Si continua a discutere di come ridurre i contratti a termine. Ma eventuali nuove norme restrittive non riuscirebbero comunque a eliminarli del tutto. Perché la parte maggioritaria del fenomeno si spiega con posti di lavoro effettivamente temporanei.
I disincentivi possibili
Nel periodo novembre 2016-ottobre 2017 (ultimi dati disponibili) il numero medio mensile di occupati a termine (inclusi apprendisti) si aggira attorno a 2,6 milioni sia secondo Istat-Rfl che secondo gli Osservatori Inps. Il numero di lavoratori che nel corso di un anno sperimenta almeno un rapporto di lavoro a termine è chiaramente maggiore: secondo Inps-Osservatorio dipendenti nel 2016 si è trattato di 3,1 milioni.
La domanda d’obbligo è: se, come universalmente affermato, il rapporto di lavoro “normale” deve essere a tempo indeterminato, è possibile ridurre la dimensione assoluta e quindi l’incidenza del lavoro a termine? E come, se diamo per scontato che le soluzioni più semplici (abolire il contratto a tempo determinato) non sono di fatto praticabili?
In questi anni diverse misure sono state attivate per incentivare i rapporti di lavoro a tempo indeterminato: decontribuzione in varie forme con le leggi di stabilità 2014, 2015 e 2017; introduzione con il Jobs act del contratto a tutele crescenti, sperando in un conseguente spiazzamento dei contratti a termine.
Ma più volte si è ritoccata anche la regolazione specifica, nel tentativo (continuo) di renderla “più logica” e di limitare i possibili abusi.
Prima di Natale, il tema è di nuovo tornato all’attenzione anche in sede legislativa e si è discusso di restrizioni specifiche, poi non approvate per mancanza di accordo politico: riduzione delle proroghe da cinque a tre; riduzione da 36 a 24 mesi della durata massima di un rapporto di lavoro a tempo determinato, comprensivo anche di episodi plurimi o prorogati.
Si tratta di una tipologia di interventi la cui ratio è impedire la “fossilizzazione” di rapporti di lavoro a termine in rapporti di lunga durata effettiva. Allo stesso intendimento si può ascrivere il dispositivo previsto dalla legge 92/2012 (poi abolito) di allungamento degli intervalli tra un contratto a termine e quello successivo. Tutti questi interventi, volti a disincentivare la permanenza con contratti a termine di un lavoratore presso una data azienda, dal punto di vista sistemico non generano necessariamente e automaticamente una minor incidenza del lavoro a termine: obbligano le imprese a intensificare il turnover dei lavoratori temporanei (e in tal senso rappresentano un disincentivo) ma di per sé non ne vincolano l’utilizzo.
Vi sono altre tipologie di misure possibili di contrasto al lavoro a termine. Per esempio, un’altra classe di disincentivi agisce per via monetaria, come ha fatto la legge 92/2012 imponendo un contributo aggiuntivo per finanziare la disoccupazione o come si potrebbe fare in sede contrattuale prevedendo un maggior salario, a parità di mansioni, per i lavoratori a tempo determinato.
Una terza classe di disincentivi prevede limiti normativi che agiscono dal lato dell’impresa (esplicitazione della causale; quote sugli organici).
Per essere efficace ciascun disincentivo deve non solo visibilizzare esigenze di principio (“è giusto che …”), ma deve anche individuare soglie concrete che da un lato “mordano” effettivamente (rappresentino un costo significativo per l’impresa), dall’altro consentano di minimizzare gli effetti non voluti (burocratizzazione, contenzioso, preferenza per il nero, riduzione dell’occupazione regolare e quindi delle tutele). E, in ogni caso, l’efficacia di ciascuna misura dipende dalla semplicità e capillarità dei controlli, oggi almeno teoricamente possibili in modo massiccio e tempestivo, non solo puntuale ed erratico.
Lo studio di Veneto Lavoro
Nel contesto di questi ragionamenti risulta utile provare a capire quanti posti (potenzialmente) fissi le aziende “nascondono” con contratti temporanei, anche facendo ruotare nel corso del tempo diversi lavoratori sulla medesima posizione. Si tratta quindi di distinguere tra occupati con contratti a termine impiegati in posizioni di lavoro effettivamente e coerentemente temporanee (è il caso di un commesso in un negozio con apertura solo stagionale) e occupati a termine che “coprono” invece posizioni tendenzialmente stabili.
Uno specifico esercizio è stato proposto recentemente da Veneto Lavoro con riferimento ai dati 2016. Su circa 60 mila imprese utilizzatrici di lavoro a tempo determinato nel corso dell’anno, circa un sesto (10 mila) risultano aver posti di lavoro a termine in tutti i dodici mesi, corrispondenti – nel mese di minimo – a circa 40 mila unità di lavoro full year equivalent, pari a meno di un terzo del valore corrispondente calcolato per tutti i contratti a termine. Sono presenti in modo significativo casi riconducibili alla pubblica amministrazione (istruzione, sanità), a volte impossibilitata ad attivare rapporti di lavoro a tempo indeterminato a causa delle tante, anche barocche, rigidità introdotte per controllare le dimensioni e il costo del lavoro pubblico. Analoghe stime in corso con dati nazionali approdano a risultati analoghi.
Fonte: elab. Veneto Lavoro
I risultati dell’esercizio sono interpretabili come stima del tetto massimo di posti fissi “nascosti” in Veneto con impieghi a termine: il loro numero effettivo non può che essere inferiore, perché il criterio di individuazione adottato definisce una condizione necessaria (la presenza continua per dodici mesi) ma non sufficiente (ad esempio i casi di presenza di lavoro a termine per sostituzione oppure la distribuzione tra qualifiche diverse).
Se ne ricava che lo spazio per una riduzione dei contratti a tempo determinato – qualora le norme riescano a centrare il bersaglio – è importante ma non risolutivo, perché la parte maggioritaria risulta spiegata da posti di lavoro effettivamente temporanei. Per ottenere risultati di ordine superiore occorrerebbe mettere in questione l’articolazione settoriale e dimensionale della struttura produttiva italiana nonché le linee di evoluzione connesse all’innovazione tecnologica, da un lato, e alla dotazione di fattori competitivi dall’altro: restando con i piedi per terra non appare logico riporre aspettative miracolistiche – vale a dire riduzioni percentualmente importanti – nelle possibilità della normativa di regolazione del lavoro temporaneo.
* Le opinioni espresse non coinvolgono necessariamente l’amministrazione di appartenenza.
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Giacomo Favaro
Grazie, molto interessante il suo articolo.
Dato che le aziende necessitano di contratti a tempo determinato, e i lavoratori di indeterminato, perché non pensare a delle organizzazioni riconosciute dallo Stato (che quindi rispettano nel tempo determinati requisiti) che assumano persone con contratto a tempo indeterminato, si curino della loro formazione e della loro crescita professionale, e propongano queste risorse alle aziende che le richiedano a tempo determinato, con il valore aggiunto di una sorta di garanzia sulla loro preparazione e senza che le aziende impegnino troppo tempo in azienda per insegnare un lavoro per cui sono già formati. Non sono a conoscenza se questo meccanismo sia già previsto nel nostro ordinamento; in tal caso forse sarebbe da rinforzare.
Successo per questo percorso sarebbe se le aziende assumano a tempo indeterminato (potendo farlo solo con questo contratto) le persone che hanno lavorato per loro.
Che ne pensa?
lorenzo fassina
Se è vero che i posti sono realmente temporanei, allora perchè, invece di pensare ad abbassare il limite temporale di utilizzo massimo dei contratti, non si torna alla definizione di causali di utilizzo dei contratti a tempo determinato?
Brocardo Reis
Se comprendo correttamente, i contratti non a tempo indeterminato considerati ne dati il suo articolo sono esclusivamente i contratti a tempo determinato, escludendo quindi interamente dalla fotografia i contratti cosiddetti “atipici” e le partite i.v.a. Queste ultimi tipi di rapporto lavorativo, però, sono probabilmente quelle che meglio si prestano a “nascondere” i posti di lavoro potenzialmente fissi. In tal caso, le stime che lei riporta non sono il tetto massimo di contratti indeterminati recuperabili: in realtà esse rappresentano una cospicua sottostima di tale tetto. Non trova? Si noti che, almeno per i contratti cosiddetti “atipici”, vi è una evidente sottocontribuzione previdenziale; quindi un primo evidente meccanismo per disincentirvarli sarebbe di renderli costosi almeno quanto (e anzi più) dei contratti non atipici in termini contributivi.
Michele
I contratti temporanei servono solo a tenere i lavoratori in una condizione di continua sudditanza; con implicazioni sui salari (ridotti), sui diritti (disapplicati), sulle condizioni di sicurezza e salute sul lavoro (ridotte). Sono rare le esigenze gestionali non risolvibili con altri strumenti. I contratti a tempo determinato dovrebbero essere aboliti o limitati in modo draconiano con forti prelievi sulla base del numero di contratti a termine attivati in ogni anno dalla singola impresa
bruno anastasia
Il meccanismo che lei indica non esiste nel nostro ordinamento. Lo Stato si configurerebbe come un mega datore di lavoro (una sorta di mega agenzia di lavoro interinale), in grado di individuare e farsi carico di tutti gli oneri formativi, con assunzioni a tempo indeterminato e missioni a tempo determinato. Una simile evoluzione allo stato attuale non pare nè immaginabile nè concretamente possibile.
Brocardo Reis
Se comprendo correttamente le definizioni statistiche in uso, i lavoratori con contratti cosiddetti “atipici” e le partite IVA non sono presi in considerazione nell’articolo. Ma sono proprio questi tipi di rapporti lavorativi che meglio si prestano a mascherare relazioni di fatto permanenti. È possibile sapere come cambierebbero i risultati includendo i contratti cosiddetti “atipici” e le partite IVA?