Uno degli effetti del Quantitative easing è aver tenuto basso il valore dell’euro. Che ora invece torna ad apprezzarsi verso il dollaro. Le conseguenze potrebbero farsi sentire su obiettivo di inflazione, avanzo commerciale e tasso di crescita dell’area.

In attesa delle decisioni della Bce

I mercati finanziari hanno da tempo indirizzato le proprie antenne a cogliere, nelle dichiarazioni della Banca centrale europea, ogni indizio che possa in qualche modo segnalare la fine del “programma ampliato di acquisto di attività” altrimenti noto come Quantitative easing. L’ultima occasione è stata la decisione di politica monetaria del Consiglio direttivo del 20 luglio. Nel comunicato letto da Mario Draghi si riaffermava l’intenzione di “condurre gli acquisti netti di attività, all’attuale ritmo mensile di 60 miliardi di euro, sino alla fine di dicembre 2017 o anche oltre se necessario, e in ogni caso finché non riscontrerà un aggiustamento durevole dell’evoluzione dei prezzi, coerente con il proprio obiettivo di inflazione”.

Tutto chiaro, almeno in apparenza. Ma come ha notato Fausto Panunzi i giornalisti presenti hanno ripetutamente chiesto a Mario Draghi maggiori lumi sulla fine del Qe, sentendosi peraltro rispondere che il Consiglio non ha ancora avviato la discussione e se ne riparlerà in autunno. Nel valutarne gli esiti, il presidente della Bce ha rivendicato un successo “indiscutibile” del Qe sull’economia reale e un successo parziale sull’inflazione. E a chi gli chiedeva se invece di insistere sul Qe non fosse il caso di accontentarsi di un’inflazione più bassa rivedendo l’obiettivo del 2 per cento, Draghi ha risposto che giustificare una modifica dell’obiettivo dell’inflazione solo perché non lo si riesce a raggiungere costituirebbe un pericoloso precedente che minerebbe la credibilità della Bce.

Ma proprio negli stessi minuti in cui le parole di Draghi rimandavano qualsiasi cambio di rotta sul Qe, l’euro si apprezzava repentinamente, passando in pochi minuti da sotto 1,15 col dollaro a ben sopra 1,16, con un rally che sembrava prodotto da ricoperture di vendite short.

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Figura 1

 

 

 

 

 

 

Nota: L’orario riportato è il Coordinated Universal Time, due ore prima l’ora di Francoforte

Ora, delle due l’una. O i mercati hanno voluto interpretare il riferimento di Draghi all’autunno come un velato messaggio che la svolta è vicina, oppure si è trattato di un ulteriore segnale che l’euro è destinato ad apprezzarsi ancora, con o senza Qe. Un segnale, in altre parole, che gli aggiustamenti di portafoglio che dal 2014 hanno spinto il valore dell’euro verso il basso (compresi quelli effettuati dalle banche centrali) potrebbero cedere il passo alla domanda “fondamentale” della moneta europea innescata dall’enorme avanzo delle partite correnti dell’area euro che viaggia da due anni attorno al 4% del Pil e favorita dal differenziale di inflazione a favore del dollaro.

L’effetto del cambio euro-dollaro

Che impatto potrà avere il cambio euro-dollaro sul Qe? Va innanzitutto ricordato che oltre ad avere abbassato la curva dei rendimenti, l’effetto più evidente del Qe è stato proprio quello di tenere basso il valore dell’euro. Ciò ha contribuito a far crescere moderatamente l’inflazione e, soprattutto, a sostenere la domanda estera per il Pil dell’area euro, con una domanda interna ancora carente, sia a causa della bassa dinamica salariale che di un orientamento complessivo della politica fiscale (ovvero la somma dei saldi di bilancio dei 19 paesi) non sufficientemente espansivo.

Se il mutamento di rotta dovesse proseguire, il rafforzamento dell’euro potrebbe rendere più difficile raggiungere l’obiettivo di inflazione. Inoltre, se un euro più forte dovesse ridurre l’avanzo commerciale dell’area, si avrebbero conseguenze negative anche sul tasso di crescita, con effetti deflazionistici. Insomma, le sfide della Bce non sono finite, e tra qui e la fine del Qe sembra ancora esserci una strada decisamente tortuosa.

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