Una sentenza della Cassazione apre al riconoscimento di condanne a danni punitivi emesse in altri paesi. Finora ciò non era possibile perché l’ordinamento italiano prevede solo risarcimenti compensativi. Ma è necessaria una legge che regoli la materia.
Due visioni diverse
Per come si è evoluto negli ordinamenti giuridici di common law, l’istituto dei punitive damages (danni punitivi) consente al giudice di condannare il responsabile di un illecito civile, specie se commesso intenzionalmente o con grave negligenza, a corrispondere al danneggiato una somma di denaro superiore all’equivalente monetario del pregiudizio da questi patito. Ciò costituisce una deviazione di estremo rilievo rispetto al principio, operante nei sistemi di civil law, dell’integrale riparazione del danno, in forza del quale la quantificazione del risarcimento non deve discostarsi (né per difetto né per eccesso) da quella necessaria a portare il danneggiato allo stesso livello d’utilità in cui si sarebbe trovato in assenza dell’evento lesivo.
Al fondo dei due diversi approcci al tema si pongono con tutta evidenza opposte letture delle funzioni ascrivibili all’illecito civile extracontrattuale. Mentre i sistemi della tradizione continentale, e tra questi quello italiano, hanno storicamente visto nella responsabilità extracontrattuale un istituto ispirato a finalità esclusivamente compensative, l’impiego di danni punitivi si accompagna, Oltreoceano, al riconoscimento del ruolo deterrente proprio della law of tort, focalizzata non già (esclusivamente) sulla posizione della vittima, quanto piuttosto volta a sanzionare, e quindi a prevenire, condotte potenzialmente lesive da parte dei consociati.
La sentenza della Cassazione
In Italia, la tensione tra tali contrapposti orientamenti interpretativi è emersa con particolare chiarezza di fronte a richieste di delibazione che concernevano sentenze ultracompensative emesse da autorità giurisdizionali straniere, escluse sino a oggi proprio in forza della pretesa contrarietà con l’ordine pubblico di un risarcimento del danno associato “all’idea della punizione e della sanzione” (così Cassazione 1183/2007), o quantificato in modo tale da superare “la richiesta dell’attore senza che sia dato rinvenire la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale” (così Cassazione 1781/2012).
Si può ben comprendere perciò l’estrema rilevanza della sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017, con la quale le Sezioni unite della Cassazione hanno per la prima volta aperto al riconoscimento interno di condanne a danni punitivi emesse in sistemi giuridici nei quali la disponibilità del rimedio ultracompensativo sia esplicitamente prevista dalla legge. Muovendo da una serie di indici normativi presenti nella legislazione ordinaria, la Suprema Corte ha esplicitamente escluso che la responsabilità civile italiana sia intrinsecamente incapace di aprirsi a scopi diversi da quello compensativo, ritenendo invece interne al sistema anche la funzione di prevenzione e quella sanzionatoria.
Queste statuizioni non costituiscono esclusivamente un superamento della chiusura verso il riconoscimento di provvedimenti stranieri, ma rappresentano, in termini più ampi, un chiaro segnale di apertura dell’argomentazione giurisprudenziale a una riflessione già affermatasi nella dottrina italiana, ove, negli ultimi anni, si sono registrati sempre più pressanti inviti al riconoscimento della valenza polifunzionale della responsabilità civile e alla ridefinizione dei compiti di deterrenza che, specialmente in alcuni settori di attività, possono ricondursi all’illecito.
La recente sentenza delle Sezioni unite chiarisce come l’istituto dei danni punitivi, espressione della più ampia categoria delle “pene private”, può trovare generale legittimazione nel diritto interno esclusivamente attraverso un puntuale intervento legislativo, conformemente al principio sancito all’articolo 23 della Costituzione. Mi pare che ciò debba sollecitare l’intera comunità scientifica a un dibattito sui possibili impieghi che, di qui in avanti, possono essere assegnati a tale tipo di rimedio, in modo tale da orientare le prossime scelte del legislatore per quello che, anche nel nostro ordinamento, potrà essere un impiego esplicitamente regolatorio dall’istituto della responsabilità civile.
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