Reichlin, “Coordinare politiche monetarie e fiscali. Per l’Unione (debole) è l’ora della svolta”, Corriere della Sera, 15/8/2014.
(3) La figura 5 aggiorna la figura 1 di De Grauwe e Ji, “More evidence that financial markets imposed excessive austerity in the Eurozone”, CEPS Commentary, 5 febbraio 2013. Sul tema, si veda anche De Grauwe e Ji, “Disappearing government bond spreads in the Eurozone – Back to normal?”, CEPS Working Document No. 396, maggio 2014.
(4) Si vedano, per esempio, D.M. Nuti, “Gli effetti perversi del consolidamento fiscale”, 11/10/2013, www.sbilanciamoci.info/layout/set/print/content/pdf/20423; R. Tamborini, “Transatlantic austerity, 2010 – …”, DEM Discussion Papers, Trento, 10/2013; J. nt’Veld, “Fiscal consolidation and spillovers in the Euro Area periphery and core”, European Economic Papers, 506, 2013.
(5) Intervista a La Repubblica del 14/8/2014.
(6) Lucrezia Reichlin, sempre sul Corriere della Sera del 15/8/2014.
(7) Guido Tabellini, “Riforme radicali per la svolta in Europa”, Il Sole-24Ore, 25/7/2014.
(8) Sulla necessità di introdurre qualche elemento federale nell’Unione monetaria, si veda la proposta di Sebastian Dullien di un sussidio europeo contro la disoccupazione in “The Macroeconomic Stabilisation Impact of a European Basic Unemployment Insurance Scheme”, Intereconomics, Volume 49, July/August 2014, N. 4. La proposta è stata ripresa e sostenuta dal Commissario europeo agli Affari sociali Lazlo Andor. Guido Tabellini, su Il Sole 24 Ore del 25 luglio, sostiene, invece, la necessità di una riduzione della pressione fiscale simultanea e coordinata a livello europeo. Sebbene probabilmente gli effetti espansivi di una simile riduzione sarebbero inferiori a quelli di un aumento “federale” degli investimenti pubblici, si tratterebbe comunque di un importante passo avanti verso una politica fiscale federale, oltre che comunque una spinta alla domanda aggregata.

Leggi anche:  Concorrenza e crescita: un campionato globale

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Concorrenza e crescita: un campionato globale

Precedente

Pensioni d’oro, d’argento, di latta

Successivo

Italia a banda larga: dove, come e quando

10 commenti

  1. Giovanni

    Perché mai continuare inesorabilmente a parlare di “riforme”, ben sapendo che con il termine si indicano contenuti diversissimi e che gran parte dei lettori, ormai non sa più di cosa si parla? Perché non dedicare finalmente un articolo che svolga il semplice tema: questo è quello che intendiamo per riforme. (E magari anche: questo è quello che intendono politici e funzionari dell’UE.

    • Andrea Boitani

      Caro Giovanni, ha perfettamente ragione: oggi è difficile capire cosa si intenda veramente con la generica parola “riforme”. Quello che intendo io sono soprattutto riforme 1) che aumentino la concorrenzialità del mercato dei beni; 2) che compensino la flessibilità sul mercato del lavoro con una lunga protezione dal rischio disoccupazione; 3) che rendano più efficace la regolamentazione (non la deregolamentazione!) dei mercati e degli intermediari finanziari; 4) che rendano più equilibrata ed equa la distribuzione del reddito e della ricchezza; 5) che trasformino la pubblica amministrazione da emanatore di vincoli burocratici e ostacoli all’imprenditorialità in promotore di efficienza e innovazione; 6) che ci liberino dalla pletora di partecipate locali succhia-soldi; 7) che combattano alla radice l’evasione fiscale; 8) che riducano i tempi dei processi civili; 9) che impongano valutazioni di livello internazionale prima e dopo la realizzazione di grandi e piccole opere infrastruttali per evitare sprechi insensati di risorse scarse; 10) che favoriscano concretamente il merito nell’accesso ai livelli più alti di istruzione, alla ricerca, all’insegnamento e alle alte cariche pubbliche. Bastano? Non so. Ma mi impegno a tornarci su, facendo anche qualche esempio concreto di come realizzarle.

      • ffortini

        Ho l’impressione che non abbia risposto, pero’. Vogliamo sapere tutti quali siano queste famose riforme, e lei non ha scritto *quali siano*, lei ha scritto *quali effetti tali riforme dovrebbero avere*: troppo facile. Ad esempio 1) che aumentino la concorrenzialità del mercato dei beni: cioe’ sta proponendo di tagliare i salari, aumentare l’orario di lavoro, eliminare le ferie e i permessi, licenziare liberamente una donna solo perche’ incinta? Basta saperlo. E se non e’ questa la riforma cui pensa, perche’ non indica esattamente COME intende raggiungere il risultato 1?
        Insomma diciamo una buona volta in cosa consistono davvero queste riforme, e poi ne potremo parlare. Altrimenti invoco pure io delle riforme che 1) aumentino la vita in salute di tutto il genere umano 2) rendano tutti ricchi 3) permettano di non pagare piu’ tasse 4) ma assicurino welfare a tutti – anche agli immigrati clandestini. Chi non sarebbe d’accordo?

  2. Roberto Boschi

    Finalmente anche quelli della Voce.info ammettono che “l’austerità espansiva” è, per l’area euro, un vero controsenso: meglio tardi che mai. Il punto però è che non si vuole ancora ammettere che non basterebbe, all’Italia, ma anche a SP (ed alla FR che però ha fatto, fino ad oggi, ben poca austerità) tornare a fare politiche anticicliche per risolvere la situazione. Per noi e gli altri PIIGS il vero problema è stato, dal 2010 in poi l’arresto del finanziamento estero del defict di partite correnti: per risolvere quel problema si è distrutta domanda interna, ecco il vero fine dell’austerità, e con essa sono crollate le importazioni. Se la domanda interna tornasse a crescere velocemente il deficit con l’estero tornerebbe a farsi sentire (oggi, forse, ancor di più avendo distrutto in questi anni capacità produttiva domestica rimpiazzabile solo a merci estere). E’ questa la “maledizione” dei paesi come l’Italia che, a cambi fissi, hanno un alto moltiplicatore delle importazioni.
    La ricetta di minore austerità sarebbe valida se chi può permettersi maggiore domanda interna (Germania, Austria e pochi altri) la facesse contribuendo a trainare l’export degli altri. Ma questa è fanta politica!
    Quindi che fare? …. Sciogliere questa Unione monetaria nata male e proseguita peggio (sicuramente per noi, per gli altri non so e, alla fine, nemmeno mi interessa).

  3. Piero

    Bene l’analisi fatta, ma penso che le principali conclusioni da affermare oggi dopo avere analizzato questa crisi partita dai titoli tossici americani che ha innescato poi la crisi dei debiti statali, propagata alle banche ed infine all’economia reale in modo massiccio e devastante sono le seguenti:
    1) non esiste l’AVO ENDOGENA, quindi si può avere un’area valutaria ottimale solo con l’integrazione fiscale fra i paesi componenti l’area valutaria, la mobilità del lavoro e la variabilità dei salari non sono sufficienti da sole;
    2) il mancato controllo politico del ruolo della Bce, si è assegnata da sola il suo ruolo senza rispettare il mandato statutario, la tenuta dell’euro non è grazie alla frase di Draghi o agli Omts, ma solo alle politiche di austerità fatte dagli stati che ha reso credibile la volontà di non uscire dall’euro;
    3) le riforme domestiche non saranno mai la soluzione del problema che non è italiano ma europeo, quindi le riforme vanno fatte subito perché oggi il mondo e’ cambiato, per competere abbiamo bisogno di uno stato più snello e quindi meno costoso, più produttivo. Nel momento che lo stato sarà meno costoso e più produttivo abbiamo uno spazio per la riduzione delle tasse. Se vuole oggi Renzi ha la possibilità di ridurre la spesa pubblica del 10% (Cottarelli+ spese standard anche sulla sanità+ tagli lineari) e contemporaneamente di eliminare l’Irap per le imprese e con la differenza sgravi fiscali permanenti sul reddito dei lavoratori.

  4. La questione è antropologica, e questo seguita a sfuggirci. Ma è bene considerare questo livello, se un giorno vorremo venire fuori dal cantone nel quale ci siamo cacciati. Così, nel “Quaderno n. 11”, che trovate qui
    http://lafilosofiadellatav.wordpress.com/i-maestri-2/pier-luigi-zampetti/i-due-e-book-sulla-lezione-di-pierluigi-zampetti/, il mio maestro, Pier Luigi Zampetti, a pag. 29:
    “Il Ministro dell’Economia sembra quindi ignorare che in regime di New Deal è appunto
    l’economia che strutturalmente detta l’agenda alla politica. Non può essere il
    contrario. Lo Stato diviene ostaggio del sistema economico. Tremonti comunque
    sembra non porsi il problema. Egli crede nel New Deal, del quale dice all’Espresso che
    «Talvolta si sottovaluta quanto il New Deal sia stato innanzitutto una grande
    operazione psicologica di massa. Un impulso forte. Una radicale inversione di tendenza
    nella società americana e non solo».
    Zampetti invece adotta a proposito del New Deal una immagine non illusoria, anzi
    assolutamente esplicita:
    “Un’affermazione è sulla bocca di tutti, quasi è divenuta un ritornello: «occorre
    diminuire la spesa pubblica!» Nessuno, finora, è riuscito ad indicare la strada. E
    non ci si riesce perché non si vuole guardare in faccia il mostro che il New Deal ha
    prodotto e che, se non l’abbatteremo a tempo, finirà con il divorarci tutti.” (La
    società partecipativa, p. 156)

  5. Maria Rosaria Di Pietrantonio

    Perchè “la mancanza di riforme strutturali non basterebbe a spiegare lo scollamento tra noi e gli Stati Uniti”?questo articolo sembra dire: è inutile fare le riforme( ma già si sa che non si faranno se non quelle da presentare alle sedi europee competenti ) , tanto non servono, smettiamola di pensare che questa “flessibilità” può aiutare i paesi irriformabili,(ma i cittadini italiani hanno mai visto qualche beneficio da precedenti “flessibilità o solo i nostri dirigenti?) insomma perfetta sintonia con il governo attuale….

  6. francesco daveri

    Bei grafici. Ma perché ci sono solo 9 o 10 punti? I paesi dell’eurozona sono 18 (o 17 senza la Grecia)

  7. Maurizio Cocucci

    In merito ad alcuni contenuti dell’articolo vorrei fare un paio di puntualizzazioni. La prima riguarda gli Stati Uniti, che se da una parte hanno adottato politiche meno severe dal lato del bilancio dall’altra comunque vanno nella stessa direzione. Con la firma da parte del presidente Obama del Budget Control Act del 2011 l’amministrazione si impegnava a non aumentare le imposte ma al tempo stesso era previsto un forte taglio alla spesa pubblica, situazione poi giunta al limite con l’approssimarsi del noto pericolo del Fiscal Cliff a fine 2013. Nonostante poi Quantitative Easing e politiche meno rigide (all’apparenza) di quelle adottate nella Ue vi sono stati comunque numerosi casi di municipalità che hanno fatto ricorso al fatidico Chapter 9, ovvero lo stato di insolvenza e questo ha riguardato anche città grandi come Stockton e Detroit con conseguenze che i loro cittadini conoscono bene.
    La seconda puntualizzazione riguarda la situazione dell’economia nella Ue e in particolare dell’eurozona che non la valuterei così negativamente. Spagna, Irlanda e Grecia si stanno avviando ad una ripresa mentre Francia e Italia continuano ad avere difficoltà per la mancata attuazione delle riforme necessarie. Quanto alla Germania non darei molto eco al dato reso noto di recente circa l’andamento del Pil al secondo trimestre di quest’anno, un dato che a mio avviso (e non solo) è sicuramente destinato a rimanere isolato.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén