Un parere dell’avvocatura generale della Corte di giustizia europea potrebbe rappresentare un freno per lo sviluppo dell’economia degli asset dormienti. Perché ad alcune piattaforme si applicherebbe la regolazione della componente fisica del servizio.
Un mondo di servizi misti
L’11 maggio 2017 l’avvocato generale della Corte di giustizia europea ha espresso un parere sul caso UberPop sollevato dal tribunale di Barcellona (Case C 434/15 Asociación Profesional Elite Taxi v Uber Systems Spain SL). Al parere seguirà la sentenza della Corte, che di norma vi si adegua. Il parere articola un complesso e dettagliato ragionamento legale molto pericoloso per lo sviluppo di quella che viene impropriamente definita sharing economy e che sarebbe invece più corretto chiamare dormant asset economy, l’economia degli asset dormienti.
Per analizzare la controversia fra taxi e Uber, l’avvocatura si chiede se Uber può essere considerato un servizio della società dell’informazione: il quesito non è accademico, perché in caso di risposta positiva si applicherebbero a Uber le norme della direttiva europea sui servizi, con il relativo divieto agli stati membri di ostacolarne il pieno sviluppo se non per ragioni straordinarie, come quelle relative alla sicurezza.
Molti di questi servizi sono misti, cioè hanno due componenti: la componente digitale e quella fisica. Se si considera ad esempio l’e-commerce, la prima componente relativa alla ricerca, al confronto e alla conclusione dell’accordo si svolge sul web, mentre la seconda, la consegna del bene, non può essere dematerializzata. Tuttavia, ragiona l’avvocatura, i beni oggetto di e-commerce, così come i servizi oggetto di prenotazione on-line (viaggi, hotel) esistono indipendentemente dalla piattaforma e sono trattati e venduti su altri canali. Un servizio misto, ragiona l’avvocatura, può essere considerato un servizio della società dell’informazione se la componente fisica (la consegna, in questo caso) è economicamente indipendente e costituisce solo l’adempimento di una obbligazione contratta on-line (punto 36 del parere).
Al contrario, secondo l’avvocatura, i passaggi organizzati dalla piattaforma Uber, che fa incontrare autisti e passeggeri attraverso uno smartphone, esistono solo grazie alla piattaforma, senza la quale gli autisti non esisterebbero. La messa in contatto di autisti e passeggeri non è self-standing e non è la componente principale del servizio misto: non avrebbe quindi, secondo l’avvocatura, un valore economico in sé (punto 63 del parere). Inoltre, l’avvocatura giustamente non considera Uber un puro intermediario, poiché organizza il servizio, ne controlla indirettamente la qualità, lo dirige e ne stabilisce i prezzi.
Due punti deboli
La linea di ragionamento, probabilmente coerente sul piano del diritto, si espone a una controdeduzione e si fonda su due punti deboli.
La controdeduzione è che se è vero che ciò che esiste solo “grazie a” “appartiene a”, allora i servizi fisici non indipendenti dalla componente digitale offerti da piattaforme sono “figli” del digitale e quindi società dell’informazione.
Il primo punto debole riguarda i fondamenti del concetto di creazione di valore economico. Negare questo crisma alle piattaforme e alla loro attività di rimozione/riduzione dei costi di transazione attraverso la raccolta, il trattamento e la distribuzione di informazioni non pubbliche contraddice una mole rilevante di letteratura economica, oltre alla evidenza aneddotica che emerge dalla osservazione dei mercati in cui operano intermediari.
Il secondo punto debole, che in realtà fonda e sostiene il ragionamento che porta al primo, riguarda la natura della compente fisica del servizio, che l’avvocatura ritiene non indipendente: il passaggio in auto nel caso Uber, oppure il pasto nel caso degli home restaurant o un lavoretto svolto attraverso HelloAlfred se si vuole estendere il ragionamento ad altri comparti in cui operano piattaforme. In realtà, l’esistenza di asset dormienti può trasformarsi in offerta di beni e servizi anche senza l’intermediazione di piattaforme, per esempio grazie alle reti personali del proprietario dell’asset (conoscenze personali, social media, pubblicità informale): naturalmente le piattaforme permettono lo sviluppo della offerta su scala molto più ampia, ma non ne determinano la esistenza o meno.
La conseguenza regolatoria del parere è che alle piattaforme che non sono self-standing, non creano valore e non sono la componente principale di servizi misti non si applicano le norme dei servizi della società dell’informazione, ma quelle della regolazione esistente nei servizi cui appartiene la componente fisica del servizio. Così, il freno all’innovazione sarebbe enorme.
Un nuovo approccio regolatorio dovrebbe invece riconoscere la prevalenza della innovazione e della creazione di valore sui vincoli della regolazione di settore, il cui campo di applicazione andrebbe fatalmente ridimensionato, o depotenziato, in sede normativa o giurisdizionale, per fare spazio a migliori servizi a prezzi competitivi nei settori della mobilità, del cibo, della accoglienza del lavoro e della finanza.
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