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Previdenza: i costi della flessibilità

Le riforme proposte dalla relazione Inps hanno come filo conduttore la posizione dei lavoratori anziani nel mercato del lavoro. Ma sul reddito garantito agli over 55 si dovrà fare attenzione ai possibili effetti perversi. E ricordare che se la flessibilità in uscita è un bene, non è priva di costi.

La relazione Inps
La relazione annuale dell’Inps ci ha regalato cinque proposte di riforma: una – l’unificazione dei pagamenti– riguarda il funzionamento dell’istituto di previdenza, le altre quattro sono suggerimenti di riforma delle politiche previdenziali. Le reazione a caldo da parte di politici e sindacati sono state a dir poco fredde. È tuttavia difficile valutare la bontà di proposte (o suggerimenti, come definiti dalla relazione) appena abbozzate, perché in questi casi il diavolo è nei dettagli.
I quattro suggerimenti di riforma della previdenza riguardano una rete di protezione per i lavoratori anziani, la flessibilità in uscita, l’armonizzazione dei rendimenti tra le diverse coorti e tipologie di pensionati e la possibilità per le imprese di versare contributi previdenziali addizionali per gli ex-lavoratori già in pensione.
A ben vedere, questi suggerimenti hanno un filo conduttore: interessano la posizione dei lavoratori anziani nel mercato del lavoro. L’obiettivo è sicuramente meritorio. Durante la recente crisi, il tasso di povertà tra le persone con più di 55 anni è triplicato, anche a causa di un aumento della disoccupazione, che diventa una strada senza uscita in questa fascia d’età. Tuttavia, i suggerimenti di riforma dovranno essere opportunamente declinati, affinché i rimedi non diventino peggiori dei mali. Vediamo alcuni aspetti.
Reddito garantito per gli over 55
La protezione sociale per i lavoratori dai 55 anni in su – una sorta di reddito garantito, finanziato dalla fiscalità generale – ha motivazioni di carattere assistenziale nei confronti di persone in una fascia d’età svantaggiata sul mercato del lavoro. Ma, come molti programmi di assistenza, corre il rischio di creare i ben noti problemi di comportamenti opportunistici. Probabilmente, non saranno molti i lavoratori a scegliere di licenziarsi per poter accedere ai programmi di assistenza. Tuttavia, la loro esistenza potrebbe indurre le imprese a scegliere di licenziare proprio i lavoratori over 55. Malgrado la teoria economica sostenga che l’esistenza di un’opzione esterna quale il reddito garantito potrebbe migliorare la posizione dei lavoratori nella contrattazione sindacale, la realtà è stata spesso diversa. Di fronte alla necessità di licenziare, le imprese – spesso di concerto con i sindacati – provano a selezionare i lavoratori che hanno meno da perdere dal licenziamento. Avere un reddito garantito su cui potersi appoggiare potrebbe dunque rendere i lavoratori ultra 55enni più “licenziabili” agli occhi delle imprese. Se ciò accadesse, l’esistenza di un programma di protezione rischierebbe di avere un effetto perverso sul livello di disoccupazione degli ultra 55enni. Per evitarlo, bisognerebbe quindi introdurre anche forme di penalizzazione per le imprese che fanno maggiore uso dei licenziamenti per i lavoratori anziani — ad esempio aumentando loro l’onere dei contributi previdenziali.
Flessibilità in uscita
Anche la flessibilità in uscita si rivolge ai lavoratori anziani, consentendo loro di anticipare il pensionamento, ma al costo di un beneficio previdenziale ridotto. Questo istituto era già previsto dalla riforma Dini, ma i successivi interventi lo hanno sacrificato alla necessità di aumentare l’età effettiva di pensionamento e di ridurre la spesa previdenziale corrente.
Ci sono buone motivazioni per auspicare un po’ di flessibilità in uscita. Ma anche decenni di malcostume, in Italia e in tanti paesi europei, per temerne gli effetti. In passato, infatti, le imprese hanno usato i prepensionamenti per favorire le ristrutturazioni interne accollandone il costo alla collettività, sotto forma di forti aumenti della spesa pensionistica. Una delle chiavi per mantenere le virtù della flessibilità senza ricadere negli errori del passato è di disegnare la riduzione del beneficio previdenziale per ogni anno di pensionamento anticipato in maniera attuarialmente corretta. Ciò consentirebbe di non creare un incentivo economico al pensionamento anticipato, spingendo dunque troppi lavoratori anziani (magari sotto la pressione delle imprese) a lasciare il mercato del lavoro appena possibile.
Ma qual è la riduzione da applicare alla pensione per un anno di prepensionamento? La relazione dell’Inps non specifica cifre. Alcune testate nazionali hanno parlato di penalità comprese tra l’1,5 e il 3 per cento, e i sindacati si sono preventivamente lamentati della severità dei tagli. Proviamo a calcolare in modo approssimativo la riduzione delle pensioni attuarialmente corretta per un lavoratore che scelga di andare in pensione a 63 anni anziché a 65. A un tasso di sconto del 2 per cento annuo, e considerando i tassi di sopravvivenza annui per gli italiani in età compresa tra i 63 e i 100 anni, una pensione mensile costante di mille euro per tredici mensilità corrisponderebbe a un valore atteso dei pagamenti previdenziali di circa 206.650 euro. Volendo corrispondere lo stesso ammontare atteso al lavoratore che va in pensione a 65 anni, e dunque senza neanche considerare che lavorando due anni in più il nostro lavoratore pagherebbe ulteriori contributi previdenziali, di quanto dovrebbe essere la sua pensione? Di 1.141 euro mensili per tredici mensilità. Ovvero del 14,1 per cento in più, pari a poco più del 7 per cento annuo.
Analisi più dettagliate sono ovviamente necessarie per calcolare con precisione l’entità della riduzione equa da applicare per ogni anno di pre-pensionamento. Tuttavia, è bene comprendere che se la flessibilità in uscita rappresenta sicuramente un’opportunità, ha anche dei costi – per nulla trascurabili.

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Il Punto

  1. claudio pinna

    Per determinare la riduzione corretta si dovrebbe tenere conto che l’inps risulta essere finanziato a ripartizione e non, come nel metodo proposto, a capitalizzazione…..

  2. luigi musolla

    Se non consideriamo quanto scrive Pinna (che probabilmente è il vero problema) io sinceramente non capisco il problema della flessibilità in uscita: voglio uscire 3 anni prima di quanto previsto attualmente, Inps mi ricalcola la pensione con il contributivo e se il risultato è maggiore di una cifra minima stabilita per legge io ho la libertà di andare o meno in pensione. Ma lo decido io in base alle mie esigenze e soprattutto in base ai contributi che ho versato.E’ chiaro che in questi anni molti lavoratori sarebbero pesantemente penalizzati perchè la componente retributiva la fa da padrona; ma man mano che il rapporto tra componente retributiva e contributiva va a vantaggio di quest’ultima sarebbe sacrosanto lasciare la scelta dell’età del pensionamento al singolo, con i paletti che ho scritto sopra.

  3. Claudio Pinna

    Musolla può anche non considerare quello che dico io ma le confermo che quello è il problema. Essendo il sistema a ripartizione lei se vuole andare in pensione prima deve trovare lavoratori aggiuntivi che versino contributi in più tali da pagarle la prestazione. Solo così i saldi rimangono inalterati…..

  4. Gaetano Scibona

    Credo che entrambe le asserzioni, di Pinna e Musolla, siano corrette.
    Il sistema contributivo cerca di creare una eguaglianza attuariale-finaziaria tra contributi versati capitalizzati e prestazione pensionistica (adeguata alla speranza di vita attraverso i coefficienti di conversione).
    Poichè però non esiste un montante reale (è stato utilizzato per pagare le pensioni pregresse) si ha il vincolo di avere una quantità adeguata di lavoratori in servizio che versino i contributi che serviranno a pagare le pensioni correnti.
    Questo vincolo però obbliga a valutare più attentamente la flessibilità in uscita.
    Stante che il lavoratore che ha versato un tot di contributi dovrebbe avere il diritto di andare in pensione quando vuole, convertendo il suo montante in rendita vitalizia (si veda la riforma inglese che permette al lavoratore di incassare il montante al posto della rendita) bisogna agevolare l’occupazione giovanile per creare le entrate necessarie a pagare le pensioni correnti. Il problema delle penalizzazioni calcolate con sistema attuariale dovrebbe di contro permettere la capitalizzazione dei contributi con un tasso di mercato (che non mi sembra sia avvenuto); inoltre bisognerebbe calcolare il costo (non solo economico, purtroppo) procurato dal mancato utilizzo del lavoro dei giovani (quanto ci costa tenere disoccupato ogni giovane che potrebbe sostituire un pensionato in anticipo?), che ritengo molto rilevante.

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