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Classifiche degli atenei, istruzioni per l’uso

I ranking internazionali delle università vanno interpretati in modo intelligente per analizzare punti di forza e punti di debolezza dei nostri atenei e le conseguenti politiche di intervento. Cosa cambia se si amplia il numero delle sedi considerate.

Il significato dei ranking

Periodicamente si torna a discutere della qualità delle università italiane e del loro posizionamento nei ranking internazionali. Spesso, le discussioni sono avviate da fatti di cronaca (il barone di turno, la fuga dei cervelli, per esempio). In altri casi, il dibattito è innescato dalla pubblicazione stessa dei ranking, che generalmente non vedono università italiane nelle posizioni di testa.
In realtà, esistono più ranking che utilizzano criteri alquanto diversi tra loro e che, in generale, non misurano in modo scientifico la qualità di un ateneo. Serve interpretarli in modo intelligente per analizzare punti di forza (che non mancano), punti di debolezza e conseguenti politiche di intervento.
Un recentissimo articolo pubblicato sul sito del World Economic Forum analizza il posizionamento degli atenei nel contesto dell’offerta complessiva di ciascun “sistema paese”. In particolare, riporta alcuni dati elaborati a partire dall’Academic Ranking of World Universities della Shanghai Jiao Tong University e Webometrics.
Una prima elaborazione è quella di figura 1: illustra sul lato sinistro la distribuzione per paese delle prime duecento università al mondo e, sul lato destro, per ciascun paese la percentuale di università Top 200 rispetto al numero totale di atenei presenti nel paese.

Figura 1

Fonte: World Economic Forum (2017)

Come si vede, al primo posto come numero di università tra le prime 200 figurano gli Stati Uniti con 92 atenei. Nella graduatoria di destra, tuttavia, gli Usa scendono al tredicesimo posto. In poche parole, le 92 università top rappresentano solo il 2,8 per cento degli atenei del paese: vi sono molte eccellenze, ma il paese nel suo complesso è più debole di quel che normalmente si immagini.
L’Italia ha solo cinque atenei tra i primi 200, che rappresentano il 2,1 per cento del totale.

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Eccellenze e qualità media

Bisogna peraltro riflettere su cosa significhi considerare duecento atenei. Secondo Webometrics, a seconda del criterio di classificazione utilizzato, il numero di atenei nel mondo (che include anche istituti di alta formazione) varia tra 20mila e 40mila. Se anche considerassimo il limite inferiore, 200 atenei su 20mila rappresentano l’1 per cento di quelli esistenti. Se portassimo il valore a 500 e 1.000 (come in effetti ha fatto l’autore dell’articolo citato), comunque staremmo considerando rispettivamente solo il 2,5 e il 5 per cento degli atenei presenti a livello mondiale.
Ebbene, estendere l’analisi della percentuale di atenei di un paese presenti nel ranking considerando queste soglie più ampie porta a considerazioni molto interessanti.

Figura 2

Fonte: World Economic Forum (2017)

Se consideriamo le università Top 500 (figura 2), vediamo che la percentuale di atenei degli Stati Uniti crolla al 5,1 per cento rispetto al 7,2 per cento dell’Italia.

Figura 3

Fonte: World Economic Forum (2017)

Se consideriamo poi le università Top 1000 (che costituiscono pur sempre il top 5 per cento degli atenei al mondo, figura 3), gli Stati Uniti scendono ancor più giù nella classifica relativa alla percentuale degli atenei presenti, mentre l’Italia sale al quinto posto.
Letto in altro modo, in Italia il 20 per cento circa delle università del paese offre una formazione da Top 1000. In Usa sono solo l’8,4 per cento e in Francia la percentuale scende al 7,5 per cento.
A scanso di equivoci, è bene affermare che questi dati non devono consolare o indurre in un ottimismo fuori luogo. Certamente, testimoniano di un sistema che nel suo complesso offre delle prestazioni per nulla disprezzabili.
Tali considerazioni sono ancora più significative se consideriamo l’investimento in istruzione. Come si vede dalla seguente tabella (fonte Ocse), l’Italia è penultima nella percentuale di spesa pubblica dedicata alla formazione.

Figura 4 – Spesa pubblica in istruzione sul totale della spesa pubblica

Fonte: Education at a Glance 2016: Oecd Indicators (2016)

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In sintesi, non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte ai problemi delle nostre università. Non dobbiamo nemmeno ignorare le indicazioni che emergono dall’analisi dei vari ranking pubblicati a livello internazionale. Dobbiamo però valutare in modo organico e approfondito il loro significato. In primo luogo per evitare caccia alle streghe, cattiva informazione e sottovalutazione degli aspetti positivi. In secondo luogo, ancor più importante, per disegnare politiche che colgano nel modo migliore la realtà dei fatti e i problemi che abbiamo sul tappeto.
Interessante la conclusione dell’articolo citato: “Ciò che interessa al cittadino medio non è tanto che il suo paese abbia istituzioni come Stanford od Oxford, quanto la qualità delle università che i suoi figli con ogni probabilità frequenteranno. Compito dei politici è perciò garantire che un’educazione terziaria di alta qualità sia accessibile a tutti e non solo a una élite. Una istruzione superiore inclusiva potrebbe colmare le divisioni sociali che dividono la società” (What matters to the average resident of a country is not whether it has schools like Stanford or Oxford, but rather the quality of the universities their children are likely to attend. Here policy-makers will need to remember to ensure that high-quality tertiary education is accessible to all, not just the elite. Inclusive higher education could bridge the social divides that separate society).

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Titoli di stato e banche, un binomio possibile

  1. Alessandro Sorrentino

    Finalmente qualcuno si occupa del ruolo dei sistemi universitari nel promuovere il livello culturale e scientifico di un paese e non solo di costruire “primi della classe”. Qualcuno che vinse un premio Nobel, se non ricordo male, una volta disse il merito del suo premio Nobel va in buona parte a tutti quei ricercatori che non l’hanno vinto perché questi con il loro lavoro gli hanno dato la possibilità di escludere dal suo lavoro tutte quelle traiettorie ed esperimenti che non portavano ad un risultato rilevante!

  2. Giovanni Federico

    Non è possibile comparare i college locali americani alle università italiane, come l’autore sa benissimo. Garantiscono una preparazione poco più che liceale ad una percentuale molto maggiore della popolazione di riferimento. Per un confornto accurato, bisognerebbe considerare anche la percentuale di iscritti all’università sulla popolazione

    • Vorrei ricordare che:
      1. Il confronto è stato fatto dal collega dell’Insead e pubblicato sul WEF.
      2. I dati sono stati raccolti in modo omogeneo considerando le diverse tipologie di istituzioni (anche per l’Italia).
      3. Stiamo parlando della qualità dell’offerta e non della struttura della domanda.

  3. Marcello Romagnoli

    Cominciamo col dire che questi ranking, a mio modesto parere, non valgono la carta su cui sono scritti. Perchè? A causa della scelta degli indicatori che sono per la maggior parte legati ai fondi che hanno gli atenei (statali o privati che siano). Inoltre la realtà universitaria non è misurabile. Ha la stessa difficoltà del misurare un sentimento come l’amore o l’odio. Diciamoci la verità: l’università italiana, che ha luci e ombre come tutte le realtà universitarie del mondo (vogliamo parlare del problema dei prestiti d’onore in USA?), deve essere privatizzata perchè è un bacino di mercato in cui molti si vorrebbero tuffare. Allora è partita la lunga, ma costante opera di demolizione mediatica (il barone che ha fatto baronessa la sua amante che però se la fa col figlio del Rettore che però è innamorato del bidello che spaccia spinelli nell’ora della ricreazione davanti alle scuole invece che stare in guardiola) che da il via alla politica dei tagli alle risorse (-30% in meno di fondi; – 20% di personale negli ultimi 10 anni) che provocherà una ulteriore caduta delle classifiche internazionali che si basano per lo più sui fondi ricevuti.

    Fino a che non abbiamo il coraggio di dire questo non sarà possibile fare alcun passo in avanti nella discussione sulle università italiane.

  4. Umberto

    Davvero interessante.
    Giustifica il perché lo studente medio universitario italiano è comunque molto aprezzato all’estero.

  5. Luciano Leonetti

    Molte osservazioni: 1) esistono molti ranking, ma in tutti le universita’ italiane si vedono dalla centesima posizione in poi. 2) I metodi di ranking scelti sono quelli particolarmente compaicenti con le universita’ italiane; peraltro, non ne conosco altri in cui ci sia una sola universita’ spagnola o francese fra le prime 200. 3) Se parliamo di qualita’ per riferirla ad un sistema, la dimensione conta. Rispetto ad un sistema paese, un conto e’ avere La Sapienza ben piazzata, un altro avere l’Universita’ di Pisa

    • 1) è esattamente il tema dell’articolo che cerca di capire quel che succede. Peraltro, la sua critica fa cherry picking al contrario: se WEF (non io) prende le top duecento, allora non va bene e si prendono le top 100.
      2) Il ranking usato da WEF (non da me) è quello di Shanghai che viene citato sempre per criticare le università italiane. Non si capisce cosa voglia dire “compiacente”.
      3) MIT ha 11.000 studenti, molti meno di Pisa e circa un terzo del Politecnico di Milano. Quindi MIT non conta? Oppure quelle che contano devono essere piccole? Non si capisce.

      Il mio articolo voleva dire proprio che bisogna smetterla di prendere i ranking e usarli in modo strumentale per proporre tesi precostituite.

    • 1) È esattamente quello che cerca di spiegare l’articolo. Su 20.000 atenei, peraltro, 100 atenei sono lo 0,5% e 200 sono l’1%.
      2) Il metodo scelto dal collega dell’Insead (non da me) per l’articolo su WEF é quello di Shanghai che in generale più penalizza gli atenei italiani.
      3) Non capisco il commento: MIT ha 11.000 studenti. Caltech poco più di 3.000. PoliMi quasi 40.000 quindi?

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