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Prof e professionista: se l’accademico ha due identità

Coniugare l’attività accademica con incarichi professionali esterni è difficile. Ma è pericolosa anche una cesura netta tra università e professioni. Il problema è particolarmente evidente per i giuristi. E va risolto con equilibrio e trasparenza.

Professore e professionista

Nelle discussioni sull’università italiana c’è – almeno in certi settori – un tema delicato che deve essere affrontato senza ipocrisie. È il rapporto tra attività accademiche e professionali, che naturalmente riguarda soprattutto le discipline “applicate”: vengono subito in mente settori della medicina, parte degli studi aziendalistici o economici e quasi tutte le materie giuridiche, ma anche ingegneria, architettura, informatica e persino scienze dure, quali la matematica, che hanno usi pratici essenziali, ad esempio nell’attività assicurativa.
Coniugare insegnamento e ricerca con incarichi professionali esterni è difficile e molti hanno dubbi sull’opportunità di farlo.
I pericoli sono evidenti: docenti che, troppo concentrati su incarichi professionali, trascurano i compiti accademici; usano il titolo come “mostrina” per generare business; sino a giungere a conflitti di interesse (se ne è spesso parlato per i medici). Qualcuno giustamente osserva che i bassi stipendi dell’università italiana, in alcune materie, sono talvolta tali anche per la perversa logica secondo la quale “l’università ti paga poco, tanto poi guadagni con le consulenze”.
Altrettanti possono essere però, per certe discipline, i pericoli di una cesura netta tra professioni e università. Quale studente di medicina vorrebbe apprendere i fondamenti della chirurgia da docenti che molto raramente, o quasi mai, operano? Una lezione di scienza delle costruzioni non è più ricca se chi la tiene progetta ponti? Per imparare il processo amministrativo, non è utile leggere gli studi di chi è spesso in un’aula di tribunale? Non è opportuno, per uno scienziato della politica, essersi fatto un “giro” in parlamento?

L’esempio anglosassone

Naturalmente servono due cose facili da enunciare, ma difficili da applicare: equilibrio e trasparenza. I dipartimenti universitari devono avere un corretto equilibrio, sia individuale che collettivo, tra attività accademiche in senso stretto e incarichi esterni. L’interazione tra studiosi e mondo delle istituzioni, delle imprese e la “società civile” genera idee, concretezza (quando serve), impone l’aggiornamento, offre spunti preziosi per didattica e ricerca e può aiutare i neolaureati a entrare nel mercato del lavoro. Se una deriva eccessivamente “professionalizzante” è discutibile, altrettanto lo può essere la proverbiale torre d’avorio. C’è bisogno di studiosi con approcci e prospettive diverse, che si integrino in modo armonioso.
Il problema è particolarmente evidente per i giuristi, per la delicata posizione che occupano tra teoria e prassi.
Diversi commentatori, guardando al mondo anglosassone, ammirano il fatto che in quei sistemi i docenti, peraltro meglio remunerati, si dedicano in via esclusiva all’università. Simili confronti sono però parziali e fuorvianti. Innanzitutto, è una leggenda che i professori americani (e forse ancor più inglesi) non svolgano – o quasi – attività professionali. Vi sono limiti, ma sono flessibili e nella discrezionalità dei rettori: appena possono, anche lì i docenti fanno volentieri consulenze. In secondo luogo, molti diventano professori dopo aver svolto per diversi anni attività professionale da avvocati, cosa difficile in Italia, dove per varie ragioni chi si allontana dall’università e dai propri “maestri” raramente riesce a “rientrare”. In terzo luogo, esistono altri modi per fornire ai discenti un forte contatto con la realtà professionale, difficili da organizzare in Italia anche per vincoli legali: ad esempio, con clinics e stages gli studenti sin dai primi anni rappresentano veri clienti in veri contenziosi.
D’altronde, se è vero che nel modello anglosassone si è sviluppata maggiore separazione tra accademia e professioni, ciò ha un costo proprio nelle materie giuridiche: diverse indagini empiriche confermano il sempre minor numero di riferimenti fatti dalla giurisprudenza alla dottrina; e basta partecipare a un convegno per rendersi conto che attorno al tavolo ci sono studiosi e professori, magari qualche regolatore, ma mancano o sono pochi gli avvocati, i giudici, gli operatori. Secondo un celebre studio, ad esempio, negli anni Settanta il numero di citazioni della dottrina da parte della Corte federale d’appello di New York era circa sei volte quello del 2007 e un simile decremento riguarda la Corte Suprema. Risultati analoghi si trovano in un recente e approfondito contributo di un giurista di Georgetown. Sebbene altri lavori offrano un quadro più confortante, è verosimile che il “tipo” di citazioni sia cambiato: più riferimenti generali e di contorno che contributi usati per risolvere problemi applicativi.
Chi studia le attività umane, siano esse i contratti derivati, il processo penale, la costruzione di ferrovie o le patologie del pancreas, dovrebbe farlo per comprendere la realtà e, ove utile, cambiarla. Se tutti lo fanno da troppo lontano, c’è il rischio di perdere dettagli importanti.

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  1. Tempesta Tiziano

    In Italia i docenti che desiderano fare la libera professione possono scegliere il tempo parziale. In questo modo vi è la possibilità che chi si dedica a tempo pieno all’attività universitaria, per scelta personale o perché non esiste la possibilità di svolgere attività professionali, riceva una remunerazione adegauta al maggior tempo profuso nelle attività accademiche. Allo stato attuale vi sono docenti universitari che di fatto sono dei liberi professionisti che spesso sono assenti o mandano a sostituirli i cosidetti assistenti (cioè assegnisti, dottorandi, ecc.) cioè persone senza alcuna adeguata qualifica. In certi settori disciplianri la cosa è assoltamente scandalosa tanto più che lo stipendio che ricevono è del tutto indipendente dall’attività scientifica svolta. Inoltre questi docenti svolgono una concorrenza sleale nei confronti dei liberi professionisti poiché si possono avvantaggiare del titolo accademico. Una soluzione al problema dovrà essere necessariamente trovata se non si vogliono perpetrare le pesanti discriminazioni tra il corpo docente attualmente esistenti.

  2. Discutere questo delicato argomento in 500 parole è impossibile.Tuttavia posso sicuramente giudicare immorale che un chirurgo ,prof universitario,titolare i una U.O.universitaria,operi anche in una struttura sanitaria privata.E questo è solo un esempio.Ciò detto,forse,andrebbero ridefiniti i limiti invalicabili tra Prof Universitari e libera professione.Se gli stipendi dei Professori Universitari sono bassi,alziamoli e basta.Non sia questa la scusa per mescolare impegno di ricerca e libera professione.Troppo banale!

  3. Giovanni Maria Fumarola

    Mi ricorda tanto il “Tullio Ascarelli avvocato” raccontato da Stella Richter…

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