La globalizzazione genera perdenti e il welfare state non è capace di rispondere alla loro domanda di protezione. A fornire ricette semplici sono i movimenti populisti, di destra e di sinistra. L’Italia sembra terreno fertile per vederne l’affermazione.
I perdenti della globalizzazione
In un suo recente saggio Dani Rodrik, economista della Harvard University, discute dei rapporti tra la globalizzazione e la nascita di movimenti politici populisti.
I primi movimenti definiti populisti risalgono agli Usa alla fine del 1800 in seguito all’introduzione del Gold Standard. Oggi Rodrik denota come tali, tra gli altri, Syriza e Podemos in Europa, Donald Trump negli Usa e più in generale i movimenti che si oppongono alla globalizzazione nelle sue varie forme, che si dicono anti-establishment e che spesso hanno un debole per i governi autoritari.
La prima osservazione di Rodrik è che non dovremmo essere sorpresi dal successo dei movimenti populisti. Uno dei risultati più robusti della teoria economica è che in seguito alla liberalizzazione degli scambi almeno un fattore di produzione sta peggio di prima. In altre parole, è impossibile godere dei benefici creati dalla liberalizzazione degli scambi senza creare dei perdenti.
La seconda osservazione di Rodrik è che il rapporto tra effetti redistributivi e benefici delle liberalizzazioni cresce al diminuire dell’entità delle barriere commerciali. Quindi, mano a mano che le barriere commerciali si riducono, ulteriori liberalizzazioni diventano più costose per chi subisce gli svantaggi della globalizzazione.
Naturalmente lo stato può effettuare un’opera di redistribuzione tra chi ne è avvantaggiato e chi ne è svantaggiato. L’obiettivo del welfare state è proprio quello di evitare che chi è in difficoltà subisca le conseguenze più estreme. Ma i governi differiscono per la loro propensione a redistribuire e anche per la loro efficacia nel farlo. Il risultato è che una vera compensazione per i perdenti non esiste in nessun paese.
È vero che la globalizzazione non è l’unico fattore che genera una perdita di redditi e di posti di lavoro. Lo stesso effetto è prodotto dal cambiamento tecnologico. Una differenza importante, secondo Rodrik, è che spesso l’apertura dei mercati favorisce imprese che operano in paesi che non rispettano gli standard di sicurezza imposti in quelli sviluppati o che usano lavoro minorile. Questo genera un senso di iniquità che non viene invece associato al progresso tecnico.
L’altro fattore, oltre al commercio internazionale, associato alla globalizzazione è la mobilità dei capitali. La possibilità di finanziare progetti redditizi anche in paesi dove i capitali sono scarsi o quella di assorbire shock temporanei, dovrebbero rendere preziosi i movimenti finanziari. Ma essi sono associati anche al finanziamento di bolle speculative, come quella immobiliare, e alle recessioni che seguono il loro scoppio. Inoltre la mobilità dei capitali ne riduce la possibilità di tassazione, creando iniquità rispetto a fattori meno mobili come il lavoro, che hanno visto nel tempo ridurre la loro frazione di reddito.
Domanda di protezione
Tutti questi fattori generano una domanda di protezione che viene soddisfatta dai movimenti populisti in modo diverso. I populismi di destra, secondo la definizione di Rodrik, identificano l’avversario delle classi popolari di cui dicono di voler fare gli interessi secondo fattori etnici o culturali (gli immigrati, i musulmani) e trovano terreno fertile in paesi colpiti da forti ondate migratorie. I populismi di sinistra invece usano fattori sociali come la distribuzione del reddito o le classi sociali (la casta dei politici, la burocrazia di Bruxelles). Ovviamente, nulla esclude che i due tipi di populismo siano presenti contemporaneamente, come si è visto nella recente campagna presidenziale americana.
Luigi Guiso, Helios Herrera e Massimo Morelli mostrano empiricamente che redditi più bassi e insicurezza economica si traducono in maggiore astensionismo, più voti per i populisti e minore fiducia nei governanti in carica. Inoltre, gli autori mostrano come sia difficile che sorga un partito capace di intercettare i voti di chi vede i pericoli di un’eccessiva enfasi su protezione e guadagni di breve periodo. È arduo controbattere in modo efficace alla retorica anti-establishment e spesso più semplice importarla nelle proprie piattaforme elettorali. Le idee dei populisti prendono forza sia direttamente, attraverso la crescita dei partiti che a esse si ispirano, sia indirettamente, influenzando le politiche dei partiti tradizionali.
Se queste considerazioni sono accurate, non si può non osservare che l’Italia, con la sua forte apertura commerciale e finanziaria, con la pressione migratoria alla quale è sottoposta e con rilevanti inefficienze e squilibri nel suo welfare state, è il candidato ideale per ospitare una tempesta perfetta del populismo.
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Savino
In Italia il terreno è ancor più fertile per la presenza di un fenomeno ulteriore, più unico che raro: la lamentela dei falsi poveri, che si sentono intaccati da ogni minima presenza dello Stato nella loro vita. Così, i veri poveri, davvero bisognosi per le conseguenze della crisi, per la cattiva gestione della globalizzazione e per tutte le ragioni correttamente esposte nell’articolo, per onorare la dignità non si lamentano, mentre “il partito della protesta” degli “indignati della domenica” si alimenta di proprietari di appartamenti che non vogliono pagare l’IMU, più volte richiesta dall’UE, e di gente che ha i soldi sotto il materasso. Non è un caso che, queste persone, ieri facevano i grillini indignati, oggi stanno ritornando col populismo del “miracolo italiano d.o.c” di Berlusconi. Oggi, un vero economista, intenzionato a risolvere la crisi e alla equa distribuzione della ricchezza deve sapere distinguere tra bisognosi e furbetti, compresi i furbetti del cartellino, delle pensioni d’oro, delle baby pensioni, delle false invalidità, dei privilegi vari. Fatta questa distinzione, tra chi paga davvero lo scotto e chi si è arricchito, tutto sarà più semplice, soprattutto per le politiche del welfare e del fisco.
Giovanni
Mi sa che la legge di Lavoisier della fisica “Nulla si cre e nulla si distrugge, Tutto si trasforma” si possa applicare anche all’economia. Il concetto di”quella macchina qua devi metterla la..”. E’ infatti vero che larga parte del mondo asiatico che una volta stava alla fame ha raggiunto situazioni economiche migliori, ma a mio avviso questo è specularmente avvenuto a danno degli occidentali che vedono drastivamente ridotto il proprio tenore di vita. Alla fine non si tratta di un aumento dell’economia globale ma semplicemente di spostamento di benessere da una zona del mondo all’altra, la qual cosa non avverrebbe se ci fosse invece un vero aumento globale della economia.Il delta tra le due situazioni è dovuto alla tecnologia.
Michele Zazzeroni
Quanto al nesso tra populismo e questione migratoria io credo che si continui a non vedere il punto. Il sentimento di preoccupazione di fronte a migliaia di migranti non si spiega solo in termini economici (mi verrebbe da dire marxiani). Il senso di preoccupazione coinvolge tutti, inclusi i ceti abbienti e protetti. E perché? Perché evidentemente esistono anche ragioni diverse, legate alla cultura profonda, al modo di vivere. Alle quantità. Cinquecentomila mila arrivi da Africa e Asia (quindi con un enorme gap culturale e valoriale) in cinque anni o giù di lì non possono non essere percepiti come un’anomalia, qualcosa che va a smuovere le acque profonde degli equilibri e delle convivenze. E’ oggettivamente un’importazione netta di medio evo. Non buttiamo allora tutto in razzismo, parola che qui non ha senso e da cui sono lontanissimo. Cerchiamo di approfondire bene le conseguenze di breve e di lungo periodo dei fenomeni in corso, senza ipocrisie, perbenismi, buonismi e cattivismi.
Nicola
“oggettivamente un’importazione netta di medio evo”. Cosa significa?
Fra i paesi siamo ultimi per laureati (insieme alla Turchia), persino il Messico ed il Cile ci sopravanzano (e Portogallo… Estonia)… e sempre secondo uno studio Ocse fra pochi anni non solo l’Italia non sarà in nessuna graduatoria, ma paesi come Arabia Saudita (!!!!!) e Indonesia (!!!!) saranno fra le prime nazioni al mondo per laureati in discipline di punta.
Tutto questo mentre gli investimenti in istruzione e cultura vengono tagliati da 20 anni e così gli stipendi degli insegnanti.
Sicuramente saremo però fra i primi per pulsioni razziste.
Michele Zazzeroni
Francamente, nel valutare l’assenza di valori come laicità, parità uomo-donna, libertà religiosa, istituzioni democratiche il metodo del titolo di studio conta poco. Il caso che lei cita dell’Arabia Saudita è lampante. Sarà anche piena di laureati e laureate, ma sui valori sarà sempre agli antipodi dell’Europa (occidentale).
Paolo Ottomano
Il “bello” di chi si identifica con i movimenti populisti (è una mia opinione ma non l’ho mai documentata su un campione sufficientemente ampio di persone, solo su tanti miei conoscenti) è che tanti di loro usano ogni giorno prodotti “made in qualsiasi altra parte del mondo” fuorché l’Italia. Se fossero coerenti, o solo informati, smetterebbero di comprare smartphone, computer o vestiti che “forse” provengono da aziende che sfruttano i lavoratori, magari con la complicità di governi deboli che così possono vantarsi comunque di aver “creato posti di lavoro”.
shadok
La cosa più preoccupante è che i movimenti populisti nel caso riescano a prendere il potere falliscono tragicamente e nel contempo riescono a disarticolare la società civile; poi il ritorno ad un sistema democratico risulta sempre molto duro…
enzo
Ma siamo così sicuri che il populismo sia questa cosa nuova e legata alla globalizzazione? più di un secolo fa l’industrializzazione capitalista portò tante proteste. Il socialismo non era forse populista ? in molti luoghi le sue ricette sono state un disastro ma altrove ha portato la redistribuzione socialdemocratica o il welfare. Pensiamo forse che queste cose si sarebbero realizzate comunque anche se nessuno si fosse agitato un po’? Un’altra cosa : se poi in queste bizzarre democrazie, quando arriva il momento della conta gli scontenti sono più dei contenti che facciamo ? li buttiamo perché l’economia per funzionare ha bisogno di solidarietà o forse non dovrebbe essere l’economia , o meglio la politica economica a dover cambiare rotta . il 90% della ricchezza mondiale è detenuta da una frazione minima della popolazione ma quando giunge il momento di parlare di spesa pubblica e imposte i governi si rivolgono alla numerosa platea di poveracci e sedicenti benestanti
Marco Spampinato
Una volta inglobata nell’ideologia sociale, la retorica conservatrice che divide il mondo in “vincenti” e “perdenti” -rifiutando concetti più complessi e interpretazioni più articolate- modifica il linguaggio, la percezione dei fenomeni e le risposte politiche di massa. Parole come “protezione” e “barriere”, così come verbi che enfatizzano il bisogno di “difendersi da”, sostituiscono alternative concettuali inscritte in una diversa concezione teorica del cambiamento economico e sociale. In teorie alternative all’economics conservatrice, il cambiamento è immanente nella storia umana (le società sono sempre in trasformazione): non c’è un orientamento o un fine predeterminato nella storia. Il cambiamento chiede quindi costanti forme di sostegno o indirizzo pubblico, più o meno estese. Nascondere la profonda differenza di disposizione mentale tra chi accede a teorie economiche diverse – ciò che hanno fatto abilmente gli economisti neoclassici -, può fomentare disperazione sociale durante le crisi, favorendo l’ascesa di governi autoritari. In Italia, l’economics conservatrice ha conquistato un monopolio culturale forse più totalizzante che altrove. La forza sociale della teoria -e delle “coerenze” che suggerisce nella mentalità di massa- è sottovalutata anche dai marxisti meno colti. Sono le idee e i concetti a motivare l’agire politico, non solo il vuoto o pieno dello stomaco. Chi è causa del suo mal pianga se stesso; o studi e cambi teoria.
un lettore
“Quindi dobbiamo rischiare l’azzardo di uscire dall’euro?
E’ una decisione politica: dipende quanta disoccupazione la gente è disposta ad accettare e per quanto tempo. Ma se continuiamo così ci sarà presto un’altra crisi come quella del 2010 e 2011. Se un Paese lascerà l’euro non sarà piacevole, ma non sarà neppure un disastro: va confrontato con l’alternativa, e se è un altro decennio di bassa crescita e alta disoccupazione… Certo, ci sarebbe un periodo di caos, almeno in apparenza, ma nel giro di un paio di anni l’economia fuori dall’euro tornerebbe a crescere rapidamente.
Che soluzioni suggerisce?
I leader dovrebbero andarsene da qualche parte per un weekend, senza giornalisti e senza comunicati, e discutere sulle quattro opzioni che hanno davanti, di cui parlo nel libro: 1) continuare così con alta disoccupazione nei Paesi periferici in eterno 2) accettare l’inflazione in Germania 3) Germania e Olanda pagano per gli altri 4) rompere l’euro. Una combinazione di queste opzioni è inevitabile, continuare come se niente fosse è impossibile.”
Tratto dall’intervista di Stefano Feltri a Mervyn King, pubblicata sul “Il Fatto Quotidiano” del 6 Aprile 2017.
Mi permetto sommessamente di porre una domanda alla cortese attenzione del Professor Panunzi. Chiar.mo Professore, nella sua opinione di esperto, ritiene che Sir Mervyn King sia un populista?
In attesa di un cortese riscontro, porgo distinti saluti.
Thomas Tosco
Ho letto questo articolo sul fatto quotidiano per vedere i commenti:erano tutti contrari alle argomentazioni, e favorevoli a considerare il populismo in termini positivi. E a vedere l’economista come ‘pakato dalla ka$ta’. Perché non poniamo il tema strutturale della complessità che non può essere semplificata troppo altrimenti corre il rischio di diventare slogan, mistificazione, banalizzazione?