Il Consiglio europeo ha approvato i nuovi obiettivi su clima ed energia per il 2030. Potevano essere sicuramente più ambiziosi. In due casi gli obblighi sono solo comunitari e non nazionali. La necessità di un voto unanime ha prodotto un compromesso dettato dagli interessi dei singoli Stati.
L’ENERGIA DELL’EUROPA
Il presidente uscente della Commissione europea, José Barroso, ha definito il pacchetto energia e clima della UE al 2030, approvato giovedì scorso dal Consiglio europeo, “un’ottima notizia per la nostra lotta contro i cambiamenti climatici”. E subito gli si è allungato il naso. Appena più onesto e sincero il presidente uscente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, per il quale “non è stato per niente facile, ma siamo riusciti a raggiungere una decisione equa che avvia l’Unione Europea su un percorso ambizioso ma costo-efficiente”. E il presidente di turno del Consiglio dell’Unione Matteo Renzi? Distratto o forse tutto sommato disinteressato.
IL PACCHETTO “20-20-20”
Riavvolgiamo per un secondo il nastro. Nel ribadire l’obiettivo strategico di limitare l’aumento della temperatura media globale a 2°C al di sopra del livello pre-industriale, il Consiglio europeo, approvava il 7-8 marzo 2007 il cosiddetto pacchetto “20-20-20”, che prevedeva due obiettivi vincolanti da raggiungere entro il 2020: la riduzione delle emissioni di gas-serra del 20 per cento per tutta la EU27 rispetto ai livelli del 1990 (equivalente a -14 per cento rispetto al 2005) e l’aumento del 20 per cento della quota minima di energia da fonti rinnovabili. Il target di aumento del 20 per cento dell’efficienza energetica restava un obiettivo “aspirational”, cioè non vincolante. Gli impegni del pacchetto venivano poi tradotti in un insieme di direttive, emanate nel 2009, che tra l’altro prevedevano la specificazione di target di riduzione delle emissioni e di aumento delle fonti rinnovabili per ciascun paese membro, che fossero ovviamente coerenti con l’obiettivo del 20 per cento fissato a livello comunitario. Più per la mano data dalla crisi economica che ha depresso i consumi di energia – probabilmente l’unico aspetto positivo di questa orribile recessione – che non per vera e determinata volontà politica, i target paiono a portata di mano. Secondo l’Eurostat, fatti 100 i milioni di tonnellate di CO2 equivalente della UE nel 1990, nel 2013 eravamo a quota 82,14, non lontano dal target relativo alle emissioni pari a 80 nel 2020 (-20 per cento). Secondo quanto affermato durante un incontro informale della Commissione ambiente della UE (la cosiddetta Envi), svoltosi ad Atene lo scorso 14 maggio, l’Unione ridurrà le proprie emissioni addirittura del 24,5 per cento nel 2020, facendo dunque meglio dell’obiettivo fissato nel 2007. Sempre secondo l’Eurostat, la quota di rinnovabile sui consumi finali di energia era pari al 14,1 per cento nel 2013 rispetto al target del 20 per cento al 2020. Quanto all’efficienza energetica, un’apposita direttiva emanata nel dicembre 2012 quantificava il consumo comunitario di energia nel 2020 in non più di 1483 Mtoe di energia primaria. Sempre secondo Eurostat, il consumo di energia primaria nel 2013 si attestava su 1583.5 Mtoe rispetto al target di 1483 al 2020.
E LA ROADMAP 2050
Gli obiettivi fissati per il 2020 rappresentano la prima tappa della marcia dell’Europa verso un’economia low-carbon, compatibile con un riscaldamento globale contenuto a +2°C. L’obiettivo finale è stato dall’Unione declinato in termini di una “roadmap” che porti a un taglio delle proprie emissioni dell’80 per cento rispetto ai livelli 1990 nel 2050. Nonostante la strategia non preveda impegni vincolanti per una scadenza così lontana, tuttavia indica le ulteriori e successive tappe intermedie di -40 per cento nel 2030 e -60 per cento nel 2040. È con queste premesse che il Consiglio europeo è giunto all’approvazione dei nuovi target per il 2030. Seguendo le indicazioni che la Commissione europea aveva dato nel gennaio scorso, al 2030 ne sono stati fissati tre: 1) la riduzione delle emissioni del 40 per cento rispetto ai livelli del 1990, 2) un aumento della quota di fonti rinnovabili al 27 per cento dei consumi di energia, 3) un aumento dell’efficienza energetica del 27 per cento (la Commissione aveva proposto il 30 per cento).
UNIONE EUROPEA POCO AMBIZIOSA
L’accordo si presta a una serie di considerazioni critiche. Anzitutto, l’entità degli impegni. Quelli fissati non si caratterizzano per essere ambiziosi, tutt’altro. Il mix rappresentato dalla perdurante depressione dei consumi di energia e dagli effetti permanenti delle misure di efficienza energetica, da un lato, e le misure di incentivo a supporto delle fonti rinnovabili, dall’altro, hanno indotto alcuni osservatori e centri di ricerca a notare come i target “40-27-27” verranno probabilmente raggiunti nel business-as-usual. In assenza, cioè, di nuove e ulteriori politiche. In realtà, la logica sottostante la fissazione di target vincolanti sta nel fornire un forte incentivo all’azione: gli obiettivi non sono fatti per essere centrati, ma avvicinati il più possibile; non devono essere irraggiungibili, ma devono essere ambiziosi. Difficile poi non ritenere indebolita la forza negoziale dell’UE al tavolo dell’accordo globale sul clima nell’appuntamento di Parigi 2015 alla Cop21, dove la retorica ufficiale prevede l’approvazione del nuovo accordo fatto di impegni a ridurre da parte di tutti i grandi emettitori, Cina, India e Stati Uniti inclusi. In secondo luogo, solo il target sulle emissioni contempla impegni vincolanti per ciascun paese membro, come già nel pacchetto “20-20-20”. A differenza del passato, invece, il target sulle rinnovabili sarà vincolante solo nell’aggregato, senza più obblighi per singolo paese. Diversi Stati, come il Regno Unito, a margine del Consiglio si sono dichiarati molto soddisfatti di questa impostazione. Noi non la condividiamo, ma al di là dei punti di vista, resta da chiarire come concretamente la Commissione tradurrà l’affermazione secondo cui l’obbiettivo comunitario sarà soddisfatto “attraverso chiari impegni decisi dagli stessi Stati membri che dovrebbero essere guidati dalla necessità di raggiungere collettivamente il target europeo e che dovrebbero basarsi su ciò che ogni Stato membro dovrebbe realizzare in relazione al proprio target per il 2020”. Quanto sia possibile o probabile centrare un target aggregato con impegni volontari/indicativi dei singoli Stati membri, i quali “rispettino pienamente la loro libertà nel determinare il proprio mix energetico”, non è dato sapere. Certo è che oggi se un paese non soddisfa il proprio obbiettivo per il 2020 incorre in sanzioni da parte della Commissione. Domani resterà forse la carota, ma di certo mancherà il bastone. Questo riduce la garanzia che lo stesso target comunitario venga raggiunto. In terzo luogo, l’accordo sul pacchetto energia e clima 2030 prevede un voto unanime. Ciò ha attribuito un potere di interdizione eccessivo ai singoli paesi. L’esito dell’accordo ha quindi delle facce precise impresse su di esso. La Polonia (sostenuta dagli altri paesi del “blocco di Visegrad”: Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania), fortemente dipendente dal carbone, ha preteso significative compensazioni per non porre il veto al target sulle emissioni. Il Regno Unito ha insistito per non avere target nazionali sulle rinnovabili per ostentare la non ingerenza dell’UE nella propria politica energetica nei confronti dell’Ukip e di euroscettici vari. La Germania ha scelto di non far valere il suo peso negoziale e il suo spiccato favore per obbiettivi vincolanti più ambiziosi, forse fregandosi le mani nell’attesa di sostituirsi all’intera UE nel conseguire quel vantaggio competitivo che la green economy e le nuove tecnologie pulite assicureranno. E l’Italia, presidente di turno? Già da tempo il nostro ministro dello Sviluppo economico aveva fatto pubblicamente conoscere la sua propensione per impegni che non danneggino la competitività della nostra industria. Tradotto: obiettivi poco ambiziosi sulle emissioni, mentre sulle rinnovabili abbiamo già dato con quei benedetti costosissimi sussidi. In sintesi, gli interessi nazionali hanno prevalso e il compromesso che è scaturito ha prodotto un risultato ufficialmente lodato da molti leader, ma sicuramente inferiore alle aspettative di molti osservatori e soprattutto insufficiente rispetto a ciò che è necessario e urgente fare. Il pacchetto energia e clima non ha solo l’obbiettivo di contribuire a contenere il riscaldamento globale. Serve anche a ridurre la dipendenza energetica, che è un problema tutto europeo (e anche molto italiano); serve per conseguire e consolidare una leadership nei settori molto dinamici delle nuove tecnologie verdi; serve per potere staccare quel dividendo socio-economico di nuove attività produttive, nuova occupazione, nuovi sbocchi commerciali all’estero che possono svolgere un’importante funzione anticiclica. Questo processo di transizione è epocale e irreversibile. L’Europa poteva e doveva fare di più.
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Confucius
Come al solito, ogni paese dell’UE persegue i propri interessi di bottega e gli obiettivi si scelgono dopo un “mercato delle vacche” simile a quello del deficit italiano (0,1 %; no!, 0,5 %; no!, 0,3%; d’accordo per 0,25%!). Che gli obiettivi siano riduttivi mi sembra coerente con il fatto che l’Europa si avvia ad essere fortemente ridimensionata come potenza economica a livello mondiale. E’ quindi inutile “fare i Pierini” quando i veri responsabili dell’incremento della CO2 (USA, Cina ed India in primis) fanno orecchie da mercante ad ogni sollecitazione alla riduzione delle emissioni e quando gli impegni presi ai vari summit sull’ambiente sono relativi al 2050, anno nel quale nessuno dei sottoscrittori sarà più in attività (ammesso che sia ancora vivo). Quanto al fatto che l’obiettivo del 20-20-20 sia coerente con un aumento della temperatura globale inferiore a 2 °C, mi piacerebbe sapere a quale modello matematico la UE abbia fatto riferimento ed a quale anno risalga, visto che la comunità scientifica non è ancora unanime sulla teoria che i gas serra di produzione antropica siano effettivamente la causa dell’incremento della temperatura globale (pare che le sonde abbiano registrato un incremento della temperatura media anche su Marte, dove sicuramente non ci sono emissioni antropiche!). Non vorrei si ripetesse quanto già accaduto con i modelli economici, dove ci si è impiccati al valore di deficit del 3 % senza sapere di preciso in base a quale ragionamento sia stato scelto.
christian
A mio avviso, una delle informazioni più chiare che si può trarre da questo accordo è un ulteriore allontanamento, dei singoli paesi della comunità europea, da una visione ed uno spirito comunitario. Ovviamente alcuni paesi hanno un interesse a gestire il proprio mix energetico in una visione anche strategica, cosa che l’Italia non ha (quasi) più fatto dalla morte di Mattei, mentre si perde l’occasione di stimolare l’innovazione ed il perseguimento di una migliore efficienza energetica (ovvero, alla fine, economica).
L’Europa non “rinuncia alle grandi ambizioni”, l’Europa non può più avere grandi ambizioni se continua su questa strada. politiche ed obiettivi comuni necessitano anche sforzi comuni che siano equamente ricompensati.
a mio avviso avrebbe dovuto, ma non ha potuto e non potrà fare di meglio in futuro.
Claudio B
Concordo con gli autori che l’accordo è poco ambizioso, però devo ammettere che lo ritengo sensato. Ci sono infatti due criticità:
(1) da più di 10 anni l’UE cerca di essere frontrunner nel ridurre le emissioni e sperare di essere seguita da gli altri. I risultati sono stati molto molto scarsi. La strategia ha perso di credibilità e forse non ne vale la pena. Sappiamo tutti che i cambiamenti climatici si evitano solo e soltanto con un accordo con Cina e Stati Uniti.
(2) c’è davvero troppa incertezza su quale sia l’entità dell’effetto positivo di queste politiche in termini di occupazione e PIL. Se per creare qualche decina di migliaia di nuovi posti di lavoro in un settore ne dobbiamo affossare altri, allora dobbiamo chiarirci le idee. Il punto cruciale è che non è vero che le tecnologie “verdi” sono il futuro e quelle “marroni” sono il passato. Lo sono solo in termini di politica ambientale. Le politiche climatiche devono allora essere giustificate per quello che sono: politiche contro i cambiamenti climatici, che hanno importanti cobenefit ambientali ma incerti cobenefit economici.