La strategia di flessibilità adottata in Europa negli ultimi vent’anni ha originato una forte segmentazione dei mercati del lavoro. I dati mostrano che l’accesso a forme di occupazione stabile è diventato problematico. E non si vede l’aumento di posti di lavoro che avrebbe dovuto comportare.
Le conseguenze della flessibilità
Le riforme del mercato del lavoro intraprese dai paesi dell’Europa continentale dagli anni Novanta in poi sono state presentate come politiche in grado di rispondere ai problemi sollevati dalla cosiddetta “eurosclerosi”. Ma sono state efficaci? Ha funzionato l’assunto dello “scambio fra occupazione ed eguaglianza” in base al quale per creare più occupazione si devono accettare livelli più elevati di diseguaglianza – salariale o normativa – nel mercato del lavoro? A distanza di oltre due decenni dalle prime misure di deregolamentazione, il supporto empirico a quest’assunto appare carente. I dati indicano come la strategia di flessibilità adottata in Europa abbia originato una forte segmentazione dei mercati del lavoro, rendendo problematico l’accesso a forme di lavoro stabile, senza tuttavia dar luogo a sensibili miglioramenti nelle complessive prospettive occupazionali. Questo perché in Europa continentale la riduzione dei livelli di protezione del lavoro subordinato è avvenuta solo in alcuni settori del mercato del lavoro. L’Italia non ha fatto eccezione, con i reiterati provvedimenti di de-regolamentazione dei vincoli sull’utilizzo di lavoro temporaneo. Tuttavia, il grado di protezione del lavoro dipendente a tempo indeterminato è rimasto pressoché invariato (figura 1) nei vari paesi europei, a ridursi è stata invece la regolazione del lavoro a tempo determinato (figura 2). La differenza fra i due indici può essere considerata come un indicatore di deregolamentazione ai margini e di segmentazione originata dalle istituzioni (figura 3).
Effetto “luna di miele”
In un nostro lavoro ci siamo chiesti se a un aumento nel tempo della deregolamentazione ai margini, abbia fatto seguito un generale incremento delle chance occupazionali in Europa, in particolare distinguendo fra un aumento tout court delle probabilità di trovare un qualsiasi lavoro e un aumento delle chance di trovarne uno permanente. Volutamente la nostra analisi va dal 1992 al 2008, prima dello scoppio della crisi. Poiché la letteratura mostra come in Europa continentale possano essere identificati tre distinti modelli regolativi di welfare e mercato del lavoro (scandinavo, centroeuropeo e sudeuropeo) abbiamo aggregato i risultati per ciascuno di essi. Restano fuori i paesi anglosassoni in quanto mercati del lavoro già abbondantemente deregolati e poco protetti. Come già ipotizzato, l’effetto della deregolamentazione sulle chance di trovare un lavoro si risolve complessivamente in un “effetto luna di miele”, in cui i vantaggi occupazionali complessivi della flessibilizzazione hanno un carattere meramente transitorio. I trend costantemente negativi nei tassi attesi di transizione al lavoro permanente rivelano inoltre l’avviarsi di un processo “europeo” di sostituzione di lavoro permanente e garantito con lavoro temporaneo e a garanzie (legali e di welfare) ridotte.
Ma c’è di più: disaggregando l’analisi per i gruppi di paesi, si osserva una efficacia decrescente delle politiche di deregolamentazione muovendoci dal Nord verso il Sud dell’Europa. Nei paesi meridionali si realizza una marcata riduzione delle chance di accedere a impieghi stabili, con un chiaro effetto ‘honeymoon’ che tuttavia non compensa l’occupazione stabile persa.
Dalle nostre analisi la situazione particolarmente problematica del Sud Europa emerge con chiarezza: la deregolamentazione “ai margini” si è rivelata una politica inefficace per favorire la creazione di occupazione, mentre si è verificato un graduale processo di sostituzione di lavoro stabile con lavoro temporaneo e si registra comunque uno tra i più alti tassi di disoccupazione di lunga durata, chiamando in causa le politiche attive del lavoro. Se, dunque, un incremento della flessibilizzazione dei mercati del lavoro può aver originato, in altri contesti, risultati tutto sommato positivi in termini di crescita occupazionale, ciò non si è verificato nei paesi sud-europei. Così stando le cose, l’avvio di nuove riforme dovrebbe tener conto dei rischi di aumentare ancora di più gli impieghi temporanei e la segmentazione del mercato del lavoro, mentre i guadagni occupazionali netti restano per lo meno dubbi.
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Andy Mc Tredo
Salve,
Credo che il punto cruciale sia nelfatto che si crive “flessibilità” ma in realtà si intende “POTATURABILITA” (un obrobrioso neologismo appena partorito dalla mia mente malata che vorrebbe intendersi come possibilita di potare in qualunque momento il numero dei dipendenti, tanto poi ricrescono da soli più bravi di prima). Per me sarebbe “flessibilità” impiegare il lavoratore 6 ore al gg in un periodo e 10 in un altro, oppure far lavorare 3 gg alla settimana, alternati o consecutivi, oppure pagare le ore un mese un tot e recuperre il mese successivo, oppure….
C’è poi il fatto che in certi paesi (anglosassoni ma non solo) “contratto a tempo indeterminato” significa “con possibilità di licenziamento in qualunque momento senza indennizzo” mentre “a tempo determinato” significa “fino alla tal data ti devo pagare anche se non lavori” …
Pensionato poi significa “persona incapace di mantenersi altrimenti in quanto troppo vecchia” (se malata e non si è fatta una carissima assicurazione si deve arrangiare…), e da qui l’esigenza di incrementare il magro reddito svolgendo attività collaterali tipo B&B…
Daniele Silvestri
Se leggo bene i grafici disaggregati per aree geografiche, non mi sembra che neanche nel Nord e nel Centro Europa gli effetti siano stati granché positivi, solo un poco meno negativi che nel Sud Europa
Michele
In pratica l’autore dice: la riduzione dei livelli di protezione del lavoro subordinato avrebbe dovuto essere generalizzata, allora si che si avrebbero avuti incrementi dell’occupazione e dell’accesso a forme di occupazione stabile (? A me sembra una contraddizione in termini). Insomma nello “scambio tra occupazione e disuguaglianza” non si è accettata abbastanza disuguaglianza. Non viene invece il dubbio che la disoccupazione dipenda da tutte altre cause: caduta della domanda interna dovuta alla maggiore disuguaglianza, mancanza di vera lotta ai monopoli, imprenditorialità a caccia solo di protezioni statali, incoerenza tra flessibilità maggiore nel mercato del lavoro e altre caratteristiche delle economie (ridotta mobilità sociale a causa delle corporazioni, della inefficacia della scuola etc)
Andy Mc Tredo
Concordo ! anche perchè da noi gli impieghi a tempo determinato sono generalmente pagati meno che quelli a tempo infinito (mi rifiutio di definirli “a tempo indeterminato”) : praticamente un mix avvelenato che si può riassumere con lo slogan vagamente antisessantottino: <> …
Miguel
Personalmente non vedo il nesso di causalità che vedi tu: mi sembra che gli autori vogliano solo dimostrare che le aspettative dei governi sono state totalmente errate, e non che una deregolamentazione più ampia avrebbe portato a risultati migliori come invece interpreti tu. In pratica, l’obiettivo della ricerca era dare evidenza empirica del fallimento delle particolari scelte fatte e non avanzare proposte.
Michele
Testuale:non ci sono stati “miglioramenti nelle complessive prospettive occupazionali”..” perché in Europa continentale la riduzione dei livelli di protezione del lavoro subordinato è avvenuta solo in alcuni settori del mercato del lavoro”. Quindi se invece ci fossero stati riduzioni dei livelli di protezione del lavoro generalizzati, l’autore sostiene che le prospettive occupazionali sarebbero migliorate. Nulla di più sbagliato, a mio parere.
Michele
Un po come que vecchi comusti che spiegavano il fallimento del URSS con la mancanza dell’applicazione del vero comunismo…
Henri Schmit
Bel lavoro e articolo interessante. Ma qual è la conclusione? Sarebbe il titolo? Allora non ci siamo , secondo me. E se la flessibilità fosse arrivata tardi? La Thatcher c’era 30/35 anni fa. L’Italia si è svegliata ieri (benché già D’Alema avesse provato a seguire le orme di Blair; gli è costato la testa). Il nostro sistema (di wellfare europeo) è in crisi da oltre 10 anni e siamo in de pressione nera da oltre 5. In queste condizioni un po’ di flessibilità in più non basta.
salvatore
Conoscete qualcuno che verrebbe a fare investimenti NON FINANZIARI e così creare posti di lavoro in questo Paese corrotto e intriso di criminalità organizzata?
Che sia il Jobs Act a incentivare gli investitori?
NON FATEMI RIDERE…
gerardo
Dalla lettura dell’articolo evinco una sola cosa: l’occupazione crescerà solo quando i lavoratori potranno anche non essere pagati e potranno essere trattati come zerbini. Venite anche pagati per scrivere cose di questo genere? E se si con il denaro di chi?
Alfonso Zarrella
Il titolo e questa: “del Sud Europa emerge con chiarezza: la deregolamentazione “ai margini” si è rivelata una politica inefficace per favorire la creazione di occupazione” significano che l’ocupazione non è aumentata dal 1992 al 2008, in particolare al sud Europa?
Pif
L’articolo non fa che confermare quanto altri studi avevano affermato (vedi ad es. Blanchard). Bisogna comunque distinguere, da un lato il ritmo di evoluzione tecnologica impone rispetto al passato una maggiore flessibilità, però molta della flessibilità è invece non endogena e anche inutile e controproducente, dettata dalla globalizzazione e dalla esosa richiesta di maggiori profitti, ci vorrebbe uno Stato intelligente che fa meno assistenzialismo e più ricerca e funga anche da “datore di lavoro di ultima istanza” sopratutto nei periodi di crisi, che incentivi le imprese ad assumere ( senza fare regali) , che favorisca l’incontro tra formazione e mercato del lavoro per diminuire gli sfridi tra offerta e domanda, insomma ci sarebbe molto lavoro da fare e il job act è troppo poco e in parte anche sbagliato.
Dominic
“L’occupazione non aumenta con la flessibilità”…ma va? E’ la scoperta dell’acqua calda, dal 1997 che lo sento dire!
Pietro
L’attuale legislazione non poteva produrre un risultato differente da quanto fotografato dall’analisi: premesso che il vantaggio di un dipendente flessibile si aggiunge al vantaggio del suo minor costo orario e contributivo, chi dovrebbe avere interesse ad assumere a tempo indeterminato un lavoratore?
Solo quelle aziende per cui il turnover e la continua perdita di know-how è un valore negativo con un costo superiore ai suddetti vantaggi.
I contratti precari vengono utilizzati in prevalenza per lavori non professionalizzanti né formativi.
Come possono questi lavoratori fare carriera?