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La posta in gioco tra Washington e Pechino

Le minacce di dazi puntano a indurre la Cina ad accettare trattative bilaterali con gli Stati Uniti su temi che l’attuale sistema multilaterale degli scambi non riesce a gestire. Un accordo di questo tipo segnerebbe però la fine del multilateralismo.

La questione cinese

Nel bel mezzo di una minacciata guerra commerciale da parte degli Stati Uniti verso la Cina, oggi 10 aprile al Forum di Boao il presidente cinese Xi Jinping pronuncerà un discorso nel quale ci si aspetta affronti il vero tema che ha spinto l’amministrazione Trump, il 23 marzo, ad annunciare l’introduzione di dazi tra il 10 e il 25 per cento su circa 1330 prodotti cinesi importati negli Usa.

È ormai chiaro che il vero obiettivo delle minacce di guerra commerciale non è tanto la riduzione dell’elevato disavanzo commerciale statunitense con la Cina – intento dichiarato inizialmente da Donald Trump, per mantenere una delle sue promesse elettorali. Si tratta invece di una scelta tattica per indurre il governo cinese ad accettare trattative bilaterali sui temi che gli Stati Uniti e tutte le altre economie di mercato sollevano da tempo nei confronti della Cina: innanzitutto, le modalità di acquisizione della tecnologia attraverso acquisizioni più o meno predatorie di imprese estere (che gli Stati Uniti hanno regolarmente bloccato, a differenza dell’Europa) e attraverso la richiesta di cessione di know-how tecnologico alle imprese estere in cambio dell’accesso al mercato interno. C’è poi il tema dell’apertura dei settori dei servizi, soprattutto finanziari, bancari e assicurativi, e del sistema degli appalti pubblici, ancora chiusi alla concorrenza estera nonostante le reiterate promesse di graduali riforme sin dal 2001. In generale, il tema è quello della volontà cinese di continuare a operare sui mercati internazionali per beneficiare del libero scambio e della libertà di investimento quando gioca fuori casa, cioè nel ruolo di esportatore e investitore, ma adottando le regole internazionali solo in modo parziale quando gioca in casa.

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Tutto questo oggi assume, per i principali paesi partner della Cina, soprattutto Europa e Stati Uniti, le caratteristiche di un’emergenza che l’attuale sistema multilaterale degli scambi non riesce – e non è attrezzato – a gestire e solleva il caso di salvaguardia della sicurezza nazionale, fattispecie non prevista dalla World Trade Organization. Da qui le ire di Trump nei confronti dell’organizzazione, dalla quale ha minacciato di voler uscire: un altro tassello che aiuta a spiegare la strategia del presidente che lo porta a cercare di affrontare faccia a faccia questioni che da anni non trovano una sede negoziale adeguata ed efficace.

Le conseguenze della guerra commerciale

La Cina si è detta sin dall’inizio aperta a un dialogo e a trattative che, peraltro, sarebbero già in corso per evitare un’escalation effettiva di dazi e ritorsioni, deleteria per entrambi i paesi e per il resto del mondo.

Una guerra commerciale vera e propria sarebbe infatti devastante per tutti. Innanzitutto, per gli stessi Stati Uniti che vedrebbero aumentare i prezzi al consumo e quelli alla produzione di molti beni realizzati con input cinesi, mentre non è chiaro il segno dell’effetto netto che avrebbero i dazi annunciati su alcuni prodotti, come per esempio la soia, i pannelli solari, l’acciaio e l’alluminio.

Anche per la Cina gli effetti sarebbero negativi, seppure forse meno profondi poiché la proporzione dei ricavi dall’estero delle più grandi imprese nei settori interessati da eventuali dazi è molto bassa, a eccezione dei beni di consumo durevoli e dei prodotti della tecnologia dell’informazione. Tuttavia, Pechino non ha uno spazio di azione molto ampio per individuare contromisure efficaci (perché sono pochi i settori in cui la Cina è il principale destinatario dell’export americano e al contempo importa dagli Stati Uniti una percentuale relativamente bassa del suo fabbisogno). Questo potrebbe ridurre la sua capacità di rispondere ai dazi americani in maniera credibile.

Negative le prospettive anche per molte altre economie, tra cui quelle europee, le cui filiere produttive in molti settori sono ormai strutturalmente legate a fornitori che operano in Cina. Tali effetti terzi sarebbero tutt’altro che trascurabili e forse anche maggiori, in singoli settori, di quelli diretti. Per esempio, il valore delle automobili tedesche esportate dagli Stati Uniti in Cina è superiore a quello delle automobili americane prodotte negli Stati Uniti e destinate al mercato cinese.

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Qualunque accordo si riesca a raggiungere avrebbe il merito di evitare una guerra commerciale inutile e costosa, ma al contempo segnerebbe la fine del principio di non discriminazione e innescherebbe la corsa di altri paesi a negoziare bilateralmente con la Cina (come sta già accadendo con Francia e Germania). Sancirebbe anche la fine della speranza di poter riportare a tavoli negoziali multilaterali questioni che riguardano tutti.

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Ma le guerre commerciali non prevedono il lieto fine

  1. Giuliano Bosco

    I “tavoli negoziali multilaterali” non sembra che abbiano funzionato molto, vista la situazione di pesante squilibrio che si è venuta a creare e che avvantaggia in maniera inaccettabile l’economia cinese e di cui le economie occidentali pagano un caro prezzo in termini di enormi perdite di posti di lavoro.
    Quindi ben venga l’iniziativa del “Singolo” (con la “S” maiuscola) Trump che con il suo decisionismo può riuscire laddove gli inconcludenti negoziati multilaterali hanno miseramente fallito.

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