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La riforma Dini vent’anni dopo

Dall’approvazione della riforma delle pensioni, le condizioni macroeconomiche sono drasticamente cambiate. Forse, tutto il sistema andrebbe ripensato, con una riduzione dei contributi per i più giovani, per favorire la ripresa di economia e occupazione. Il ruolo della previdenza complementare.

LA RIFORMA DEL 1995
Per la prima volta dal 1995 il tasso di rivalutazione del montante contributivo per l’anno 2014 avrà segno negativo (-0,1927 per cento).
Sia chiaro, un sistema pensionistico deve essere valutato nel lungo periodo e dal 1995 il tasso di crescita medio annuo del montante è stato del 3,5 per cento, non così male per una pensione pubblica esente dai rischi di fallimento del mercato. Tuttavia, a pochi mesi dal ventesimo genetliaco della legge Dini, è tempo di chiedersi se non siano necessari alcuni aggiustamenti strutturali. E, in particolare, dobbiamo domandarci se la sostenibilità finanziaria garantita dalla riforma del 1995 sia compatibile con la sua sostenibilità sociale oppure se quel meccanismo di aggiustamento implicito non rischi di provocare la rottura del patto intergenerazionale alla base del funzionamento del sistema. Alla luce delle mutate condizioni macroeconomiche, sarebbe saggio ripensare il sistema operando una riduzione del costo del lavoro in favore dei più giovani per facilitare una ripresa dell’occupazione e della crescita economica di lungo periodo sostenuta, anche con adeguati incentivi, da una ripresa degli investimenti nell’economia italiana attraverso lo sviluppo della previdenza complementare privata.
L’ADEGUATEZZA DELLE PRESTAZIONI PUBBLICHE
L’introduzione del metodo di calcolo contributivo garantisce la sostenibilità finanziaria della spesa pensionistica legandola al tasso di crescita del prodotto interno lordo (Pil); tuttavia, ha un costo pesante, perché l’onere del riaggiustamento necessario a mantenere l’equilibrio del conto previdenziale è a carico degli assicurati, anziché della fiscalità generale, rischiando così di mettere fortemente in pericolo la sua sostenibilità sociale.
Cerchiamo di capire perché.
Quando fu progettata la riforma del sistema pensionistico, il legislatore non poteva immaginarsi quello che da lì a poco sarebbe accaduto e fu data per scontata sia la crescita economica che quella dell’occupazione. Si ritenne che fosse ragionevole pensare che il sistema economico potesse crescere a un ritmo dell’1,5 per cento in termini reali e che la produttività del lavoro potesse aumentare a ritmi equivalenti a quelli registrati in quegli anni (circa il 2 per cento all’anno), che le quote distributive del reddito tra la lavoro e capitale rimanessero costanti e che, pertanto, nel lungo periodo le retribuzioni individuali e la massa salariale potessero beneficiare di tali andamenti.
In questo contesto, con la riforma, il legislatore si pose l’obiettivo di garantire un tasso di sostituzione della pensione rispetto all’ultima retribuzione equivalente a quello garantito dal vecchio sistema retributivo con 37 anni di contribuzione (61,7 per cento) ma, a differenza del sistema precedente, solo a partire da una certa età, pari a 62 anni.
Il risultato, considerate le variabili demografiche di nati-mortalità come date, veniva così a dipendere da tre variabili cruciali: il tasso di crescita individuale del salario reale, quello del Pil reale di lungo periodo e il livello dell’aliquota contributiva. Fissate esogenamente le prime due, rispettivamente al 2 per cento e all’1,5 per cento, la terza dovette essere elevata al livello del 33 per cento per ottenere il livello obiettivo di copertura che si era posto il legislatore: ecco perché l’aliquota contributiva pensionistica fu inizialmente elevata dal 27,57 al 32 per cento con la distinzione iniziale tra aliquota di computo (33 per cento) e di finanziamento (32 per cento), facendole poi coincidere a decorrere dal 2007.
Da allora il mondo economico è profondamente cambiato e quelle ipotesi di crescita dei salari reali e del Pil appaiono oggi fortemente irrealistiche. Il tasso di crescita di lungo periodo della nostra economia è su valori prossimi allo zero. I tassi crescita della produttività del lavoro da una media del 2,2 per cento nel periodo 1980-1995 sono scesi anch’essi a circa lo zero negli anni successivi. Anche il mercato del lavoro è profondamente cambiato e la quota del lavoro atipico sul totale è crescita dal 5 per cento dell’inizio degli anni Novanta a circa il 12-13 per cento del totale. E, pertanto, immaginare carriere regolarmente retribuite per 37 anni a 62 anni di età oggi appare clamorosamente irrealistico.
Se oggi ricalcolassimo i tassi di sostituzione della pensione rispetto all’ultima retribuzione (tavola 1) utilizzando ipotesi più credibili sulla crescita economica di lungo periodo (+0,5 per cento all’anno), sulla prevedibile ripresa della dinamica della produttività del lavoro e, quindi, delle carriere retributive individuali (+2,5 per cento), sulla lunghezza delle carriere lavorative (27 anni) nonché delle conseguenze delle dinamiche demografiche sui livelli dei coefficienti di trasformazione (quelli attualmente utilizzati sono mediamente inferiori dell’11 per cento rispetto agli originali del 1995), ci accorgeremmo che i tassi di copertura delle pensioni al raggiungimento della nuova età pensionabile non sarebbero più dell’entità ipotizzata al tempo della riforma, ma scenderebbero drasticamente a livelli di dubbia sostenibilità sociale se rapportati al pesante carico contributivo sopportato dai lavoratori per il loro finanziamento. Infatti, come si vede dai dati riportati nella tavola 1, il tasso di copertura previsto sotto le ipotesi sopra riportate risulterebbe all’età di 66 anni pari al 39,2 per cento dell’ultima retribuzione e inferiore di quasi il 37 per cento rispetto all’importo originariamente ipotizzato (61,7 per cento).
È pensabile che tutto ciò non sia messo in discussione dalle nuove leve del mercato del lavoro? Non dobbiamo dimenticare che il corretto funzionamento di un sistema di finanziamento a ripartizione, in cui gli attivi sostengono il costo delle prestazioni erogate ai non attivi, si regge sul consenso. Quando l’incertezza sulla stabilità delle regole e dei criteri di calcolo delle pensioni diventa tale da avanzare dubbi circa l’adeguatezza delle prestazioni che domani saranno percepite dai contribuenti di oggi, quando i giovani sono sempre di meno e con minori redditi, quando il peso degli oneri fiscali e contributivi diventa così elevato da diventare insopportabile, allora il rischio di un conflitto generazionale con il ripudio degli impegni presi a favore dei più anziani può diventare molto concreto. Un esempio? La proposta, ipotizzata in un primo momento, e poi ritirata dal Governo Renzi, di ridurre gli importi delle pensioni più elevate, deve essere interpretata come un primo segnale di ripudio parziale degli impegni presi a suo tempo nei confronti degli attuali pensionati.
RICONCILIARE IL SISTEMA PENSIONISTICO CON IL MERCATO DEL LAVORO
Come si può uscire da questa situazione? Come a suo tempo proposto da Mirko Cardinale, l’idea è quella di una riduzione shock del cuneo fiscale e contributivo attraverso la diminuzione, ad esempio, di otto punti percentuali dell’aliquota finanziamento pensionistica per i soggetti più giovani. Il costo? Se si applicasse ai lavoratori dipendenti con meno di 40 anni, Cardinale stima che il mancato gettito contributivo dovrebbe aggirarsi approssimativamente intorno ai 20-22 miliardi di euro all’anno (più basso e pari a 7,5 miliardi secondo Mauro Marè e Fabio Pammolli in un loro lavoro del 2013).
Si tratta di una somma rilevante, ma bisogna tener presente che un calo del costo del lavoro di tale entità consentirebbe di ridurre gli effetti depressivi sui livelli di occupazione (e di produzione) che hanno comportato lo sviluppo abnorme di forme contrattuali diverse da quella del lavoro dipendente, nel tentativo da parte delle imprese di far fronte a oneri contributivi più contenuti. Nel valutare i costi di un’operazione del genere, bisogna considerare i benefici che si esplicherebbero nel corso del tempo. Innanzitutto, a una riduzione del livello della contribuzione corrisponderebbe una diminuzione della spesa pensionistica futura. Inoltre, la riduzione del costo del lavoro comporterebbe un maggior livello dell’occupazione e della produzione. Nel lungo periodo, a seguito di una maggiore propensione a impiegare lavoro qualificato, che in questo momento non trova sbocchi occupazionali, anche la dinamica della produttività del lavoro ne beneficerebbe. La conseguente maggiore crescita del sistema economico consentirebbe di migliorare rispetto alla situazione attuale le condizioni per la sostenibilità finanziaria del sistema di welfare nel suo complesso. I lavoratori, per far fronte all’ulteriore riduzione della copertura pensionistica che deriva dalla diminuzione dell’aliquota pensionistica dal 33 al 25 per cento, dovrebbero destinare lo sgravio ottenuto in parte, o del tutto, alla costruzione di un piano pensionistico privato a capitalizzazione privata.
Il ritorno del sistema economico su un sentiero di crescita e di maggiore produttività consentirebbe di recuperare la perdita di copertura pensionistica che deriva dalla riduzione delle aliquote, a cui si aggiungerebbe la copertura pensionistica ottenuta con i versamenti alla previdenza privata senza neanche avere la necessità di ipotizzarne un maggior rendimento rispetto a quella pubblica. Solo a titolo esemplificativo, e senza la pretesa di realismo delle ipotesi sottostanti di diversità di rendimento tra la previdenza pubblica e quella privata, si riportano nella tavola 2 i risultati di una simulazione che mostra come potenzialmente sia possibile recuperare gli effetti della riduzione dell’aliquota pensionistica di finanziamento della previdenza obbligatoria pubblica.
Insomma, se c’è da fare uno sforzo per ottenere una deroga ai vincoli comunitari sul deficit di bilancio, nell’interesse degli stessi partner europei, sarebbe saggio indirizzarlo per ottenere il via libera al finanziamento di un intervento strutturale come quello della riduzione del cuneo contributivo che aiuterebbe l’Italia a riportarsi su un sentiero di crescita, senza il quale sarà impossibile rispettare gli impegni assunti con il fiscal compact.

Leggi anche:  Sulle pensioni la manovra fa i conti con la realtà

Tavola 1

tav1

Tavola 2

tav2

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Leggi anche:  Pensioni: l'eterno nodo della flessibilità in uscita

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22 commenti

  1. Silvestro De Falco

    Però sapevate che la popolazione stava invecchiando e che il metodo a ripartizione non avrebbe retto.

  2. Ma la riforma Dini non è stata mai applicata se solo nel 2012 con la Fornero si è passati al contributivo pro-rata.
    Il default dell’Italia deriva dalle scelte scellerate della politica che ancora difende le pensioni gonfiate dei sindacalisti.
    https://it.wikibooks.org/wiki/Il_conflitto_pensionistico/Le_pensioni_gonfiate

  3. Massimo Gandini

    I cosiddetti diritti acquisiti stanno uccidendo il nostro povero paese (come diceva De Gaulle , l’Italia non è un paese povero ma un povero paese). Forse il diritto acquisito è ineccepibile dal punto di vista del cavillo giuridico ma è ripugnante dal punto di vista morale, un eccezionale creatore di ingiustizia e iniquità grazie al quale i giovani devono sempre pagare per tutti. E’ paradossale l’esistenza della gestione separata Inps, il cui forte attivo permette il pagamento delle pensioni attuali dei privilegiati protetti dal diritto acquisito, mentre concederà solo poche briciole a chi stà ora contribuendo con aliquote sempre piu pesanti. La previdenza italiana è una tragedia.

    • Luigi di Porto

      Ha ragione, prima di dire che la riforma Dini è statq un errore la si doveva applicare a TUTTI indistintamente anche ai vecchi pensionati. Così abbiamo invece un gruppo di cittadini pieni di privilegi che si mangiano i diritti di chi viene dopo godendo di trattamenti per cui non hanno versato il corrispettivo di contributi. Questo si che è anticostituzionale.

      • GiorgioIV

        Intanto l’aliquota contributiva che mi è stata da sempre applicata sulla retribuzione è stata del 33% (ovvio, solo i lavoratori dipendenti hanno e hanno da sempre avuto un’aliquota così alta). Poi mi si dovrebbe spiegare come mai le pensioni in essere degli italiani, calcolate per la maggoior parte ancora con il metodo retributivo che si spaccia per un privilegio, sono tra le più basse d’Europa. Non è che ciò derivi dal fatto che esse sono state calcolate (con il metodo retributivo) su salari e stipendi tenuti particolarmente bassi (se confrontati con gli omologhi europei)? E venire a dire ora che andava applicato a tutti il metodo contributivo, tenuto conto della storia pregressa, sa di meschinità. Averlo saputo prima, ci saremmo battuti per salari più alti (alla faccia della pace sindacale) e avremmo potuto costruire con questi una pensione integrativa, ora cbiaramente non più possibile. Sarebbe quindi il caso di farla finita con questa storiella che sa molto di demagogia. Infine, perché non si parla mai della tassazione fiscale delle pensioni in essere? Perché in Italia si applicano più o meno le stesse aliquote dei lavoratori attivi, in media tra il 27 e ill 38%, mentre ad esempio in Germania, sono in media del 10% e poco di più in Francia (trascurando il fatto che sono state calcolate, si a pure con il metodo contributivo, du salari ben più alti che da noi)?

  4. Giuseppe Dell'Osso

    Nel “ripensare” il nuovo sistema pensionistico andrebbero anche riconsiderati gli obiettivi del sistema. Finora si è voluto assicurare il proseguimento, oltre l’età di pensionamento, delle condizioni di vita esistenti nel periodo lavorativo, considerando la pensione il principale strumento per garantire il reddito in età avanzata. Questo obiettivo, esplicito nel vecchio sistema, è rimasto anche con la riforma Dini, con tutti i problemi che l’articolo evidenzia. In effetti, sarebbe possibile considerare la pensione una specie di “rete di sicurezza” che garantisce una sorta di minimo, da completare con strumenti individuali. Il costo potrebbe così ridursi e il contributo verrebbe a pesare solo su una fascia di retribuzione, lasciando esenti alcune fasce (per esempio, le più basse e le più alte). Sarebbe così possibile anche agire sul costo del lavoro, favorendo ad esempio i più giovani, o gli aumenti oltre certi limiti, ecc.
    Non è impossibile porsi nuovi obiettivi e trovare le giuste ed efficaci soluzioni, piuttosto che far quadrare a fatica obiettivi irrealistici e condizioni demografiche, economiche e del mercato del lavoro che non possiamo modificare.

    • Massimo Antichi

      Non sono d’accordo; ma non perché la Sua sia una posizione sbagliata. In fondo, più o meno, quella che Lei propone è la scelta di sistema che è stata fatta in Gran Bretagna. Personalmente, sono ancora legato ad una visione della società paternalistica: il Welfare State, appunto. E guardi che può ancora funzionare.
      Però, e sono qui d’accordo con Lei, bisogna osare, avere il coraggio di cambiare. Non pietrificarsi dalla paura di fronte alle sfide che ci attendono. Cordiali saluti

  5. Alice Crosilla

    Sembra una favola

  6. Amadeus

    La simulazione è palesemente irrealistica perchè l’ipotesi di un tasso di crescita del salario W=2.5% all’anno non è compatibile con l’ipotesi di crescita del PIL Y=0.5%, in caso contrario la quota del reddito da lavoro sul PIL arriverebbe a livelli insostenibili in pochi anni. Il problema vero – e non detto – è che probabilmente quel tasso di crescita dei salari e dei contributi (che sono una percentuale degli stessi) è necessario per tenere in piedi il sistema che rimane a ripartizione, laddove – in presenza di un continuo invecchiamento della popolazione – sarebbe necessario e prudente un accumulo parziale di risorse per garantire il pagamento dei montanti contributivi individuali che la riforma Dini ha creato.

    • Massimo Antichi

      Non è così. W non è la massa salariale che é W*N. La mia ipotesi, discutibile certo, è che W aumenti e che N diminuisca(certamente non è quello che sta accadendo) e le poche occasioni di lavoro vedranno selezionare dal mercato del lavoro i soggetti a maggiore produttività. Se ciò non accadesse potremmo anche chiudere la baracca e migrare altrove. Comunque grazie, commento intelligente. Cordiali saluti

  7. Massimo Antichi

    Per il sig. Dell’Osso: Non sono d’accordo; ma non perché la Sua sia una posizione sbagliata. In fondo, più o meno, quella che Lei propone è la scelta di sistema che è stata fatta in Gran Bretagna. Personalmente, sono ancora legato ad una visione della società paternalistica: il Welfare State, appunto. E guardi che può ancora funzionare.
    Però, e sono qui d’accordo con Lei, bisogna osare, avere il coraggio di cambiare. Non pietrificarsi dalla paura di fronte alle sfide che ci attendono.
    Per il sig. Gandini: non è scagliandosi gli uni contro gli altri che ne usciremo. Se perdiamo i valori della solidarietà la nostra non sarà più una società. In una cosa, però, ha ragione: per troppo tempo sono stati negati i diritti dei più giovani.
    Cordiali saluti

    • Silvestro De Falco

      Nel campo della previdenza il Welfare State non esiste più, è morto con il passaggio al metodo contributivo e l’abolizione dell’integrazione al minimo.
      Constatare che un partecipante alla riforma non abbia ancora maturato la consapevolezza dei suoi atti è sorprendente.
      Comunque, sono d’accordo sulla necessità di andare avanti ma la sua proposta fa acqua.

  8. Maria Rosaria Di Pietrantonio

    Quando fu progettata la riforma del sistema pensionistico qualunque legislatore sano di mente avrebbe potuto capire che da li a poco le cose sarebbero cambiate e non si capisce perchè fu data per scontata la crescita economica….etc…ma come è possibile? Allora, come ora, non si investiva sui giovani laureati(tranne le situazioni familistiche) nè nelle infrastrutture , nè nella riforma di professioni a carattere medioevale (come la mia) .Questo legislatore distratto non solo non è stato in grado di guardare la realtà del paese, di concepire una riforma equa per tutti i cittadini, ma ha probabilmente dovuto tenere conto in primis dei sindacati grandi e piccoli protettori di settori statali parastatali regionali ministeriali e cosi via, ognuno a tirare acqua al suo mulino o mulinello, qualcosina per tutti…poi esaurite le corporazioni varie ha iniziato le sforbiciate a quelli non protetti da nessun santo in paradiso.Le cose negli anni non sono cambiate , le pensioni degli intoccabili sono tuttora le stesse e se soltanto si” dice” di cambiale apriti cielo, si parla subito di diritti acquisiti, i quali diritti valgono solo per alcuni e non per altri ovviamente.

  9. Freddy

    La cosa triste che ancora oggi non si spiegano i motivi della riforma Dini di non applicare pro rata il contributivo per tutti e non solo per chi non aveva 18 anni di contributi al 31/12/1995. Forse per salvaguardare i soliti noti?? E poi in un sistema a ripartizione riducendo la contribuzione chi pagherebbe le laute pensioni dei pochi. Politici, sindacati, prefessori, dirigenti ed altri magnati. Questi hanno il diritto acquisito e quindi intoccabili, i poveri giovani senza lavoro e purtroppo anche senza pensioni.

  10. Antonio Grizzuti

    Interessante. Se non erro è la stessa e identica proposta che Fornero e Castellino formularono 15 anni fa nel libro la Riforma del Sistema Previdenziale Italiano

  11. Vito

    Appare evidente che quando si percorre la strada del sistema contributivo, rispetto a quello retributivo, si può ragionevolmente scontare una riduzione del tasso di sostituzione, a parità di condizioni. Questo soprattutto nel caso Italiano laddove, la pensione retributiva era calcolata non già su tutte le retribuzioni ma sulla media delle ultime (normalmente le più elevate). Lo stesso meccanismo di rivalutazione del montante contributivo (non già svalutazione ma questo è un altro discorso), inoltre, sposta sul singolo “il rischio del mercato” con una logica sconosciuta nel sistema retributivo che aveva aliquote di rendimento definite. Tali questioni erano in qualche modo conosciute posto che la legge 335/95 si intitolava “riforma del sistema previdenziale obbligatorio e complementare” e, quindi considerava quest’ultima come elemento necessario per la costruzione di un reddito pensionistico adeguato. Il problema sta nel fatto che la previdenza complementare ha due limiti evidenti: la volontarietà e una “costruzione” tutta pensata per il lavoro dipendente e, quindi, con le stesse criticità del sistema obbligatorio (vedi discontinuità o bassa capacità di reddito utilizzabile). Sul primo aspetto, peraltro, pesa una inadeguata conoscenza degli effetti delle riforme pensionistiche che, seppure argomento che può sembrare banale, ha un suo rilevante peso. Sul secondo forse si potrebbe valutare un intervento di sostegno regionale (ad esempio in caso di disoccupazione o maternità al di fuori del rapporto di lavoro) dando contezza anche alle norme costituzionali in materia (art 117).
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  12. Vito

    Appare evidente che quando si percorre la strada del sistema contributivo, rispetto a quello retributivo, si può ragionevolmente scontare una riduzione del tasso di sostituzione, a parità di condizioni. Questo soprattutto nel caso Italiano laddove, la pensione retributiva era calcolata non già su tutte le retribuzioni ma sulla media delle ultime (normalmente le più elevate). Lo stesso meccanismo di rivalutazione del montante contributivo (non già svalutazione ma questo è un altro discorso), inoltre, sposta sul singolo “il rischio del mercato” con una logica sconosciuta nel sistema retributivo che aveva aliquote di rendimento definite. Tali questioni erano in qualche modo conosciute posto che la legge 335/95 si intitolava “riforma del sistema previdenziale obbligatorio e complementare” e, quindi considerava quest’ultima come elemento necessario per la costruzione di un reddito pensionistico adeguato.  Il problema sta nel fatto che la previdenza complementare ha due limiti evidenti: la volontarietà e una “costruzione” tutta pensata per il lavoro dipendente e, quindi, con le stesse criticità del sistema obbligatorio (vedi discontinuità o bassa capacità di reddito utilizzabile). Sul primo aspetto, peraltro, pesa una inadeguata conoscenza degli effetti delle riforme pensionistiche che, seppure argomento che può sembrare banale, ha un suo rilevante peso. Sul secondo forse si potrebbe valutare un intervento di sostegno regionale (ad esempio in caso di disoccupazione o maternità al di fuori del rapporto di lavoro) dando contezza anche alle norme costituzionali in materia (art 117)

  13. Massimo Antichi

    La questione dell’obbligatorietà dell’adesione alla previdenza complementare è stata molto dibattuta. La conclusione, è che porrebbe problemi di garanzia di ultima istanza che inevitabilmente dovrebbe essere fornita dalla Stato.
    L’informazione previdenziale, in un contesto di volontarietà gioca un ruolo fondamentale. Su questo sito la c.d. questione della “busta arancione” è stata più volte segnalata. Su quest’ultimo tema ci saranno importanti e positive novità da parte dell’INPS. L’ultimo tema che segnala, effettivamente, dovrebbe essere affrontato e risolto dal legislatore. Cordiali saluti

  14. Piero

    Qualunque ulteriore modifica alle pensioni dovrebbe essere preceduta dall’abolizione totale dei privilegi di casta (vitalizi ai quarantenni, stipendi faraonici dei dirigenti ministeriali di prima fascia, ecc.)

  15. giuseppe vella

    La legge 335/95 o riforma Dini, con il passaggio dal retributivo al contributivo, ha rivoluzionato i principi previdenziali fino ad allora esistenti. Prima del 1995 la previdenza si reggeva sul presupposto che tre lavoratori offrivano il loro contributo affinché si potesse dare reddito certo ad un pensionato.Il sistema contributivo è, invece, un piano di accumulo che ogni lavoratore fa durante l’arco della vita lavorativa. Il numero dei pensionati è svincolato dal numero dei lavoratori. Ebbene, ognuno pensa per se e non è più in vigore alcun principio solidaristico. Il montante accumulato è di proprietà dell’assicurato e dovrebbe essere gestito dall’ente di previdenza in nome del principio del salvaguardare un reddito certo fino alla fine della vita. Agli eredi, in caso di morte dell’assicurato prima dell’effettivo utilizzo della somma accantonata, dovrebbe essere garantita la parte di quanto accumulato e non goduto dal lavoratore. Cortesemente, potrebbe indicarmi dove il mio ipotetico ragionamento sbaglia? Grazie per la eventuale risposta.

  16. Emanuela Zucchetta Cafiero

    sempre pochi accenni alla riduzione della pensione di reversibilità, già ridotta al 60% e ulteriormente decurtata secundo la tabella F allegata alla legge 335/95 per cui se il coniuge superstite ha un reddito lordo superiore a 28.000,00 quel 60 diventa il 30%. Vi sembra costituzionale ? a me sembra un furto perchè pensione è salario differito, accantonato dal de cuius nella sua vita lavorativa. io mi sento, anzi sono derubata da questa legge!!

  17. Ludovico

    Riflessione condivisibile. Quando la casa brucia bisogna mettere in campo tutte le risorse, sia per spegnere l’incendio sia per rucistruirla con sistemi molto più tutelanti. Pertanto i diritti acquisiti (di tutti) andrebbero aboliti. Un diritto acquisito è la pensione in godimento, un diritto acquisito è anche la prescrizione sulle tasse evase. Con una differenza però che il primo ha un antefatto di legalità e il secondo di illegalitá. Quindi procediamo sia per le pensioni, anche dopo 40 anni di lavoro, con contributi e tasse pagate, sia con le dichiarazioni dei redditi, riaprendo quelle (di tutti) degli ultimi 40 anni.
    Chi possiede un patrimonio che non si giustifica in relazione alle dichiarazioni presentate o non presentate ( quindi frutto di evasione fiscale e corruzione o di altri crimini) sia obbligato a pagare ora per allora, con rivalutazioni, interessi e sanzioni. Se quanto si ricaverà non sarà sufficiente a ruequilibrare i conti dello Stato ( ma basterà) allora si netta pure mano ai diritti acquisiti kegalmente.

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