L’Europa torna a discutere di sé stessa. Se si ipotizzano forme diverse di integrazione, va evitato il rischio di ricadere nel modello intergovernativo. Mentre nell’Eurozona serve un equilibrio più ragionevole tra la necessità di ridurre i rischi e quella di consentire una crescita più omogenea.

Qualcosa si muove in Europa

A sessant’anni dalla nascita, l’Unione europea si trova di fronte a un passaggio fondamentale. Eventi come la Brexit, la crescita in molti paesi dei movimenti “sovranisti”, anti Europa e anti euro, l’evidente incapacità di affrontare problemi collettivi (dalla crisi dei rifugiati al terrorismo), il nuovo orientamento dell’amministrazione americana stanno convincendo anche i più restii tra i leader europei che qualcosa vada fatto, e presto, per recuperare consensi al progetto. Anche perché i sondaggi mostrano che esiste ancora un notevole supporto al processo di integrazione europea tra le opinioni pubbliche nazionali, che però rischia di erodersi in fretta, senza risposte chiare da parte delle istituzioni europee.
La lettera del presidente del consiglio europeo Donald Tusk ai 27 leader politici nazionali, certamente concertata con le principali cancellerie europee, o il discorso di Mario Draghi in Slovenia sull’euro impressionano per il senso di urgenza e per l’ampia agenda politica che propongono. La stessa Commissione, pur nell’ambito degli stretti vincoli del trattato di Lisbona, ha recuperato capacità di iniziativa politica e presenterà a marzo un “Libro bianco” sul futuro dell’Unione e dell’area euro.
Naturalmente, nulla di quanto viene ora discusso verrà applicato prima della fine delle tornate elettorali del 2017 e i risultati del voto in Olanda, Francia, Germania e, forse, Italia condizioneranno l’evoluzione futura. Una vittoria di Marine Le Pen alle presidenziali francesi, per esempio, significherebbe probabilmente la fine dell’esperienza dell’Unione europea (e della moneta comune) come la conosciamo. Tolto questo caso, ancora ritenuto improbabile dai sondaggi, le cose si rimetteranno sicuramente in moto dalla fine dell’anno. Ma per andare dove, come e con chi?

Verso una UE a cerchi concentrici

Un aspetto chiaro è che si va verso il superamento della visione della UE, iscritta nei trattati, “di un’unione sempre più stretta tra paesi”. Naturalmente, la UE non è mai stata davvero tale; come nel caso di Schengen o dell’euro, diversi paesi in diversi momenti hanno deciso di non aderire a determinate politiche comuni. Ma l’ideologia e il disegno istituzionale sottostante sono sempre stati costruiti sull’assunto che, prima o poi, tutti i paesi membri avrebbero finito con il convergere su un modello uniforme di integrazione. L’eterogeneità nelle posizioni dei diversi paesi, a partire da quelli dell’Europa dell’Est, ha reso sempre più evidente che per salvare alcune delle conquiste fondamentali raggiunte sia necessario pensare a forme diverse di integrazione.
Il modello istituzionale che si prefigura, dunque, più che a più velocità, è a più cerchi concentrici, dove tutti i paesi membri partecipano strutturalmente ad alcune politiche e solo alcuni ad altre. Come costruirlo sul piano istituzionale e come evitare il rischio di un’unione arlecchino, o un “club di club”, che finisca con il rimettere in discussione anche quanto finora raggiunto, è parte del problema che dovrà essere affrontato. Il rischio più serio è che prevalga l’ipotesi di un modello più intergovernativo che comunitario, nonostante il primo abbia mostrato già tutti i suoi limiti.
Un secondo elemento è che si andrà verso un ripensamento dell’allocazione delle funzioni tra livello europeo e nazionale. L’attuale sistema sembra aver portato a un eccesso di regolamentazione europea su alcune politiche e viceversa a un’assenza di Europa su altri temi che i cittadini percepiscono come fondamentali, dalla sicurezza interna, alla difesa, all’immigrazione. In discussione è soprattutto la struttura del bilancio europeo (si veda il recente rapporto di Mario Monti) per la sua eccessiva rigidità, la mancanza di trasparenza nelle forme di finanziamento, l’incentivo perverso al “giusto ritorno” e per la prevalenza di spese, come nella politica agricola comune, che appaiono datate rispetto alla situazione attuale. Anche in questo caso, bisognerà vedere se l’ondata riformista e il ripensamento che comunque l’uscita del Regno Unito imporrà, riuscirà a superare le resistenze non solo dei singoli paesi, ma anche dei corposi interessi che sul bilancio europeo trovano una loro cospicua fonte di finanziamento. Bisognerà anche vedere se – e in che misura – il processo di revisione si estenderà al lato sociale, offrendo forme di sostegno europeo, in aggiunta a quelli nazionali, ai cittadini spaventati dalla globalizzazione.
C’è poi la questione di quali paesi dovranno integrarsi di più. L’area dei paesi dell’euro sembrerebbe l’ovvia candidata per formare una sub-unione maggiormente integrata; e non c’è dubbio che per mettere in sicurezza la moneta comune siano necessari passi ulteriori oltre a quelli già fatti, dal completamento dell’unione bancaria, all’introduzione di strumenti di stabilizzazione macroeconomica a livello europeo, a una maggiore capacità di spesa a livello centrale. Ma qui il conflitto tra i paesi e la divergenza tra le economie hanno condotto a una pericolosa impasse che impedisce di trovare un equilibrio più ragionevole tra la necessità di ridurre i rischi, a partire dal controllo delle finanze pubbliche, e quella di condividerli e consentire una crescita più omogenea all’area. Se non si riuscirà a risolvere questo problema, l’area dell’euro resterà a rischio e con essa l’intera costruzione europea.

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*Massimo Bordignon è membro dell’European Fiscal Board

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