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Roma-Parigi: le multinazionali della discordia

C’è da preoccuparsi se i francesi comprano pezzi d’Italia? L’economia francese ha un grado di internazionalizzazione molto più elevato della nostra. Ed è bene garantire l’apertura agli investimenti esteri in un paese dove le rendite di posizione abbondano. Ma è legittimo chiedere reciprocità.

Multinazionali d’Italia e di Francia

Prima di consentire l’ingresso di Fincantieri in Stx France, Parigi intende definire alcuni paletti che sembrano confermare come i grandi gruppi italiani abbiano serie difficoltà nel penetrare il sancta sanctorum del capitalismo transalpino. Oltretutto, la vicenda si sviluppa mentre si moltiplicano le scorrerie francesi in Italia, da Vincent Bolloré e Xavier Niel alle voci su Axa-Generali, e pochi anni dopo operazioni come Lactalis-Parmalat e LVMH-Loro Piana, senza che Roma alzi le barricate. Sembra quasi che poco sia cambiato dai tempi di François I e della battaglia di Melegnano (Marignan in francese).
In effetti, i legami capitalistici franco-italiani sono abbastanza disequilibrati. A seconda della fonte, i lavoratori italiani con un datore di lavoro francese sono 251mila (per l’Istat) o 204mila (per l’Insee, l’Istat francese), ma in ogni caso molti di più dei francesi che lavorano per un padrone italiano (che in ogni caso non sono certo pochi, rispettivamente 85mila o 98mila). Il risultato è che alla Francia corrisponde più di un quinto dell’occupazione straniera in Italia, al Belpaese meno di un ventesimo di quella estera in Francia.

Tabella 1

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Sono ben diversi i profili produttivi (secondo i dati Istat). In Italia, le multinazionali francesi sono per la gran parte nei servizi (quasi 1300 società, 183mila addetti, circa un sesto del fatturato e del valore aggiunto delle imprese di servizi sotto controllo estero), ma in compenso le scarse 600 nell’industria, con 68mila addetti, rappresentano molto più di un quarto del fatturato delle imprese sotto controllo estero. In Francia, si osserva la tendenza opposta: le multinazionali italiane sono soprattutto nell’industria (quasi 47mila addetti, su 85mila complessivi), ma la quota di fatturato estero realizzato nel paese è del 6,3 per cento, contro 7 per cento per le multinazionali dei servizi.

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Un’economia più internazionale

C’è da preoccuparsi allora se i francesi si comprano pezzi d’Italia? Una spiegazione è che l’economia francese ha un grado d’internazionalizzazione molto più elevato. Sia passivo (il 12 per cento dei salariati lavora per multinazionali estere, 1,85 milioni di persone, rispetto al 7,6 per cento italiano, per 1,23 milioni di salariati), sia attivo (nel mondo, sono 5,37 milioni le persone che lavorano per una multinazionale francese, per un fatturato complessivo di 1.240 miliardi di euro, quando le cifre corrispondenti per l’Italia sono 1,62 milioni e 448 miliardi). Cifre che ben si conciliano con quelle complessive delle grandi imprese nei due paesi: tra le Fortune 500 ci sono 29 multinazionali francesi e solo nove italiane. Paradossalmente, la Francia pesa molto di più nell’occupazione oltrefrontiera del capitalismo italiano (6,1 per cento) che l’Italia per il capitalismo gallois (3,8 per cento).
Oltretutto che la spiegazione non risieda nel protezionismo dell’Eliseo lo dimostra il commercio bilaterale, dove l’Italia registra un avanzo (di 5,6 miliardi nei dodici mesi fino a novembre 2016, secondo le Douanes). In un’altra sede varrà la pena guardare più nel dettaglio le statistiche dell’import-export dei gruppi francesi in Italia e italiani in Francia, per capire quale è il loro rispettivo contributo al commercio tra i due paesi.
Pertanto garantire l’apertura agli investimenti esteri è un bene da preservare, soprattutto perché di rendite di posizione il nostro paese già abbonda e quindi aumentare la concorrenza vale di per sé. Oltretutto sarebbe paradossale sostenere l’opportunità di una politica industriale continentale e dire poi di no a un gruppo europeo. Come con altri partner, si pensi alla Cina, quando si tratta di acquisizioni transfrontaliere è però legittimo esigere reciprocità e garanzie minime – in termini di sostenibilità dell’attività, dell’indotto, delle competenze e della capacità di progettazione.

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  1. Nonostante lo stile chauvisnista dell’inizio, forse (auto-)ironico, l’articolo tratta un tema importante. Nulla di strano per STX che produce pure navi militari; la storia, anche recente, di Finmeccanica è purtroppo conosciuta (senza che si possa sostenere che la Francia sia immune da questi vizi). Lo squilibrio nei servizi a favore degli investimenti francesi in Italia rispetto a quegli italiani in Francia ha ragioni evidenti non molto lusinghieri, direi di pura professionalità. Nel settore della moda, non menzionato, il differenziale si spiega piuttosto per la maggiore industralizzazione in Francia; la stessa cosa vale per l’agroalimentare e per l’alberghiero. Vogliamo aggiungere le banche e la finanza? Speriamo che nuovi investimenti francesi si concretizzino, per il bene del sistema italiano drammaticamente sottocapitlizzato. Forse ci sono oggi rammarichi (a Roma, s’intende) per la decisione Alitalia-AirFrance del 2008. Alla fine le conclusioni più interessanti sarebbero l’opposto di quelle che a tratti sembra sostenere l’autore: il fatto che investitori privati di un paese investono in un altro è normalmente un segno positivo per il secondo; si tratta della competizione internazionale per attirare investimenti diretti esteri. Perché in Italia si giudicano queste cose così importanti spesso alla rovescia? Un’idea ce l’avrei, ma sarebbe poco elegante esprimerla.

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