La Commissione europea ha pubblicato un Libro verde che traccia le linee per la costruzione del mercato unico dei capitali. Molta attenzione è dedicata a Pmi, start-up e progetti infrastrutturali a lungo termine. Trascurato, invece, il ruolo degli intermediari e quello delle autorità di vigilanza.
Il Libro verde della Commissione
Building a Capital Markets Union (“Costruire un’Unione dei mercati dei capitali”): con il Libro verde così intitolato, nel febbraio scorso la Commissione europea ha dato avvio a un ambizioso progetto per favorire l’investimento nelle imprese europee e realizzare un effettivo mercato unico dei capitali. Particolare attenzione è dedicata a Pmi, start-up e progetti infrastrutturali a lungo termine. Il programma dei lavori prevede tre mesi di procedura di consultazione e successivo piano per realizzare i pilastri di un mercato unico pienamente funzionante entro il 2019.
Gli obiettivi considerati nel Libro verde si articolano lungo alcune direttrici di fondo: il miglioramento dell’accesso al mercato dei capitali, l’aumento e la diversificazione delle fonti di finanziamento, l’incremento dell’efficienza e dell’efficacia dei mercati. Alcuni interventi sono considerati prioritari. Nelle parole della Commissione, si tratta di ridurre le barriere di accesso ai mercati dei capitali, ampliare la platea di investitori in Pmi, aumentare standardizzazione e trasparenza nelle cartolarizzazioni, favorire lo sviluppo degli investimenti a lungo termine e incrementare il mercato europeo del collocamento privato.
Pmi e asimmetrie informative
Tra le numerose questioni sollevate dal Libro verde, tre aspetti ci sembrano particolarmente rilevanti.
Decisiva appare, anzitutto, l’individuazione dello strumento adeguato per la gestione delle importanti asimmetrie informative che connotano l’investimento in Pmi e start-up.
Il focus del Libro verde sul prospetto informativo sembra, infatti, trascurare gli elementi che, nella realtà, tendono a determinare le scelte di investimento: fiducia, reputazione, relazioni di lungo periodo, da una parte; limiti cognitivi e scelte irrazionali dell’investitore, dall’altra. Più promettente sembra, piuttosto, un approccio che si concentri sul ruolo de facto non sostituibile degli intermediari, valorizzando le dinamiche relazionali proprie del rapporto tra sistema bancario e Pmi.
In questa prospettiva, la cartolarizzazione dei crediti si presenta come uno strumento in grado di integrare i benefici di un approccio “relazionale” con la logica del mercato dei capitali: consente di “socializzare” il patrimonio informativo sulle Pmi accumulato negli anni dal sistema bancario e, nel contempo, permette una maggiore efficienza nell’allocazione del risparmio.
I gravi limiti del modello originate to distribute emersi con la crisi finanziaria, gli ostacoli derivanti dalla disciplina prudenziale e fiscale, nonché la necessità di consentire adeguati rendimenti per chi cartolarizza crediti di buona qualità, impediscono, naturalmente, soluzioni a buon mercato. Una intelligente impostazione di product governance, controlli di vigilanza sulla qualità del credito e scelte illuminate di politica fiscale e prudenziale potrebbero essere, tuttavia, un primo piano d’azione sul quale ragionare.
Il ruolo degli intermediari
Il ruolo essenziale degli intermediari rileva, ulteriormente, sul versante della tutela dell’investitore.
Anche in questo caso, alquanto trascurato dal Libro verde, la presa d’atto del normale rapporto fiduciario esistente tra investitore e intermediario può suggerire strategie normative che vadano oltre il consueto approccio di disclosure. Le dinamiche fiduciarie portano, infatti, con sé la vulnerabilità di chi si fida e una conseguente posizione di potere per il destinatario della fiducia. Di qui la necessità di regole che gestiscano opportunamente tale asimmetria di potere, consentendo di salvaguardare la fiducia nel buon funzionamento del sistema. La disciplina in materia di assetti organizzativi e i criteri per valutare ex post l’operato degli intermediari sono il terreno più immediato dove giocare una simile partita.
La vigilanza
La recente esperienze della Unione bancaria suggerisce, infine, una speciale attenzione all’attuazione della disciplina. La capacità di un’autorità di supervisione unica di accelerare il processo per l’integrazione dei mercati è difficilmente contestabile dopo gli eventi degli ultimi mesi. Altrettanto evidenti sono, tuttavia, i rischi e le implicazioni distributive di una vigilanza unica che prescinda dalle peculiarità dei singoli contesti, culturali e di mercato.
Solo accennato nel Libro verde, il tema della convergenza della vigilanza risulta, quindi, cruciale. Una buona ipotesi da discutere potrebbe essere, in proposito, un modello di vigilanza adeguatamente informato al principio di sussidiarietà. In luogo della sostituzione delle competenti autorità nazionali con un’autorità di supervisione unica, potrebbe, in particolare, dimostrarsi più equilibrato un modello fondato su standard armonizzati e una forte della responsabilità dell’autorià nazionale nei confronti della vigilanza europea. Si eviterebbero così possibili forme di protezionismo regolamentare, presidiando, nel contempo, il rischio di deficit democratico o di scelte distributive troppo influenzate da alcuni Stati membri.
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