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Ma nel Regno Unito i privati perdono il treno

L’annuncio della nazionalizzazione di Northern Rail è un’ulteriore crepa nel sistema ferroviario britannico, che resta in bilico tra chi pensa che la gestione debba tornare nelle mani del governo e chi invece pensa che il problema sia proprio il governo.

Trent’anni di privatizzazioni

La politica dei trasporti è forse uno dei temi meno attraenti e meno discussi in ambito politico, eppure, quando qualcosa va storto, l’impatto sulla quotidianità dei cittadini e sulle finanze pubbliche è enorme. Ne sa qualcosa il Regno Unito, che negli anni Novanta, sotto il governo di John Major, decise di privatizzare l’intero apparato ferroviario, fino ad allora gestito dalla società pubblica British Rail. Venne quindi istituito un sistema di concessioni (franchise), volto a incoraggiare la competizione tra operatori ferroviari, con conseguente miglioramento degli standard per i passeggeri, abbassamento dei prezzi – o, quantomeno, miglior rapporto qualità-prezzo – e gestione più efficace di costi e rischi operativi. In altre parole, un sistema che avrebbe dovuto favorire tutti: il governo, i cittadini-utenti e le compagnie pronte a investire nelle infrastrutture britanniche.

Quasi 30 anni dopo, l’intero sistema ferroviario sembra sull’orlo di una contro-rivoluzione.

Un sistema in crisi da tempo

Sostanzialmente, il sistema prevede che il governo dia ad alcuni operatori ferroviari il diritto di gestire una tratta specifica per un certo periodo di tempo. Gli operatori devono seguire le direttive governative e sono tenuti a rispettare standard che vengono costantemente monitorati, come la puntualità, il numero di cancellazioni, il numero di reclami e così via.

Il sistema, però, scricchiola: il costo dei biglietti è salito di quasi il 50 per cento negli ultimi 10 anni, contro un aumento salariale del 23 per cento nello stesso periodo. Negli ultimi tre anni, il numero di viaggi effettuati con abbonamento è sceso del 12,5 per cento, da 712 milioni di sterline nel 2015-2016 a 625 milioni nel 2019. Nel 2018, dopo un cambiamento sostanziale degli orari, l’intero sistema sembrò essere sull’orlo del collasso: migliaia di treni vennero cancellati e i servizi ci misero settimane a riprendere regolarmente.

Ciò che indica ancora più chiaramente la gravità della crisi è forse la nazionalizzazione di due delle più grandi concessioni ferroviarie negli ultimi due anni, la Northern Rail e la East Coast Rail, che insieme gestivano un totale di più di 120 milioni di viaggi all’anno. Circa due settimane fa, l’annuncio di Grant Shapps, ministro dei Trasporti del governo di Boris Johnson, ha ufficializzato la nazionalizzazione della prima, che connette più di 500 stazioni a nord di Derby ed è la più grande franchise dell’Inghilterra del Nord per lunghezza complessiva. A questo si aggiunge la reale possibilità che anche South Western Rail possa venire nazionalizzata, dopo essere andata in perdita per più di 140 milioni di euro. Il tutto mentre il governo si appresta ad analizzare i risultati di una commissione indipendente sulle ferrovie britanniche (). Il suo presidente, Keith Williams, anticipandone le principali conclusioni, ha sostenuto che le ferrovie britanniche hanno bisogno di una rivoluzione.

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Cosa è andato storto?

Difficile identificare chiaramente cosa è andato storto. I risultati della National Rail Survey di TransportFocus dimostrano come il tracollo di Northern Rail coincida con i più bassi livelli di soddisfazione dei passeggeri nel Regno Unito e come, in generale, più della metà dei passeggeri non sia soddisfatta dal prezzo dei biglietti rispetto al servizio ricevuto.

Eppure, sarebbe semplicistico addossare le colpe del fallimento al sistema di concessioni o alla compagnia proprietaria di Northern Rail, Arriva, che – come molte compagnie che operano all’interno del sistema ferroviario britannico – è di un altro paese, la Germania, e fa capo a Deutsche Bahn. Arriva infatti gestisce i 70 milioni di viaggi effettuati con Chiltern Railways e CrossCountry, due tra i migliori operatori quanto a soddisfazione dei passeggeri e rendimento. Il punto è che nel giro di affari delle concessioni di infrastrutture, tanto in Italia quanto nel Regno Unito, il rischio operativo delle società è notevolmente ridotto, specialmente se lo si confronta con le “normali” attività di mercato.

Un altro problema è che la forte presenza del governo ha deresponsabilizzato le compagnie e aumentato i livelli decisionali, irrigidendo il sistema. Il Department for Transport, per esempio, decide il livello dei prezzi, la percentuale di utili che deve ricevere e gli orari dei treni che le compagnie ferroviarie devono impegnarsi a rispettare, se vogliono ottenere il diritto di concessione. Questo porta le società a partecipare all’appalto presentando cifre per lo più gonfiate e stimando numeri di passeggeri in continuo aumento. Allo stesso tempo gli operatori privati non possono risolvere problemi infrastrutturali, dato che i binari sono sotto la gestione di Rail Network di proprietà pubblica.

Nazionalizzare o privatizzare?

Il tema della nazionalizzazione è oggi particolarmente scottante nel Regno Unito. Da una parte c’è chi, come il Labour di Jeremy Corbyn, sostiene che si è dato vita a un sistema troppo frammentato e disattento ai bisogni dei passeggeri e dunque l’unica soluzione sia quella di un ritorno alla nazionalizzazione dell’intero sistema ferroviario. Dall’altra parte, c’è chi sostiene che l’entrata delle compagnie private nel sistema ferroviario abbia portato diversi benefici, primo fra tutti l’aver raddoppiato il numero totale di passeggeri, dai 735 milioni nel 1994-1995 a 1,7 miliardi nel 2018-2019. La risposta quindi non sarebbe “più stato” ma anzi “meno stato”, che dovrebbe cancellare il sistema di concessioni in favore di un altro che dia un maggiore grado di libertà alle compagnie. Un esempio potrebbe essere una concessione che preveda la gestione dei proventi della vendita dei biglietti da parte del governo, che dovrebbe poi “pagare” le compagnie in base al raggiungimento di obiettivi predefiniti. Allo stesso tempo, però, le compagnie dovrebbero poter avere voce in capitolo per quanto riguarda gli investimenti nelle infrastrutture fondamentali, ora gestite da Network Rail, e sarebbe auspicabile la creazione di un regolatore super partes che possa fungere sia da controllore che da garante. Forse allora, i passeggeri bistrattati potranno tirare un sospiro di sollievo.

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Una via d’uscita dal lavoro precario

  1. Roberto boschi

    Ci sonio studi comparativi delle realtà ferroviarie europee?
    Vista la diversità delle situazioni in ogni Paese, c’è un qualche studio che analizzi i risultati di ciascuna realtà e li metta a confronto?
    Forse solo alla luce di una analisi comparata potremmo avvalorare la tua idea di “più Privato”, non pensi?
    Ti ricordo che mettere i “monopoli naturali” ( e le ferrovie sono tali) completamente in mano ai privati può essere molto molto critico
    Grazie per la risposta

  2. Ermes Marana

    Un biglietto della GWR da Oxford a Londra puó costare dalle 5 alle 43 sterline, secondo quello che dice l’algoritmo. Mentre nel resto d’Europa i prezzi per un viaggio in treno locale di 1 ora e mezzo sono fissi, o con differenze di prezzo che raramente superano il 10%.
    Ma il problema sono i “lacci e lacciuoli”!
    Voialtri liberisti avete uno strano modo di considerare cause ed effetto.

  3. lucilio cogato

    Ricordo solo che le BR furono create, ultime tra le grandi compagnie statali, proprio perché le due compagnie che allora gestivano in competizione tra loro le remunerative linee (costa orientale e costa occidentale) tra Londra e la Scozia, fecero fallimento a causa di inefficienze dovute a incontrollata eccessiva competizione. Chi conosce la storia delle ferrovie sa poi che i grandi progressi tecnici e organizzativi avutisi in campo ferroviario nel corso del XX secolo, che hanno consentito alle ferrovie di sopravvivere alla concorrenza di auto e aereo, hanno avuto impulso solo da paesi dotati di una sola principale azienda ferroviaria a totale controllo statale: Germania, Francia, Giappone, Italia.
    Quello di “monopolio naturale” non è un concetto astratto o una teoria economica alla moda che vale, come molte teorie economiche, solo per spiegare un periodo storico che mai si ripeterà, ma da parte di un nucleo più forte, “duro” di concetti economici in quanto legato, appunto, alla “natura” materiale, fisica e geometrica, geografica, “tecnica” di un sistema infrastrutturale a rete. Dall’egoismo del fornaio e del calzolaio come diceva Smith, possiamo ricavare pane e scarpe. Ma con le infrastrutture, benché non manchino casi importanti di “calzolai” che sono anche “ferrovieri”. la questione non è così immediata. Su questi argomenti economia e finanza devono procedere di stretto accordo con la tecnica

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