Una concessione dovrebbe implicare il trasferimento al concessionario di un rischio operativo. In Italia non è mai stato così per le autostrade. Ora il sistema rischia di estendersi alle infrastrutture ferroviarie. Eccesso di investimenti, direttiva Recast e la potente lobby ferroviaria europea.
Italia, il paese di Bengodi per i concessionari
La direttiva europea 23/2014 asserisce che una concessione deve implicare sempre il trasferimento al concessionario di un rischio operativo che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati, per fluttuazioni del mercato sul lato della domanda o per un’offerta non corrispondente alla domanda. La disciplina dell’aggiudicazione di concessioni non sarebbe giustificata se l’amministrazione garantisse sempre all’operatore un introito minimo e il recupero degli investimenti effettuati.
Per le autostrade v’è una differenza fondamentale tra tratte “nuove” o costruite di recente e tratte “storiche” già ampiamente ammortizzate. Per le tratte “nuove” il rischio è assai elevato, come evidenziato dalle vicende della Brebemi (Brescia-Bergamo-Milano) o della Asti-Cuneo, e in questi casi assistiamo ai tentativi degli investitori di scaricare le perdite allo Stato, in vari modi. Per le autostrade “mature”, dove i nuovi investimenti sono modesti rispetto agli introiti, ai concessionari viene in pratica garantita una buona (ottima) redditività grazie alla periodica revisione delle tariffe, talché ogni rischio è annullato. Se ne è avuta conferma nella recente esperienza: pur in presenza di un eccezionale calo del traffico di oltre il 10 per cento, nel 2012-13, i profitti delle concessionarie non sono diminuiti: le nostre concessionarie sono assai ben tutelate dal rischio operativo sul lato della domanda. Beneficiano di rilevanti rendite che per definizione, anche ignorando gli aspetti distributivi regressivi, generano una perdita di benessere collettivo.
Lo stesso Giovanni Castellucci, amministratore delegato di Autostrade per l’Italia e persona con la non comune dote della franchezza, ha dichiarato che l’Italia per i concessionari autostradali è il “paese di Bengodi”: non vi sono rischi reali, si può solo guadagnare.
Opere inutili e inutilizzate
Ora, questo regime garantistico e inefficiente, rischia di essere esteso anche alle infrastrutture ferroviarie.
È stata infatti recentemente approvata dal governo una direttiva europea per le ferrovie, nota come Recast, che è un grande passo indietro sulla strada della responsabilizzazione finanziaria dei concessionari di infrastrutture.
L’articolo 17 del provvedimento, al comma 1 recita: “(…) l’Autorità di regolazione dei trasporti definisce (…) tenendo conto dell’esigenza di assicurare l’equilibrio economico dello stesso,(…) il canone per l’utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria da parte del gestore”. In altre parole, neppure il gestore dell’infrastruttura ferroviaria, oggi pubblico ma in corso di privatizzazione parziale, potrà registrare perdite sui capitali investiti, con il rischio che possa scaricare le sue inefficienze sulle imprese che usano la ferrovia, quindi sugli utenti.
Ma il pericolo più verosimile è quello dell’over investment”, cioè della realizzazione, anche attirando capitali privati, di un eccesso di investimenti destinati a rimanere sottoutilizzati.
Per le ferrovie italiane è un processo già in corso, che ha visto la realizzazione a spese della collettività di opere molto costose e poco utilizzate, senza che lo Stato fosse mai chiamato a rendere conto di tali sprechi. Per averne una conferma, basta confrontare le reazioni, anche mediatiche, a opere autostradali poco utilizzate con quelle a tratte ferroviarie di costo dieci volte maggiore e altrettanto sottoutilizzate.
Un efficiente sistema di regolazione dei monopoli naturali, di qualsiasi natura siano, dovrebbe poter tutelare gli utenti e i contribuenti da ogni tipo di spreco, mentre la direttiva si muove in direzione esattamente opposta.
Il rischio maggiore ovviamente è che gli altri gestori di infrastrutture, pubblici o privati, chiedano che lo stesso principio sia esteso anche a loro. E perché i gestori di servizi pubblici, oltre a quelli delle infrastrutture, non dovrebbero godere delle stesse garanzie di redditività? A questo punto l’intera architettura delle autorità indipendenti di regolazione rischierebbe di indebolirsi, rendendo non più difendibili utenti e contribuenti (difesa nella quale le autorità trovano la propria ragion d’essere).
Vi sarebbero conseguenze non favorevoli anche a livello macroeconomico: come già avvenuto per le autostrade, vi sarebbe un forte incentivo per i privati a investire in settori protetti da ogni rischio (e generalmente a basso contenuto tecnologico).
Non è affatto chiaro oggi quali contromisure si potranno prendere. Certo, la direttiva dimostra la straordinaria forza dalla lobby ferroviaria europea, che già aveva manifestato i suoi muscoli (“clout” in linguaggio regolatorio) facendo respingere un anno fa una serie di norme liberalizzatrici, note come “quarto pacchetto ferroviario”. E come dubitare della forza di una lobby costituita da imprese per la gran parte pubbliche, che gestiscono importanti pacchetti di voti e un grande volume di affari per i fornitori, spesso anche loro operanti in contesti protetti?
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Mario Sebastiani
Naturalmente hanno ragione Ponti e Ragazzi che non si può parlare di concessioni senza trasferimento di rischio (di mercato o industriale o di entrambi) in capo ai concessionari. La questione può sembrare solo formale quando concedente e concessionario sono lo stesso soggetto ma le cose cambiano quando quest’ultimo diventa privato, in tutto o in parte, come dovrebbe verificarsi per le Ferrovie dello Stato.
D’altra parte l’obiettivo di assicurare l’equilibrio economico dei concessionari ha “rango” comunitario, nelle ferrovie così come in ogni altre settore di interesse generale. Questo però non significa necessariamente il ripianamento a piè di lista delle eventuali perdite (versus la privatizzazione degli utili): non lo prevede né la direttiva comunitaria né la norma di recepimento se, come si sembra debba essere, la previsione che il pedaggio tenga conto dell’equilibrio economico del gestore della rete va intesa in termini ex ante, come si addice alla regolazione: un pedaggio coerente con le previsioni di costo al netto dei contributi pubblici e di obiettivi di efficientamento e di qualità. Accollando al gestore eventuali scostamenti fra le previsioni e i risultati su cui questi può esercitare un ragionevole controllo.