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L’ambiguità del bonus in busta paga

Ridurre il cuneo fiscale che grava sui salari attraverso trasferimenti oppure il taglio delle imposte può avere effetti molto diversi. Se il governo avesse scelto di rivedere il profilo delle detrazioni avrebbe dato un segnale più chiaro. Provvedimento a favore dell’equità, ma anche della crescita.

Aumento di spesa o riduzione delle imposte?
Il bonus degli 80 euro ai lavoratori dipendenti è un trasferimento o una riduzione delle imposte? Secondo il governo vale la seconda interpretazione, anche se la prima sarebbe più corretta in base ai criteri di classificazione vigenti. Si potrebbe dire che la questione sia di scarso interesse, perché ciò che conta sono i soldi netti in tasca ai contribuenti, ma è una tesi errata. Ridurre il cuneo fiscale che grava sui salari mediante trasferimenti o riduzione delle imposte può avere effetti molto diversi.
In primo luogo, se il governo è stato costretto a confutare il dato sulla crescita della pressione fiscale, non si comprende perché abbia scelto la strada del bonus. Un’alternativa era rimodulare il profilo delle detrazioni per lavoro dipendente, come avevamo suggerito in un nostro precedente articolo, che determina aliquote marginali effettive elevate appena sopra la no-tax area. Il sistema delle aliquote fiscali sul reddito e delle detrazioni influisce sulle scelte di lavoro, soprattutto per effetto delle aliquote marginali, cioè la percentuale di un euro addizionale di reddito che bisogna lasciare al fisco.
Prima dell’introduzione del bonus degli 80 euro, il nostro sistema era sostanzialmente caratterizzato da tre aliquote marginali effettive: una al 27 per cento per ogni euro addizionale di reddito sopra gli ottomila euro, una seconda al 31 per cento tra gli otto e quindicimila euro e una terza al 41 per cento sopra i ventottomila euro. Una rimodulazione del sistema di detrazioni per il lavoro dipendente avrebbe consentito ai lavoratori a basso reddito di portare a casa una cifra prossima a 80 euro e di abbassare le aliquote marginali effettive.
La riforma degli 80 euro ha sicuramente il beneficio della semplicità – importante dal punto di vista mediatico – ma invece di semplificare la struttura delle aliquote marginali ha ulteriormente aumentano gli effetti distorsivi sulle scelte di lavoro. Infatti ha lasciato inalterate le aliquote marginali fino a ventiquattromila euro e ha quindi introdotto una nuova aliquota marginale pari addirittura al 63 per cento per poi nuovamente scendere al 41 per cento per redditi sopra i ventottomila euro (per maggiori dettagli è possibile fare riferimento a Baldini, Giarda e Olivieri).
Patti poco chiari tra Stato e contribuente
Ma non è solo un problema di aliquote marginali. Una delle ragioni per cui lo Stato italiano ha un cattivo rapporto con il cittadino-contribuente è che i patti non sono chiari e, soprattutto, non sono stabili nel tempo.
Se il governo ci lascia più soldi in tasca per effetto di un trasferimento unilaterale non connesso al “patto fiscale”, è più difficile credere che si tratti di una decisione vincolante e valida per il futuro. Un trasferimento “estemporaneo” crea incertezza, anche perché non ha solide motivazioni. Perché un bonus solo ai lavoratori dipendenti sotto una determinata soglia di reddito? Se si tratta di contrasto alla povertà, non dovrebbe essere esteso ai pensionati o ai lavoratori autonomi, o agli incapienti? E se si decidesse di estenderlo a una platea più ampia di cittadini, non si porrebbe il problema di come trovare le risorse per finanziarlo? Non sarebbe forse necessario ridurne l’importo? Cedere a queste richieste significherebbe, però, aprire nuove falle sul fronte della spesa corrente.
L’imposizione implicita sul lavoro (gettito effettivo sui redditi da lavoro in rapporto alla loro consistenza) in Italia è ampiamente sopra la media europea, mentre l’imposizione implicita sui consumi è relativamente modesta. Più volte le autorità internazionali (Europa, Fmi) hanno chiesto all’Italia di adottare misure utili a ridurre la pressione fiscale sul lavoro e imprese e allargare la base imponibile.
Se il governo avesse impiegato le risorse del bonus per rivedere il profilo delle detrazioni, avrebbe raggiunto due obiettivi importanti. Per prima cosa, non ci sarebbero stati dubbi sul fatto che è impegnato seriamente sul fronte della riduzione della pressione fiscale sul lavoro, invece che su quello dell’aumento delle spese. In secondo luogo, poteva giustificare meglio la misura, dipingendola come ciò che effettivamente è: un primo passo verso la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro dipendente, cioè un provvedimento a favore dell’equità (perché concentrato sui lavoratori poveri), ma anche della crescita, perché utile ad aumentare l’offerta e la domanda di lavoro.
In questo caso, il provvedimento non dovrebbe essere classificato nel novero delle misure che fanno parte del welfare e neanche essere inteso come una manovra congiunturale, cioè finalizzata a stimolare la domanda e, quindi, un passaggio legislativo limitato alla fase recessiva.
Il dilemma interpretativo sulla natura del bonus non è solo di natura contabile.

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Il Punto

  1. LORETA

    Io sono vedova e percepisco 230 euro mensili di pensione di reversibilità del marito deceduto: per poco supero il limite imposto per poter usufruire del bonus, pur avendo come unico reddito il mio lavoro di dipendente comunale. Tutte le altre mie colleghe ne beneficiano, pur essendo sposate con il coniuge dirigente, o artigiano o piccolo industriale o lavoratore sia autonomo che dipendente, e avendo quindi un reddito familiare decisamente buono e sicuramente superiore al mio. Perché Renzi non ha valutato allora il reddito familiare anziché quello del singolo? Così sembra una presa in giro

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