Si ritorna a parlare di privatizzazione di Fs. Il governo sembra intenzionato a vendere una quota di minoranza per fare cassa e non cambiare la struttura dell’azienda. Meglio sarebbe privatizzare solo alcuni servizi ad esempio l’alta velocità. Vediamo perché
Il tema della privatizzazione delle Ferrovie dello stato è diventato centrale con la designazione del nuovo presidente Marcello Messori, che se n’è occupato fino al momento in cui ha rimesso le deleghe alla proprietà a fine 2014. La causa di questa remissione è già stata analizzata in un precedente articolo e risiede nell’esistenza di due diverse filosofie di privatizzazione dell’azienda: la cessione di una quota dell’intera Holding Fsi o la cessione di parti di essa in funzione della loro capacità di stare sul mercato o del loro essere o meno funzionali al servizio ferroviario. La prima via permette di fare cassa rapidamente, cedendo un parziale monopolio verticalmente integrato a privati, mentre la seconda sarebbe più complessa, ma permetterebbe di conservare alcune funzioni pubbliche in mano pubblica (come la proprietà della rete) oltre che una più efficace liberalizzazione a vantaggio dei viaggiatori.
Nel frattempo, è diventato chiaro che la strada che il governo e il ministero dell’Economia (ma forse non il ministro Lupi, ultimamente silenzioso sulla vicenda) hanno in mente è la prima: vendere una quota di minoranza, realizzare qualche miliardo di euro e non toccare nemmeno un bullone nell’azienda, garantendosi la pace sociale e la tranquillità dell’intero comparto. A ben vedere, però, questa strada sembra difficilmente praticabile per una serie di motivi tecnici, che verranno certamente evidenziati dall’advisor finanziario Bank of America Merrill Lynch, la cui nomina è stata appena annunciata.
UNA PRIVATIZZAZIONE IMPROBABILE, FORSE IMPOSSIBILE
La vendita di una quota della Holding è apparentemente semplice: viene ceduta una quota di minoranza (si è parlato del 40 per cento; Corriere Economia, 2 febbraio) e si realizza un introito per lo stato. Dietro a questa scelta, preferita dall’azienda nella sua quasi interezza, c’è l’argomento che non si può separare la rete perché altrimenti si perdono le sinergie con i servizi e si aumentano i costi. Ma questa “privatizzazione” presenta qualche scoglio tecnico, che sta cominciando ad emergere (sul Sole-24ore e più recentemente su Panorama, 4 febbraio), e potrebbe addirittura risultare impossibile o pericolosissima. Fsi ha un capitale sociale di 38.790 milioni di euro (al giugno 2014). Quasi 39 miliardi, una cifra enorme (Poste, con un fatturato più che triplo, ha un capitale di 1,3 miliardi). Il motivo è che essa possiede e iscrive a bilancio non solo i beni strumentali, come i treni, e altre proprietà valorizzabili, come gli scali inutilizzati, ma -attraverso la sua controllata Rfi- anche l’intera rete ferroviaria, cioè i binari (anche se in realtà, questo è dovuto al fatto che, storicamente, gli investimenti sulla rete venivano finanziati con aumenti di capitale). In questa bizzarra situazione, ereditata dal passato, Fsi (attraverso Rfi) è a tutti gli effetti proprietaria dell’intera rete (per effetto della legge del 17 maggio 1985, n. 210 e della legge del 23 dicembre 1998, n. 448) che la stessa Rfi, società del gruppo, ha poi ricevuto dallo stato in concessione per 60 anni (con l’atto di concessione del 2000). In altre parole, Rfi ha in concessione dallo stato la rete di cui è in realtà proprietaria. Ne consegue che, oggi, i binari e le stazioni sono pubblici solo perché Fsi è pubblica al 100 per cento. Dato questo assetto, se un privato volesse acquistare Fsi per il 40 per cento dovrebbe sborsare oltre 10 miliardi. Chi mai sarebbe disposto a investire tanto, per ottenere utili risibili in rapporto all’investimento? Probabilmente nessuno. Dunque sarebbe necessario separare i binari dalla rete, che è esattamente quanto lo zoccolo duro dell’azienda non vuole fare, senza contare che bisognerebbe approfondire cosa comporti questa scelta per la concessione in essere. Al governo stanno quindi studiando alcune varianti. Quella recentemente individuata (di cui Panorama dà le prime anticipazioni) è di ri-trasferire i binari allo stato (o ad una società di capitale da lasciare pubblica) e privatizzare senza di essi. Ma anche questo artificio presenta un paio di problemi: Fsi, svuotata del suo enorme capitale, perderebbe la possibilità di finanziarsi come si è finanziata finora e probabilmente anche di ripagare i debiti sin qui contratti. D’altra parte, se la proprietà passasse a una nuova società, essa avrebbe un enorme capitale, ma nessuna entrata, essendo i binari concessi a Rfi a titolo gratuito (gli attuali pedaggi di Rfi, infatti, non comprendono la remunerazione degli investimenti fatti per i binari che gestisce). A questo si aggiunga, si legge ancora su Panorama, che la pubblicizzazione dei binari sarebbe limitata alla rete tradizionale. O, se vogliamo vederla dall’altro verso, che la rete alta velocità sarebbe privatizzata assieme a tutto il resto (treni, servizi, immobili, impianti, personale, etc.). La rete, cioè un monopolio naturale, venduta in blocco insieme ai servizi, effettuati in condizioni di mercato e in concorrenza con Ntv-Italo e con altri. La cessione di una quota della Holding non sembra dunque una strada facilmente praticabile, oltre a far prevedere severi problemi regolatori.
ALTRE STRADE
Ammesso che si riesca a trovare una modalità per staccare la proprietà dei binari, appare chiaro che la modalità di privatizzazione di Fsi prescelta dal ministero dell’Economia serve solo a fare soldi, grazie alla mancata separazione della gestore della rete (Rfi) dal principale operatore ferroviario nazionale e regionale (Trenitalia). Al prezzo giusto, probabilmente, un buon affare per chi la compra, trattandosi di una situazione di integrazione verticale che ha effetti in termini di contendibilità se non addirittura di ostacolo alla concorrenza, venendo meno l’ambiguità oggi possibile grazie al fatto che Rfi non deve fare utili.
Vi sono però altre strade per privatizzare, forse meno redditizie per lo stato o più articolate da raggiungere, ma più sicure, fattibili e soprattutto più favorevoli a cittadini e viaggiatori. I punti chiave sono:
1. La proprietà della rete deve rimanere pubblica. Non per un vezzo collettivista, ma perché vi sono buoni motivi economici, primo tra tutti il fatto che gli investimenti sono e saranno sempre, in larga misura, decisi e pagati dallo stato.
2. Una progressiva separazione delle funzioni del gruppo, mantenendo ove possibile le sinergie, ma essendo pronti a rinunciarvi in qualche caso, se queste sono ostacolo all’efficienza del settore. Una strada (come si sta provando a fare nel Regno Unito e i Francia) è ad esempio quella di mantenere la manutenzione della rete in capo agli operatori regionali, cioè suddividere Rfi in sottoreti efficienti, ma mantenendo centralizzate alcune funzioni, quali l’allocazione delle tracce, l’informazione all’utenza, la programmazione, etc.
3. Il distacco e la vendita di alcune società del gruppo. In primo luogo, quelle non funzionali (reti elettriche, comunicazioni, proprietà immobiliari non funzionali, etc.) e in secondo luogo quelle che si ritiene efficiente porre sul mercato (ad esempio le merci o le Frecce o parte degli Intercity o i servizi bus sostitutivi, per non parlare di BusItalia).
Riassumendo, vi sono ottime ragioni perché la rete rimanga pubblica e in ogni caso è difficile immaginare che qualcuno possa spendere miliardi solo per acquistare binari privi di ricavi netti al pedaggio attuale (a meno di non voler fare salire il pedaggio al full cost e quindi ridurre il traffico). Una privatizzazione parziale, ad esempio dei soli servizi alta velocità o di parti non funzionali, permetterebbe invece di ottenere risorse, una struttura ferroviaria più snella, senza minacciare la socialità del servizio e soprattutto senza cedere monopoli naturali a privati.
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Gianni
Niente di nuovo sotto il cielo: privatizzare i profitti con i servizi e socializzare le perdite con la gestione della sola rete, che richiede investimenti e manutenzioni…Liberismo spurio venduto come il whiskey scadente agli indiani. Spiegatemi la ratio economica del perché dovremmo pagare di tasca nostra decine di miliardi di euro per costruire la nuova linea TAV da Torino a Lione e per i 54 Km di TAV Terzo Valico dei Giovi…
Angelo
Perfettamente d’accordo con Gianni. il Contratto di Programma (Parte Investimenti) ha finanziato progetti per circa 94 miliardi di euro nel periodo 2007-2011; per il periodo 2012-2016 sono stanziati circa 99 miliardi. Questo senza contare le spese per manutenzioni. In tutto questo, FSI ha un EBITDA margin intorno al 25% (le ferrovie tedesche hanno intorno al 15, quelle francesi anche meno).
Ma così è facile: le spese le paga il contribuente, gli introiti se li intasca l’azienda. Che bravi… e che bravi anche questi Professori…
Guido
Grazie per l’interessante articolo! Vorrei fare un solo appunto: il sistema “regionale” inglese non può essere preso ad esempio come un sistema snello ed efficiente. Là i treni costano il doppio che da noi, sono fatiscenti e lenti e si rompono spesso. Anche gli inglesi, che sono meno frignoni di noi italiani, non fanno che lamentarsi della privatizzazione della Tatcher. La mia esperienza viene dall’aver vissuto 6 anni nel sud-est dell’Inghilterra. Credetemi, ora che sono tornato in Italia mi lamento molto meno di Trenitalia!
Andy Mc Tredo
Confermo la situazione appena descritta, Per non parlare degli incidenti, molto più frequenti – soprattutto nei primi tempi della privatizzazione-.
Sergio
A me sembra che si “suoni sempre lo stesso violino scordato”. Quando parlano di privatizzare finisce sempre che il “pacchetto buono” viene venduto ai privati i quali possono lucrare ampiamente mentre la “pattumiera” rimane pubblica con costi e incombeze varie. Ad oggi non mi sembra che le privatizzazioni già fatte abbiano migliorato proprio nulla sia nei servizi che nei costi, anzi, sono peggiorati.
Francesca
Andrebbe privatizzata Trenitalia in tempi brevi, non fra 20 anni, perché non lo fanno?
Claudio Brenna
Noto che in tutti gli articoli sul tema si tende ad escludere o a non trattare l’opzione di privatizzare anche la parte di società che svolge servizi non a mercato.
Pare che nulla osti – da un punto di dell’ottimo regolatorio e di struttura del mercato, oltre che di fattibilità finanziaria e rapidità delle procedure – alla privatizzazione (anche totale) dell’intera Trenitalia SpA. Essa, infatti, è una società come tante altre che traggono parte dei ricavi da attività esercite in regime di libero mercato, e parte dei ricavi da attività regolate e sottoposte a OSP attraverso un normale Contratto di Servizio. Che differenza c’è tra Trenitalia e un’impresa automobilistica privata che esercisce TPL per conto di una provincia o di un comune e, in più, effettua noleggi di bus?
Ma se anche le divisioni Trenitalia dovessero essere societarizzate e vendute separatamente, cosa osterebbe alla privatizzazione della Regionale + DPNI che effettua IC non a mercato? Se il quadro regolatorio prevede Contratti di Servizio affidabili (con o senza gara) a diverse imprese – siano esse pubbliche o private -, è ancora necessario che l’impresa esercente rimanga pubblica?
Esiste qualche pregiudizio di natura economia o solo “politica”?
Claudio Brenna
Concordo con la tesi degli autori ma pongo un’ulteriore questione.
Noto che in tutti gli articoli sul tema si tende ad escludere o a non trattare l’opzione di privatizzare anche la parte di società che svolge servizi non a mercato.
Pare che nulla osti – da un punto di dell’ottimo regolatorio e di struttura del mercato, oltre che di fattibilità finanziaria e rapidità delle procedure – alla privatizzazione (anche totale) dell’intera Trenitalia SpA. Essa, infatti, è una società come tante altre che traggono parte dei ricavi da attività esercite in regime di libero mercato, e parte dei ricavi da attività regolate e sottoposte a OSP attraverso un normale Contratto di Servizio. Che differenza c’è tra Trenitalia e un’impresa automobilistica privata che esercisce TPL per conto di una provincia o di un comune e, in più, effettua noleggi di bus?
Ma se anche le divisioni Trenitalia dovessero essere societarizzate e vendute separatamente, cosa osterebbe alla privatizzazione della Regionale + DPNI che effettua IC non a mercato? Se il quadro regolatorio prevede Contratti di Servizio affidabili (con o senza gara) a diverse imprese – siano esse pubbliche o private -, è ancora necessario che l’impresa esercente rimanga pubblica?
Esiste qualche pregiudizio di natura economia o solo “politica”?
Claudio Brenna
Concordo con la tesi degli autori ma pongo un’ulteriore questione.
Noto che in tutti gli articoli sul tema si tende ad escludere o a non trattare l’opzione di privatizzare anche la parte di società che svolge servizi non a mercato.
Pare che nulla osti – da un punto di dell’ottimo regolatorio e di struttura del mercato, oltre che di fattibilità finanziaria e rapidità delle procedure – alla privatizzazione (anche totale) dell’intera Trenitalia SpA. Essa, infatti, è una società come tante altre che traggono parte dei ricavi da attività esercite in regime di libero mercato, e parte dei ricavi da attività regolate e sottoposte a OSP attraverso un normale Contratto di Servizio. Che differenza c’è fra Trenitalia e un’impresa automobilistica privata che esercisce TPL per conto di una provincia o di un comune e, in più, effettua noleggi di bus?
Ma se anche le divisioni Trenitalia dovessero essere societarizzate e vendute separatamente, cosa osterebbe alla privatizzazione della Regionale + DPNI che effettua IC non a mercato? Se il quadro regolatorio prevede Contratti di Servizio affidabili (con o senza gara) a diverse imprese – siano esse pubbliche o private -, è ancora necessario che l’impresa esercente rimanga pubblica?
Esiste qualche pregiudizio di natura economia o solo “politica”?
Paolo Beria
@ClaudioBrenna
Buongiorno e grazie per il commento.
Sebbene non ne parliamo in dettaglio, effettivamente nulla osta a privatizzare l’incumbent su sottomercati in perdita. Io sono convinto del fatto che almeno parte dei treni del servizio universale di LP, se prodotti ad un costo anche marginalmente inferiore, potrebbero non essere in perdita. E, in ogni caso, rimane sempre l’opzione del contratto di servizio in gara.
@Sergio
Naturalmente il “come” è fondamentale in un processo di privatizzazione, anche più del “cosa”. Mantenere pubblica la rete non significa x forza mantenere pubblica la parte inefficiente, ma quella meno contendibile.
@Guido
Il sistema inglese è appunto in corso di revisione rispetto all’assetto attuale. L’ipotesi è di riportare la manutenzione delle linee ai soggetti concessionari che effettuano il servizio regionale (non la proprietà). Le tariffe, invece, in buona parte dipendono dalle politiche definite dai concedenti e non direttamente dal livello di efficienza del produttore. Credo che in Italia non si sceglierebbe comunque di liberalizzare i livelli tariffari regionali nè di eliminare i sussidi.