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La difficile arte di tassare le imprese digitali

Come si sana il conflitto tra tassazione delle imprese digitali e le altre? Una soluzione negoziata è impossibile perché gli Usa non la permettono. Occorre allora coalizzare i paesi-vittima contro quelli profittatori. E l’Unione europea può dare l’esempio.

Come tassare i giganti del web?

L’8 e 9 ottobre l’Ocse ha affrontato per l’ennesima volta la questione del come tassare la digital economy. Essa produce “redditi apolidi” non avendo bisogno di una sede fissa per prelevare flussi dai mercati in cui opera. Gli accordi internazionali, al contrario, richiedono la presenza di una postazione fissa per poter tassare in loco il reddito di un soggetto estero. La conseguenza è che, se manca la postazione, non esistono i presupposti per tassare in loco la ricchezza pur ivi prelevata.

In sede Ocse si discuteva, dunque, di come far funzionare il cosiddetto Unified Approach (tassazione del gruppo invece che della singola entità giuridica; ripartizione del reddito fra parte ordinaria e straordinaria; determinazione di quest’ultima in base a parametri, perlopiù ricavi, anziché profitti), filosofia proposta dallo stesso Segretariato Ocse per trovare una via d’uscita alla spinosa vicenda. Ma nonostante l’impegno del Segretariato ne è uscito l’ennesimo rinvio.

Ci riprova, in questi giorni, anche l’Unione europea varando un Dac 7 (Directive on Administrative Cooperation). Il Dac 6 (già recepito in Italia) aveva il pregio di obbligare coloro che avevano assistito la formazione di operazioni “aggressive” sotto il profilo fiscale a fornire alle rispettive amministrazioni finanziarie le informazioni necessarie a valutare l’operazione stessa. Qualora, tuttavia, i consulenti del caso non vi avessero provveduto, l’obbligo si sarebbe trasferito sulle imprese che vi avevano partecipato. Ebbene, il Dac 7 cerca di ispirarsi alla medesima filosofia per imporre ai gestori di piattaforme digitali (soggetti perlopiù locali e distinti dai gestori di dati – i giganti del web – perlopiù multinazionali) obblighi sostanzialmente analoghi con lo scopo (implicito) di far emergere il volume d’affari delle web company che se ne avvalgono per fornire i propri (invisibili e irrintracciabili) servizi. Tanto che si potrebbe parlare di un vero e proprio colpo d’astuzia delle autorità comunitarie competenti.

L’accordo è impossibile

Sennonché l’ottimismo in questa materia ha spesso portato solo a cocenti delusioni. E la ragione di ciò sta nella disparità fra lo strumento usato (la legge) e l’oggetto da inquadrare (un comportamento facilmente variabile). La legge è, in fondo, una sequenza di parole: pensate per delineare una situazione astrattamente verificabile, formulate secondo canoni di linguistica giuridica, scelte e scritte in consecutio fra loro, approvate da una pluralità di consessi e individui per rimanere, però, ferme come tali. Il comportamento imprenditoriale è frutto, invece, di valutazioni tecniche e di processo, di formazione di istruzioni dettagliate e di piccoli e continui aggiustamenti nel durante. Come non vedere la sproporzione fra i tempi e rigidità operative della legge rispetto alla duttilità e immediatezza dell’intervento imprenditoriale? L’inseguimento dei comportamenti del web con paletta e secchiello normativi non può che essere condannato al sistematico insuccesso. E la disponibilità bugiarda delle web company (che recenti studi di Mediobanca valutano in 46 miliardi di euro in 5 anni) solo punita con l’inferno dantesco: una fiamma che si accende, ahimè, solo alla morte del colpevole. Che fare nel frattempo?

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Forse vale la pena prendere atto, con realismo, della sproporzione delle armi che caratterizzano la tregua armata cui nei fatti assistiamo. I paesi che lucrano sull’esistenza delle web company – quelli cioè presso i quali queste ultime hanno costruito i propri centri di ricerca e sviluppo o che vi si appoggiano per distribuire meglio il proprio prodotto – possono avallare soltanto soluzioni che valorizzano le componenti tecnologiche (gli “intangibles”) e, al limite, distributive. Il che vuol dire attribuire il grosso del risultato (di gruppo) che ne deriva a queste ultime riservando ai paesi “clienti” una quota di profitto misurabile solo in termini di (eventuale) margine commerciale: una sorta di commissione d’agenzia. I paesi degli utenti, al contrario, mirano a tassare i flussi in uscita ammettendo che i costi che vi si contrappongono sono solo quelli di formazione della tecnologia (puri costi di ricerca e sviluppo) e un ragionevole (cioè, nei fatti, modesto) margine di profitto. Fatto pari a 100 il profitto di gruppo per i primi 90 va agli intangibles (localizzati in paradisi fiscali) e 10 va alle attività commerciali e di servizio. Per i secondi esattamente il contrario.

Come si sana il conflitto? Un saggio tasso di realismo dovrebbe prendere atto dell’impossibilità di pervenire a una soluzione negoziata perché la sua parte più importante (gli Usa) non la vogliono. Lo Unified Approach Ocse che mirava a questo è stato, infatti, decapitato. Occorre, quindi, coalizzare i paesi-vittima (Germania, Francia, Spagna, Italia, Gran Bretagna e forse Giappone) contro i paesi-profittatori (Usa, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Singapore). Si può valutare da dove cominciare e probabilmente vale la pena iniziare dai paesi membri della Comunità europea.

Certo è che non si possono usare, e spiace doverlo constatare, le buone maniere. Si potrebbe ipotizzare, per esempio, una sospensione unilaterale del relativo trattato contro le doppie imposizioni o, meglio ancora, la sua impugnazione per le tematiche riguardanti la tassazione dei redditi d’impresa. Sono, beninteso, comportamenti non basati su norme esistenti né su consuetudini. Ma va preso atto che lo squilibrio fra la tassazione delle imprese digitalizzate rispetto a quelle che non lo sono si è progressivamente accentuato e che il Covid-19 ha ulteriormente accelerato questa inaccettabile evoluzione.

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L’alternativa è prendere atto che è finita l’era della tassazione del reddito d’impresa misurato in base al bilancio di ciascuna singola impresa: perché portatrice di troppe inaccettabili ingiustizie. Poche tasse sui profitti finanziari, quasi zero per le web companies, tassazione piena per le altre imprese. Meglio individuare altri parametri quali: a) il gruppo (e non la singola subsidiary) come soggetto passivo d’imposta; b) il volume d’affari; c) l’ammontare e la distribuzione degli investimenti; d) l’indebitamento e la consistenza patrimoniale. Intorno a questi temi, del resto, ha girato sia la proposta del Segretariato Ocse che la proposta di direttiva europea Ccctb (Common Consolidated Company Tax Base), che mai è arrivata in porto. Fantafisco? Forse, ma questa è la strada.

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Usa con il fiato sospeso

  1. Henri Schmit

    Nessuno osa commentare, il problema è troppo difficile. Qual è il problema? Che una società fa affari colossali in un paese, ma non vi paga che tasse irrisorie, ai limiti del lecito si organizza in modo tale che gli utili comunemente tassabili siano realizzati là dove il peso fiscale è minore. Che cosa possiamo fare per evitare questo? Obbligare i paesi più competitivi a tassare maggioramente (non servirebbe a nulla!) o imporre ovunque (non basterebbe l’UE) la stessa tassazione (base e aliquota)? No funzionerà. Ma c’è un’altra soluzione: tassare gli affari stessi, cioè le transazioni là dove sono eseguite, là dove si trova l’acquirente o il beneficiario. Per fortuna esiste già una tassa che adotta questo approccio: è l’IVA. Contro questa soluzione milita un argomento che quando è analizzato bene si rivela fasullo: aumentando l’IVA (sulle vendite e sui servizi dei colossi del web) si caricherebbe il peso fiscale sui consumatori (che sono anche gli elettori). L’errore di questo argomento consiste nel fatto che l’onere del sovraprezzo fiscale pesa SEMPRE sui consumatori, perché ceteris paribus le imprese cercano sempre il profitto massimo e spostano le loro attività fiscalmente rilevanti sempre nelle giurisdizioni più competitive. Trovo le idee dell’UE e dell’OCSE desolanti. Ma essondo solo, probabilmente mi sbaglio io. Contro-argomenti sono graditi!

    • Riccardo

      che la maggiore Iva ricadrebbe sui consumatori è un’ovviatà (data la sua natura di imposta sul consumo che qui non si potrebbe snaturare con idee tipo split payment).
      Ben diverso sarebbe invece sfruttare l’Iva come traino per l’imposizione diretta. Senza poi dimenticare che i giganti del web sono anche colpevoli – direttamente o indirettamente – di colossali evasione della stassa Iva.
      Tutto questo (come troppe volte accade) in teoria. Sono passati quasi 2 anni e niente è successo!
      E su questo l’Italia, per una volta, si è posta come apripista con il DL 34/19 sulle piattaforme

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