Abolire il capitale sociale minimo non sembra una grande idea. Intanto perché gli argomenti di chi sostiene la sua inutilità non sono del tutto convincenti. Quanto al modello statunitense, si fonda su una giustizia civile molto più veloce. Semmai è un istituto che andrebbe rivisto e riformato.
Quanta insofferenza verso il capitale sociale
Una delle battaglie più importanti del diritto societario europeo degli ultimi anni, che ha condotto a riforme anche in Italia, riguarda il capitale sociale minimo, ossia quanto i soci devono conferire e rischiare per costituire una società. L’istituto è messo in discussione da accademici, operatori e legislatori: la maggior parte dei paesi europei ha molto ridotto gli obblighi di capitalizzazione di società per azioni e società a responsabilità limitata e reso più flessibili le norme su conferimenti e loro valutazione.
Le ragioni dell’ostilità sono due. Da un lato, una certa sudditanza intellettuale ai modelli anglosassoni, e statunitense in particolare, che sostanzialmente non prevedono alcun capitale sociale minimo. La seconda ragione attiene la competizione regolamentare tra gli ordinamenti europei. La libertà delle società di costituirsi in qualunque paese dell’Unione e assoggettarsi al regime societario ivi vigente, indipendentemente dalla localizzazione fisica dell’impresa, ne ha indotto molte a “migrare” scegliendo le regole societarie più desiderabili: Fiat-Chrysler è solo l’ultimo e più eclatante esempio. Secondo diversi studi, una delle motivazioni delle recenti migrazioni giuridiche è proprio la ricerca di regole meno severe sul capitale, e gli Stati si adeguano.
Ma quali sono gli argomenti per affermare l’inutilità del capitale sociale minimo, che alcuni definiscono una “reliquia” del passato? Sostanzialmente tre. Primo, si osserva che se anche la legge impone ai soci di versare, poniamo, 120mila euro per costituire una società, il giorno dopo gli amministratori potrebbero investire quei danari in un asset che non vale nulla, lasciando i creditori con un pugno di mosche. Secondo, si dice che qualunque cifra può risultare inadeguata o eccessiva in ragione del tipo di attività e dei rischi dell’impresa. Un capitale di 80mila euro può essere eccessivo per un fruttivendolo e irrisorio per un impianto chimico. Infine, si lamenta che il capitale minimo può ostacolare la nascita di nuove imprese, soprattutto create da giovani geniali ma squattrinati.
Sostenere che il capitale sociale non serva a nulla è falso.
Innanzitutto, richiedere che i soci investano una somma rischiando di perderla è un filtro minimo sulla serietà degli intenti e aggiunge un incentivo – per quanto piccolo – a comportamenti corretti. In secondo luogo, l’abuso è sempre possibile, ma vi sono norme che in caso di perdita del capitale impongono la sua ricostituzione o lo scioglimento dell’ente, norme sanzionate civilmente e penalmente. Se le norme sono ben applicate, la perdita del capitale impone azioni correttive ad amministratori e soci e rappresenta un utile campanello d’allarme. In terzo luogo, se una cifra fissa è spesso sproporzionata alle esigenze dell’impresa, non è impossibile prevedere obblighi di capitale flessibili in ragione della struttura finanziaria e del rischio, come accade in modo più sofisticato per le banche (Basilea). Infine, nemmeno l’invocazione delle barriere all’ingresso tiene. Difficile sostenere che 10mila euro, la cifra necessaria per creare una Srl, che non deve nemmeno essere versata in denaro, siano troppi anche per un bar di quartiere. Inoltre, delle due l’una: o il capitale sociale è inutile perché spesso inadeguato, oppure è spesso una cifra significativa che scoraggia l’imprenditorialità.
Modello Usa e problemi italiani
Ma c’è anche altro. Abolire il capitale sociale minimo può risolversi in una maggiore protezione per i creditori forti e sofisticati, come banche e imprese dominanti, che possono ottenere dai soci garanzie ulteriori, lasciando con il cerino in mano creditori deboli, come lavoratori e vittime di incidenti, che non avrebbero nemmeno la minima protezione potenzialmente offerta dal capitale.
Chi disprezza il capitale sociale minimo, forse, dovrebbe dire che andrebbe regolato in modo diverso e più incisivo, non che non serve a nulla. Sostenere il contrario è come dire che è inutile proibire il mitra, perché si può uccidere anche con un mattarello.
Prima di abbandonare questo istituto occorre dunque riflettere e, se mai, pensare a rinnovarlo. Se vogliamo imitare gli americani, benissimo, ma ricordiamoci di importare tutto il loro sistema, non solo un pezzo. È vero che in Usa ci sono regole sul capitale più flessibili, ma i tribunali sono anche molto più liberi di “squarciare il velo” della responsabilità limitata, imponendo a soci scorretti di pagare i debiti della società. Secondo uno studio empirico degli anni Novanta, su un totale di oltre 1.500 contenziosi in cui i creditori avevano invocato la responsabilità personale dei soci, i giudici la concessero in circa il 40 per cento dei casi. E non dimentichiamo che in quel paese i fallimenti e la giustizia civile in generale sono molto più rapidi.
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comalberti
Forse meritano attenzione anche le iniziative delle istituzioni europee: prima, come indicato nell’articolo, si promuove la concorrenza tra ordinamenti, poi la Commissione – il 9/4/2014 – propone una direttiva per armonizzare a 1 euro il capitale minimo di alcune società, impedendo agli Stati membri – come l’Austria – d’imporre requisiti più stingenti sul capitale minimo.
Sembra quasi che la concorrenza tra ordinamenti sia più che altro uno strumento utilizzato per preparare il terreno alla successiva adozione di determinate misure a livello europeo.
Antonino Colombo
Va condivisa l’opinione dell’Autore: il capitale sociale non è un feticcio del passato. Non credo che sia il capitale minimo che ostacola la “nascita di nuove imprese, soprattutto create da giovani”. I giovani geniali sono insofferenti non tanto agli obblighi di capitalizzare la propria società, ma piuttosto alla “burocrazia”: giovani di mia conoscenza (mi rendo conto che la mia è un’osservazione da uomo della strada…) sono entusiasti perché in altri Paesi (USA) sono riusciti a in pochissimo tempo a costituire la loro “srl”, con procedura on line e poco costosa. Per favorire la nascita di nuove imprese, occorre agire su questo piano e non su quello del capitale minimo.
Tuttavia, l’ordinamento sembra muoversi in direzione opposta (art. 2643-bis: capitale sociale pari almeno ad un 1 euro!).
La proposta di prevedere “obblighi di capitale flessibili in ragione della struttura finanziaria e del rischio” sembra difficilmente realizzabile: 1) la valutazione fatta ex ante va poi aggiornata con una certa periodicità; 2) a chi spetta tale apprezzamento? Ai soci? Al notaio? Questa seconda soluzione sembra anch’essa controcorrente: secondo il DDL concorrenza, non sarà più necessario l’atto pubblico in caso di srl semplificata.
L’esempio di Fiat-Chrysler è davvero probante? Sono state valutazioni attinenti al capitale ad avere indotto Fiat a migrare?
Marco Ventoruzzo
Il richiamo a Fiat-Chrysler era solo per ricordare in generale che le società europee, anche grandi, possono guardarsi intorno e “ricostituirsi” in altri ordinamenti che ritengono preferibili. Naturalmente la disciplina del capitale è una variabile rilevante solo per piccole imprese, nel caso di FCA le attrattive del diritto societario olandese erano certamente altre (si dice, ad esempio, la possibilità di emettere azioni a voto multiplo, consentita proprio poco dopo questa vicenda anche dal governo italiano). Quanto a regole di capitalizzazione variabile, certo esse possono porre complicazioni e qualche costo, ma forse meno di quanto si tema soprattutto se strutturate in modo semplice. In ogni caso il punto è: se il capitale fosse veramente inutile, perché nessuno discute che nelle industrie sistemiche, banche e assicurazioni, è necessario? I dati circa l’impatto sull’economia “reale” delle nuove srl semplificate a capitale ridotto sono piuttosto deludenti: moltissime non hanno dipendenti e/o sono inattive. A che fini sono usate?