Il ruolo dell’università
Quale deve essere il ruolo dell’università? Ipersintetizzando, la tesi esposta da Francesco Ferrante è che l’università dovrebbe “fornire competenze generali, e, solo parzialmente, professionalizzanti”. Il compito di “insegnare un lavoro” spetterebbe invece ad altri, le imprese, i datori di lavoro, la collettività, insomma al variegato universo in cui oggi, appena usciti all’università, si trovano spesso a vagare i neolaureati in cerca di un lavoro. Considerata la accresciuta “velocità” dei mutamenti tecnologici e sociali del mondo attuale, percorsi formativi troppo professionalizzanti diverrebbero infatti rapidamente obsoleti e quindi del tutto inutili per lo scopo a cui dovrebbero dichiaratamente essere destinati.
La tesi si presta ad alcuni commenti. Primo, se adottata in maniera acritica, potrebbe essere strumentalmente utilizzata per offrire una giustificazione ideologica a quello che tradizionalmente è stato forse il maggior difetto di una parte del mondo accademico, quello della autoreferenzialità. Nell’interrogarci sul ruolo dell’università, dovremmo poi anche tener conto degli interessi di tutti gli stakeholders coinvolti, quelli delle imprese e, ancor prima, quelli dei giovani che si accingono a intraprendere un percorso universitario. Gli aspiranti universitari probabilmente rimarrebbero quantomeno perplessi nel sentirsi dire platealmente che “no, l’università non deve fornirti delle competenze professionalizzanti (cioè “non ti insegna un lavoro”), quelli sono problemi di qualcun altro”. E per la verità non è certo questo il messaggio che ritroviamo sui siti di molte università che, anzi, per porre rimedio al calo degli iscritti, spesso pongono al centro della loro comunicazione promozionale proprio le future prospettive di lavoro, sottolineando con malcelata soddisfazione l’alta percentuale di neolaureati che trovano un lavoro appena usciti dall’ateneo. Il senso del messaggio, promozionale quanto si vuole, non è tanto fondato sull’università che fornisce “competenze generali”, e che potrebbe quindi essere percepita come altra rispetto al mondo del lavoro, quanto piuttosto sull’idea che l’università possa e debba rappresentare per i neolaureati un momento di collegamento con le imprese e con il mondo del lavoro.
Ripensare le competenze
Fatte queste premesse è del tutto ovvio che l’università non possa fondare la propria didattica sui bisogni immediati delle imprese, o proprie sulle volubili mode del momento contingente e che sia opportuno tener ben presente l’aumentato tasso di obsolescenza delle competenze professionalizzanti, anche se per la verità l’argomento sembra meglio attagliarsi alle facoltà tecniche e meno a quelle umanistiche. Appare peraltro riduttivo parlare genericamente di “università”, in quanto per una valutazione più approfondita dell’adeguatezza della didattica sarebbe necessario verificare la situazione delle singole facoltà (o proprio delle singole sedi universitarie). E poi sarebbe anche necessario domandarsi se un’analoga obsolescenza non possa essere attribuita anche ad alcune delle “competenze generali”, da ripensare proprio in funzione dei sempre più rapidi mutamenti tecnologici e sociali del mondo in cui viviamo, così da far spazio a competenze professionalizzati o anche soltanto a “competenze generali”, nuove e diverse rispetto a quelle tradizionali.
Considerato che ho svolto la mia carriera professionale al di fuori dell’università, non posso che limitare i miei commenti al gruppo disciplinare e professionale a cui appartengo, quello giuridico. Lo farò con l’esempio di un fatto accadutomi. Quando ho avuto l’opportunità di incontrare un gruppo di laureandi, mi sono reso conto che poco o nulla sapevano in tema di ristrutturazioni d’impresa, concordati in continuità e simili, che, sfortunatamente, negli ultimi anni hanno assunto una importanza rilevante nella nostra professione. Alle mie cortesi rimostranze, gli universitari mi hanno spiegato che nella loro facoltà tali questioni erano riservate a un mero esame complementare (e con ben quattro esami obbligatori dedicati al diritto romano). Sebbene io sia un assertore dell’opportunità dello studio del diritto romano, in quell’occasione mi sono comunque domandato se non fosse opportuno trovare un riequilibrio nella didattica di quella facoltà, che consentisse maggior spazio a competenze, anch’esse generali, ma più immediatamente spendibili nel mondo in cui inevitabilmente i neolaureati avrebbero dovuto cercare un primo lavoro.
In conclusione, ritengo che l’università non possa limitarsi a cristallizzare e tramandare la didattica da sempre offerta, ma debba invece tentare di valutarla e se necessario modificarla in funzione dei mutamenti nel frattempo intervenuti nel “mondo di fuori”. E se così facendo ci scappa qualche “competenza professionalizzante”, probabilmente gli stakeholders, universitari compresi, ne saranno soltanto contenti.
Marco Bianchi
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George
Probabilmente le università dovrebbero:
1) per le facoltà che ne hanno bisogno (quelle umanistiche poco o nulla) “aggiornare” i programmi ogni, diciamo, 3 anni per tener conto delle necessità del mondo del lavoro
2) studiare per tutte le facoltà un corpus di conoscenze “sine qua non”, aggiornabile ogni, diciamo, 10 anni o più
3) dovrebbero essere previsti per tutte le lauree soggette ad obsolescenza degli aggiornamenti obbligatori, diversi e meglio organizzati rispetto a quelli attualmente esistenti, p.e. per le facoltà “sanitarie” (che sono una inutile e burocratica perdita di tempo nel 90% dei casi).
Inoltre vedrei bene un aggiornamento in cultura e realismo anche nel mondo imprenditoriale che NON PUO’ pretendere di trovare “la pappa pronta” per qualsiasi specializzatissima mansione di cui abbisogna e piagnucolare che il lavoro c’è ma non ci sono le professionalità necessarie, SE SERVONO SI FANNO “IN CASA” (se non lo fanno significa che non ne hanno una necessità reale), il praticantato/apprendistato inteso come periodo limitato per imparare una abilità lavorativa particolare (e non un parcheggio burocratico a basso costo per le imprese) è sempre stato necessario e continuerà ad esserlo anche in un futuro ipertecnologico o in un altro di regressione dal primo (in cui l’italia non è improbabile finisca).