Con l’insediamento di Donald Trump, gli Stati Uniti potrebbero chiedere di uscire dal Wto e dal Nafta. La procedure sono tutto sommato semplici, meno chiari i vantaggi per l’economia americana. Ma davvero gli Usa vogliono denunciare i più importanti sistemi di regole ispirati al liberismo economico?
Uscire dai trattati? Si può fare
Durante la campagna elettorale, il presidente Trump ha ventilato la possibilità di uscire dai più importanti trattati sul libero commercio a cui gli Stati Uniti partecipano da molti anni, ossia il Nafta e il Wto. Il primo è un accordo di libero scambio tra i tre paesi del Nord America: Canada, Stati Uniti e Messico. Il secondo è invece l’organizzazione per la liberalizzazione del commercio su scala mondiale, a cui oggi partecipano 163 Stati e l’Unione europea. L’obiettivo dell’iniziativa di Donald Trump sarebbe avere le mani libere per imporre barriere tariffarie ai prodotti provenienti da alcuni paesi nei confronti dei quali la bilancia commerciale statunitense è fortemente deficitaria, in particolare il Messico e la Cina, ma anche la Germania, il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan.
Si può recedere dai due trattati? La risposta è positiva e, almeno apparentemente, l’operazione non è difficile. Il recesso dal Wto ha effetto dopo sei mesi dalla notifica unilaterale inviata al direttore generale dell’organizzazione. Anche per il recesso dal Nafta occorre una notifica scritta alle altre parti (dunque Messico e Canada) che ha effetto dopo sei mesi.
Diversamente dall’ormai notissimo articolo 50 Trattato sull’Unione europea, relativo alla procedura di recesso dalla UE, per i due trattati non sono previste negoziazioni dirette a regolare un’uscita ordinata, né si ipotizzano intese per disciplinare le “future relazioni” tra lo stato recedente e quelli che rimangono legati dagli accordi. Dopo sei mesi dalla notifica, dunque, gli Stati Uniti sarebbero svincolati da tutti gli impegni. Ciò tuttavia non eliminerebbe il tipo di problemi che sta incontrando il Regno Unito nel suo percorso verso il distacco definitivo dall’Unione.
Due ostacoli
Almeno due saranno i Brexit moments che Trump si troverà ad affrontare se veramente vorrà porre termine alla partecipazione degli Usa a tali trattati.
Il primo sarà quando occorrerà stabilire il ruolo del Congresso nella procedura di recesso. La Costituzione americana stabilisce – sebbene in maniera un po’ confusa – chi debba decidere per aderire a un trattato, ma è silente su quale sia il soggetto che ha il potere di sciogliere gli Stati Uniti da un impegno internazionale preso. Sicuramente il presidente ha il potere di esprimere la volontà degli Stati Uniti verso l’estero, ma, da un lato, l’adesione al Nafta e al Wto è stata votata dal Congresso, dall’altro, i due accordi, per produrre effetti concreti nell’ordinamento Usa, sono stati corredati da leggi interne di attuazione, ancora una volta votate dal Congresso. Pertanto, è possibile fondatamente sostenere che il recesso dichiarato dal presidente, per produrre effetti concreti, ha bisogno anche dell’assenso di entrambi i rami del parlamento americano. Il fatto che i repubblicani abbiano, per il momento, la maggioranza negli stessi non significa automaticamente che la volontà di Trump di far uscire il suo paese dai più importanti sistemi di regole ispirati al liberismo economico trovi una adesione incontrastata nella maggioranza dei congressisti.
Il secondo Brexit moment sarà quando si tratterà di stabilire quali relazioni avere con gli stati che fanno parte degli accordi che si sono abbandonati. Cominciando con quelli nei confronti dei quali si vogliono alzare barriere tariffarie, è facile ipotizzare che essi non subiranno passivamente le restrizioni imposte dagli Usa. A loro volta erigeranno barriere commerciali contro i prodotti americani, dunque i vantaggi per l’economia statunitense derivanti dall’incremento delle tariffe doganali saranno probabilmente superati dagli svantaggi provenienti dalla chiusura del mercati esteri nei confronti dell’industria americana. Stiamo parlando del mercato cinese, messicano, giapponese e così via. Inoltre, molti dei beni americani sono assemblati all’estero o hanno componenti fabbricate all’estero. Pertanto, i dazi doganali a cui sarebbero assoggettati, in realtà, minerebbero la competitività delle imprese Usa.
Per quanto riguarda gli stati verso i quali gli Stati Uniti non hanno un deficit commerciale, l’uscita dal Nafta e soprattutto dal Wto è una operazione sostanzialmente senza senso e che comporta costi significativi di rinegoziazione. Una volta fuori dal Wto, infatti, qualsiasi misura di intralcio al commercio interstatale presa da una delle parti è perfettamente lecita e se le si vuole evitare occorre ri-negoziare i termini degli scambi, ma non su un unico tavolo, bensì singolarmente con ciascuno dei 163 Stati e con la UE.
Per evitare le conseguenze negative descritte, si sono prospettate soluzioni apparentemente meno traumatiche: rimanendo membri del Wto, gli Stati Uniti potrebbero invocare la clausola che consente di derogare gli impegni presi per ragioni di sicurezza nazionale, oppure in alternativa, potrebbero semplicemente imporre dazi doganali illeciti nei confronti dei beni provenienti da alcuni paesi, fidando nell’incerto esito della controversia che ne seguirebbe e comunque speculando sul tempo necessario per trovare una soluzione.
Francamente non mi sembra che né la denuncia degli accordi Wto o Nafta, né le dubbie manovre dirette a ignorarne le regole siano degne dello Stato che, ancora adesso, si proclama campione del liberismo economico.
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fatti neri
salve, bisogna riconoscere che sul piatto della bilancia sociale questo liberismo sfrenato ha portato 8% della popolazione mondiale a detenere circa il 45% della ricchezza, in italia nello specifico il solo UNO% detiene circa il 25% della ricchezza ergo se da un lato queste persone si professano mecenati del lavoro riconosciuti come salvatori del’economia con le loro aziende fucine di posti di lavoro, dall’altro gli stati hanno fallito e con essi la ue in primis nella redistribuzione del reddito. analizzando il trend visto possiamo affermare che il sistema porta enormi capitali agli stessi soggetti i quali lo reinvestono per la maggiore in operazioni finanziarie niente affatto dedite a creare posti di lavoro con la risultante che gli stessi accrescono sempre più denaro sotto forma di titoli o partecipazioni aziendali mentre la massa stenta a sopravvivere alla perenne ricerca di una lavoro meglio retribuito dato che il liberismo porta grazie alla concorrenza all’abbattimento dei costi produttivi infatti vediamo come le produzioni vengono delocalizzate in paesi a loro convenienti. inutile dire bravo o meno trump, meglio dire che ha FALLITO la politica in generale con questo liberismo utile a pochi e dannoso a tanti.saluti