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Falso in bilancio: valutazioni che hanno bisogno di certezze

La valutazione non veritiera è o meno penalmente rilevante secondo le nuove norme sul falso in bilancio? La Cassazione ha già emesso tre sentenze contrastanti. Necessario un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite che chiuda una controversia interpretativa che ha importanti ricadute pratiche.

Per colpa di un inciso

Non c’è due senza tre. La riforma del falso in bilancio del 2015 aveva già originato due pronunce discordanti, espressione di due diversi modi di interpretare la scomparsa dell’inciso «ancorché oggetto di valutazioni» riferito ai «fatti materiali rilevanti» dal testo della norma (articolo 2621 del codice civile). La questione è se una valutazione non veritiera – ad esempio sul valore di un marchio – sia penalmente rilevante, appunto perché frutto di un’opinione, seppur basata su regole tecniche, e diversa dalla mera indicazione di un “fatto” falso. La scorsa settimana è intervenuta una terza sentenza, sempre della quinta Sezione.
Già prima dell’approvazione del nuovo testo normativo, alcuni studiosi avevano paventato la possibilità di dover fare i conti con una depenalizzazione del falso “valutativo”, a detta di tutti foriera di un drastico ridimensionamento delle potenzialità applicative della norma. Le preoccupazioni, purtroppo, sono restate inascoltate e il testo di legge è stato approvato senza modifiche: si punisce, dunque, l’esposizione di fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero (ovvero l’omissione di fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge). Senza più alcun riferimento alle valutazioni, ci si interroga sulle sorti del falso valutativo. Alcuni sono convinti che rilevi penalmente perché escludere le valutazioni dal reato rende la disciplina un vuoto simulacro, e sarebbe in contrasto con l’obiettivo dichiarato dal governo di renderlo più incisivo. Altri sostengono invece che la scomparsa di qualsiasi cenno alle valutazioni impone di escluderle dall’area della punibilità. Nel mezzo, varie opinioni che mediano tra i due estremi.

Giurisprudenza incerta

La giurisprudenza aveva imboccato da subito la strada dell’abolitio criminis parziale e della conseguente irrilevanza sopravvenuta dei fatti di falso in bilancio estimativo (così la sentenza cosiddetta Crespi del giugno 2015). Diversa la soluzione adottata dalla stessa sezione della Cassazione nel caso Giovagnoli del gennaio 2016: in contrasto con la precedente decisione, il collegio affermò che anche le valutazioni potevano essere ricondotte al concetto di “fatti materiali” e, dunque, se false rappresentare un reato. Qui si innesta la sentenza del 22 febbraio: la solita quinta Sezione – all’interno della quale evidentemente si agitano due correnti di pensiero contrapposte – torna a dare rilievo alla eliminazione del riferimento alle valutazioni nel nuovo articolo 2621 del codice civile, e quindi a escludere la punibilità per informazioni scorrette non relative a fatti in senso stretto.
Non vi è spazio in questa sede per una dettagliata analisi nel merito delle rispettive interpretazioni. Ci si limita a segnalare l’inaccettabile incertezza generata da queste decisioni contrastanti. Nell’ultima pronuncia, in particolare, si leggono affermazioni che appaiono contraddittorie e degne più di un trattato filosofico che della chiarezza che operatori e vita economica richiedono. Ad esempio, si nega la rilevanza penale delle valutazioni in via generale, ma si indicano poi alcune eccezioni che integrerebbero il reato di falso in bilancio: valutazioni relative a una realtà sottostante inesistente; e valutazioni tanto fallaci da determinare una trasformazione della, pur esistente, realtà oggetto di stima. In altre parole, e più semplicemente, potremmo sintetizzare così la recente decisione: in generale è reato indicare in bilancio beni in magazzino che la società non possiede, essendo questo un fatto falso, ma non sarebbe punibile fornire una valutazione scorretta del magazzino effettivamente posseduto. Se, tuttavia, la valutazione è tanto fantasiosa, esagerata e azzardata da potersi considerare rappresentazione di fatti falsi (ad esempio, valutare come se avessero un mercato beni la cui vendita è stata vietata dalla legge e quindi hanno valore prossimo a zero), può scattare il reato.
Come scriveva anni fa un grande penalista italiano scomparso, Cesare Pedrazzi, «in un terreno tanto delicato, propizio agli equivoci, l’ambiguità è di per sé riprovevole». È necessario al più presto un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, che ponga fine a una controversia interpretativa dalle enormi ricadute pratiche e della quale non si sentiva il bisogno. In attesa di conoscere l’interpretazione corretta, va sottolineato come il legislatore ancora una volta abbia creato incertezze, aggravando quella crisi della legalità che tristemente rappresenta, sempre più, una cifra identificativa dell’attuale stato del diritto penale italiano.

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  1. Antonio Sechi

    Notizia di oggi, un ennesimo caso è stato demandato alle Sezioni Unite. Forse si verrà a capo di questa vicenda, che comunque conferma e aggiorna il bilancio, purtroppo veritiero e inattaccabile, della sciatteria redazionale delle norme nel nostro paese.

  2. guido

    una volta tanto mi sembra che la Cassazione abbia mostrato giudizio nonostante le critiche dell’autore dell’articolo. Dice un proverbio inglese che ognuno ha diritto alle proprie opinioni ma non ai propri fatti. Se la valutazione e’ talmente fuorviante, ingiustificata, disancorata dalla realta, si configura come un falso. un’altra ipotesi sarebbe stato accertatare l’eventuale dolosita’ dell’errata valutazione, allorche’ consciamente si procede ad una valutazione rrata pur consapevoli della stessa.

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