Camera e Senato non hanno mai avuto leggi elettorali identiche. Con quali effetti sui risultati? Il proporzionale ha minimizzato le possibili differenze, il premio di maggioranza su un impianto proporzionale le ha esasperate. Quando è nato il problema delle maggioranze diverse tra le due camere.
Le differenze teoriche
Tutti sembrano concordare sul fatto che Camera e Senato debbano avere leggi elettorali omogenee, al di là delle differenze sul contenuto delle norme. Ma quanto simili sono state nella storia della Repubblica italiana le leggi per l’elezione dei due rami del parlamento? E che effetti hanno avuto le differenze sull’esito elettorale? Ricostruiamo ciò che è successo in Italia dal 1992 in poi.
La Costituzione italiana non entra nel merito delle regole elettorali per Camera e Senato. Tuttavia, oltre a stabilire un diverso numero di eletti (630 membri alla Camera; 315 membri eletti al Senato, di cui 309 in Italia, dal 2001), contiene due regole che segnano altrettante grandi differenze, sia teoriche sia di esito.
La prima è la differenza nell’elettorato attivo: la maggiore età per la Camera, 25 anni per il Senato; articoli 48, 56 e 58. La seconda, contenuta nell’articolo 57, prevede che il Senato debba essere “eletto a base regionale”.
Per quanto riguarda invece la specifica legislazione elettorale, per quasi cinquanta anni, dal 1948 alle elezioni del 1992, Camera e Senato sono state elette con leggi elettorali dagli effetti proporzionali. Tuttavia, sulla carta, la norma per il Senato prevedeva un sistema maggioritario con collegi uninominali all’interno di ogni regione, con obbligo di collegamento per ciascun candidato ad altri due. Se in un collegio uninominale nessun candidato avesse raggiunto una maggioranza del 65 per cento dei voti, il sistema avrebbe funzionato su base proporzionale, come sostanzialmente è accaduto quasi sempre. Per la Camera invece erano previsti collegi elettorali di dimensione variabile e possibilità di esprimere fino a quattro preferenze nei più grandi. I voti dei collegi sarebbero comunque confluiti all’interno di un unico collegio nazionale.
Tre tornate elettorali (1994, 1996 e 2001) sono state invece regolate dalle leggi 276 e 277/1993 (il cosiddetto Mattarellum), un sistema misto che assegnava il 75 per cento dei seggi su base maggioritaria uninominale e il restante 25 per cento su base proporzionale (26 collegi). Per la Camera erano previste, di conseguenza, due schede. Per il Senato, invece, tutto veniva regolato da una scheda unica con obbligo di collegamento dei candidati alle liste.
La differenza principale tra i due sistemi risiedeva nella regola dello “scorporo” e di conseguenza su come i voti venivano assegnati alla ripartizione proporzionale dei seggi: al Senato, infatti, tutti i voti del candidato vincente non erano conteggiati come voti alla lista proporzionale collegata (scorporo totale); alla Camera venivano decurtati solo quelli necessari a ottenere il seggio (scorporo parziale). In questo modo, al Senato i partiti maggiori erano “penalizzati” di più rispetto a quelli minori.
Le ultime tre tornate elettorali (2006, 2008 e 2103) sono state normate dalla legge 270/2005 (cosiddetto Porcellum), una legge proporzionale con premio di maggioranza. La principale differenza tra Camera e Senato risiedeva nel fatto che il premio di maggioranza veniva assegnato, per la Camera, alla coalizione o partito che avesse conseguito più voti su base nazionale, mentre, per il Senato, alla coalizione o partito che avesse conseguito più voti in ciascuna regione.
I risultati elettorali
Quanto hanno contato queste differenze nei risultati elettorali? Abbiamo limitato la nostra analisi alle ultime sette elezioni politiche (dal 1992 al 2013), il minimo per comprendere tutte e tre le stagioni elettorali del nostro paese. Il quadro che emerge è il seguente (dati disponibili su richiesta).
Nel 1992, i risultati di Camera e Senato sono sostanzialmente identici e anche le maggioranze governative hanno la stessa ampiezza (53 per cento). Negli anni del Mattarellum, emergono sensibili differenze nei numeri delle maggioranze tra i due rami del parlamento (due volte su tre c’è una maggioranza più ampia alla Camera); l’introduzione di un sistema misto non sembra poi aver aumentato la stabilità di governo.
Per quanto riguarda le differenze nei risultati elettorali, invece, non emerge una tendenza comune per le tre elezioni. Negli anni del Porcellum, le differenze diventano decisamente notevoli, tanto è vero che, nel 2006 e nel 2013, solide maggioranze alla Camera non trovano un corrispettivo al Senato, dove a volte sono diventati fondamentali i voti dei senatori a vita e dove dall’impasse si è usciti solo rompendo le coalizioni elettorali e formandone di nuove, in puro stile proporzionale.
Camera e Senato non hanno mai avuto, e probabilmente mai avranno, leggi elettorali identiche; il ricorso al criterio proporzionale tradizionale sembra aver minimizzato le possibili differenze negli esiti elettorali, mentre l’introduzione del premio di maggioranza su un impianto sempre proporzionale le ha esasperate. Il Mattarellum, con il ricorso al criterio maggioritario, ha invece enfatizzato le differenze a livello di seggi ottenuti dalle forze politiche nei due rami del parlamento.
Oggi, il dibattito sulle leggi elettorali è più infuocato che mai. Cambiano le posizioni che si ritenevano consolidate (il Pd retrocederà dall’Italicum e sosterrà il Mattarellum; il M5S ha abbandonato l’idea del proporzionale), ma al momento maggioranze – non necessariamente ampie – non se ne vedono. In attesa della sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum, che potrebbe mescolare di nuovo le carte, resta da augurarsi che l’impianto elettorale con cui andremo a votare prossimamente faccia riferimento, perlomeno, a formule elettorali omogenee.
Tabella 1
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Henri Schmit
Parlando di procedure elettorali bisognerebbe distinguere fra norme giuridiche (che rispondono ai diritti sanciti dalla costituzione) e logica politica (che riflette i legittimi interessi degli attori politici, in particolare dei partiti). Gran parte delle difficoltà del dibattito elettorale provviene dalla confusione fra valutazioni normative e considerazioni (di scienze) politiche. Bicameralismo vuol dire due camere DIVERSE ognuna con la sua maggioranza, creata con regole e procedure proprie; l’unica maggioranza del parlamento è la congiunzione (in senso logico) delle DUE maggioranze parziali. La Costituzione differenzia intenzionalmente le due camere e non prevede alcun criterio di omogeneità; tale criterio è un’invenzione delle scienze politiche, purtroppo menzionato e quindi accreditato come valore costituzionale dalla Corte costituzionale nella sentenza 1/2014 di censura del Procellum. Si tratta di un grave errore, sicuramente di logica giuridica, forse pure di valutazione politica. La Corte infatti non solo è un organo politico a tutti gli effetti, ma ben più: è il vero sovrano che decide quali leggi sono conformi e quali iniziative referendarie sono ammissibili. Il (giuridicamente falso) criterio dell’omogeneità tende a realizzare per via giurisprudenziale una neutralizzazione del bicameralismo, compito che spetta unicamente al legislatore costituente.
Giacomo
Spicca nella tabella il dato del 2013, perché non era mai successo che una coalizione con meno del 30% dei voti validi avesse il 54% dei seggi. E’ un premio maggioritario sinceramente eccessivo, su un turno solo, sarebbe diverso se fosse frutto di un ballottaggio.
Gabriele
Credo che ci sia un errore nella tabella per quanto riguarda le elezioni del 2013. Dovrebbero essere scambiati il valore di %di voti al senato del centrosinistra con la % di seggi alla camera.
Mauro
Nella tabella ci sono dati incongruenti. Nel 2013 la coalizione “Italia bene comune” non può aver preso solo il 32% dei seggi alla Camera, semmai più del 50%. Anche il dato della percentuale al Senato per “Italia bene comune” è inverosimile: 54%? probabilmente avete erroneamente invertito le due celle (54 e 32)
Paolo Balduzzi
Grazie per la segnalazione, Mauro e Gabriele: avete ragione voi!