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Dal Tfr al fondo che non tutela solo la vecchiaia

Se investito nella previdenza complementare, il Tfr può diventare la premessa per una riduzione dei contributi sociali e del costo del lavoro. Serve però un cambio di rotta rispetto al passato e una visione più ampia del ruolo che i fondi pensione possono svolgere in un moderno sistema di welfare.
LE PENSIONI DI DOMANI
Con il sistema contributivo, i lavoratori dipendenti che iniziano in giovane età, con carriere lavorative lunghe – soprattutto se caratterizzate da dinamiche salariali di basso profilo – andranno in pensione con trattamenti ben superiori a quelli garantiti dal sistema retributivo, ovvero anche più dell’80 per cento. A parità di età al pensionamento, chi inizia invece a lavorare più avanti negli anni, con carriere discontinue e un reddito che parte da valori bassi, avrà invece una pensione contributiva che garantirà anche meno del 50 per cento delle ultime retribuzioni.
Per tutti, poi, la possibilità di rimanere al lavoro anche dopo i 66 anni porterà evidenti vantaggi: ogni anno in più significa più contributi, più capitalizzazione e un calcolo più favorevole della pensione spettante.
Tavola 1 – Analisi di sensitività dei tassi di sostituzione lordi della previdenza pubblica – Rapporto fra pensione e ultimo reddito da lavoro – (Fonte Rgs, Le tendenze di medio lungo periodo del sistema pensionistico (1))
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  1. La dinamica della retribuzione/reddito individuale è stata ipotizzata pari al tasso di variazione nominale della retribuzione lorda per unità di lavoro dipendente, per il periodo storico, e pari al tasso di variazione reale della produttività per occupato, per il periodo di previsione a partire dal 2015. Per il 2014, i valori del tasso di inflazione, del Pil e della retribuzione lorda per unità di lavoro dipendente, utilizzata come retribuzione di riferimento, sono desunti dal quadro macroeconomico elaborato per l’Aggiornamento del programma di stabilità 2014.
  2. L’età di pensionamento è uguale al requisito minimo di vecchiaia per i soggetti assunti prima dell’1/1/1996 (regime retributivo e misto) e pari al requisito minimo previsto per il pensionamento anticipato (3 anni inferiore al requisito di vecchiaia) per i soggetti assunti successivamente a tale data (regime contributivo).
  3. L’età di pensionamento è uguale al requisito minimo di vecchiaia in tutti e tre i regimi (retributivo, misto e contributivo).

 
Alla luce di quanto sta avvenendo nel mercato del lavoro è del tutto evidente che la quota di lavoratori con carriere lunghe e ininterrotte è destinata a rappresentare una minoranza, mentre ben più consistente è la schiera dei “precari”, ovvero dei soggetti con 25-30 anni di contribuzione – a cui la previdenza pubblica garantirà in futuro tassi di sostituzione (rapporto fra prima pensione e ultimo reddito lordo) al di sotto del 50 per cento, anche in presenza di un’età al pensionamento non lontana dai 70 anni. Se il calcolo viene fatto al netto del prelievo fiscale e contributivo a carico del lavoratore, i valori del tasso di sostituzione si innalzano all’incirca del 30 per cento, portandosi mediamente oltre il 60 per cento.
In un quadro come questo, il rilancio dell’occupazione attuato attraverso uno sgravio contributivo, come recentemente ripreso da Massimo Antichi (LINK), non può che aggravare i futuri tassi di sostituzione degli attuali “precari”, riducendoli indicativamente di un quarto – se associati a un passaggio dell’aliquota contributiva dal 33 al 25 per cento.
GLI OSTACOLI ALLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE
Come è stato correttamente osservato – soprattutto in questo scenario di decontribuzione – la previdenza complementare può consentire un sensibile innalzamento dei tassi di sostituzione. La conclusione appare ancora più valida alla luce dei positivi rendimenti conseguiti in questi anni dai fondi pensione, ben superiori sia a quelli del Tfr sia ai tassi di capitalizzazione della previdenza pubblica, legati all’andamento del Pil.
Non si può però negare che in Italia la previdenza complementare ha avuto uno sviluppo effettivo ben lontano da quello che all’inizio si pronosticava: bassi tassi di adesione, pochi giovani e poche donne, irregolarità della contribuzione, scelta di strumenti previdenziali condizionata più dall’offerta che da una razionale valutazione da parte della domanda. A questo si dovrebbe poi aggiungere l’effetto associato all’eccessiva attenzione posta dai soggetti promotori degli strumenti pensionistici – e dallo stesso legislatore – sul tema dei vantaggi fiscali. La scelta di esentare la contribuzione alla previdenza complementare garantisce un vantaggio immediato e ben percepibile, tanto più elevato quanto maggiore è l’aliquota marginale dell’imposta personale sul reddito: l’esito finale è che l’incentivo si concentra soprattutto sui soggetti più abbienti; un lavoratore part-time o un precario a basso reddito finisce invece per avere solo vantaggi fiscali marginali.
Ad ampliare questi effetti concorre poi la norma della riforma Maroni del 2004, che prevede di tassare le prestazioni della previdenza complementare con un’aliquota proporzionale del 15 per cento, che scende fino al 9 per cento per chi contribuisce per 35 anni. La combinazione di esenzione dei contributi e di una tassazione fissa e di basso importo delle rendite crea dunque un vantaggio economico che si concentra sulle categorie con una vita lavorativa/contributiva più lunga e redditi da pensione pubblica elevati: l’esatto opposto del profilo di “giovane precario” dalla carriera incerta.
UNA TUTELA PIÙ EFFICACE
Per rendere percorribile la strada della decontribuzioni alla previdenza pubblica serve un rilancio della previdenza complementare che ponga al centro dell’attenzione le generazioni più giovani e gli effettivi assetti del mercato del lavoro. La proposta potrebbe essere articolata secondo le seguenti linee:

  • adozione del sistema di tassazione della previdenza complementare che preveda l’esenzione della contribuzione e dei rendimenti, ma con le prestazioni tutte incluse nella base imponibile dell’imposta personale sul reddito – modello prevalente a livello europeo;
  • riconoscimento dello sgravio di 8 punti percentuali dei contributi Inps, divisi fra lavoratore (5 punti visto che rinuncia nell’immediato al Tfr?) e datore di lavoro (3 punti?), ma subordinato alla regolare contribuzione in favore di un fondo pensione (Tfr + quote contrattuali), l’adesione al quale rimarrebbe dunque volontaria;
  • possibilità per i lavoratori con carriere più lunghe e regolari – e di riflesso una pensione pubblica maggiore – di utilizzare il patrimonio della previdenza complementare come integrazione del proprio reddito, qualora decidano di ritirarsi anticipatamente oppure passino a un rapporto part-time nella fase finale della carriera lavorativa;
  • più in generale, sganciare il godimento della pensione complementare dal diritto alla pensione pubblica.
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Se poi si favorisse la contribuzione ai fondi pensione in giovane età, incentivando fiscalmente i versamenti anche da parte di “nonni e parenti” – oltre che dei genitori – la previdenza complementare potrebbe garantire un patrimonio già a 25-30 anni di età.
Con pochi interventi legislativi si potrebbe anche trasformarla in uno strumento di tutela lungo tutto l’arco della vita: non solo la pensione, ma anche lo studio, la disoccupazione o l’avvio di una attività produttiva piuttosto che di una famiglia.
 

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  1. Silvestro De Falco

    Proposta sensibile, che va nella giusta direzione per quanto riguarda l’abbassamento dei contributi, ma che non risolve la contraddizione con una delle ragioni dello scarso successo dei fondi pensione, cioè “la scelta di strumenti previdenziali condizionata più dall’offerta che da una razionale valutazione da parte della domanda”.
    Ecco, una previdenza complementare limitata ai soli fondi pensione impone l’accettazione supina di uno strumento che un lavoratore non capisce bene e che non stimola la ricerca di forme di risparmio più adatte al singolo o comunque ai tempi. Molto meglio un conto individuale di previdenza, che consente al singolo di investire anche solo in buoni postali o in BTP.
    Ad ogni modo, per completezza, è deludente il continuo riferimento a dati eccessivamente ottimistici – quali quelli pubblicati dalla Ragioneria di Stato – per far risultare vantaggiose le pensioni erogate con il metodo contributivo.
    Infatti, se anche quelle condizioni fossero realistiche, i versamenti effettuati da un lavoratore per 38 anni si tradurrebbero in un montante – quindi comprese le rivalutazioni – a fine carriera pari a 26-27 anni di stipendio.
    Considerando un’aspettativa di vita di 15 anni, a 70 anni, e il 70% dell’ultimo reddito, il lavoratore oramai in pensione riceverebbe in tutto 10 anni di stipendio.

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