Con o senza reddito di cittadinanza, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro si può favorire senza costi eccessivi mettendo a punto un progetto, testandolo e ampliandolo solo se efficace. Lo dimostra una sperimentazione dell’università di Ferrara.
L’incontro tra domanda e offerta di lavoro
In un articolo su lavoce.info Francesco Giubileo ha scritto che forse si potrebbe spendere molto meno dei 2 miliardi ipotizzati dal Movimento 5 stelle per offrire un lavoro a chi lo cerca (e dovesse avere un reddito di cittadinanza). La sua stima è di circa 312 milioni di euro per realizzare un modello da estendere a tutti i 600 centri per l’impiego in Italia. Le proposte che fa sono condivisibili in quanto puntano ad assumere personale esperto nei Cpi, ma anche ad affidare il servizio, almeno in parte, alle agenzie private. In ogni caso, un ruolo centrale verrebbe assunto dall’“agente commerciale” destinato a intercettare la domanda di lavoro delle imprese.
Non c’è dubbio che questa sia un’attività strategica per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e per massimizzarne l’efficienza e contenere il costo complessivo delle assunzioni. Esempi di questo tipo esistono già: l’università di Ferrara sperimenta da anni un percorso di inserimento lavorativo (Pil) per i propri laureandi e per i master in alto apprendistato, che è stato riconosciuto come una buona pratica anche da ricerche a livello comunitario. L’obiettivo della sperimentazione non è stato tanto quello di cercare risorse per estendere un servizio da erogare con modalità “standard” definite a priori, ma di mettere a punto “su scala pilota” – e poi affinare progressivamente – una “tecnologia” efficace per una politica di collocamento efficiente.
In genere, per aumentare l’efficienza “fisica” di un settore si aumenta la spesa: l’esperienza citata suggerisce di percorrere un’altra strada: prima si rendono più efficienti le politiche e poi, eventualmente, si aumenta la spesa (in questo caso, l’organico dei Cpi), in modo da raggiungere i volumi di attività attesi. Il risultato, alla fine, è che l’incremento della spesa risulterà certamente meno elevato rispetto a quello che sarebbe stato richiesto dalla conservazione della pratica precedente.
Percorsi di accompagnamento per i giovani
L’indagine Excelsior rileva che al momento delle assunzioni il 24,3 per cento del personale ricercato è di difficile reperibilità; tra i laureati si arriva al 32 per cento e non si tratta solo di ingegneri meccanici o informatici.
La causa principale è l’assenza di una sistematica attività di accompagnamento al lavoro dei giovani nella fase finale degli studi, che produce anche il fenomeno dei Neet (persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione). In Italia non mancano solo le politiche attive della transizione dagli studi al lavoro, ma anche le “organizzazioni” di supporto per un efficace incontro con le imprese, specie con quelle piccole e medie. I giovani (diplomati, laureati) si trovano sommersi da valanghe di informazioni “social/on-line” ma, di fatto, nel vuoto di un accompagnamento organizzato e professionale verso il primo lavoro. E poiché non disponiamo delle risorse della Germania, per i Cpi dobbiamo usare soprattutto le buone pratiche per accrescere l’incontro tra chi cerca e offre lavoro.
Alvin E. Roth, Nobel per l’Economia nel 2012, ci mostra come tutti i mercati siano “migliorabili” e ciò vale anche per i “mercati del lavoro”. Per farlo occorrono “nuove organizzazioni per la transizione”. Cpi, università e scuole devono dotarsi di questo tipo di organizzazioni, anche piccole purché efficienti nel presidiare le nuove attività alla periferia del loro “core business”. Organizzazioni che devono conoscere a fondo il mercato del lavoro locale e che possono assumere modelli diversi: pubblico, pubblico-privato, privato; l’importante è che ci sia un monitoraggio per capire come poi procedere a scala nazionale.
L’esperienza ferrarese ha evidenziato che buone politiche di accompagnamento al lavoro riducono non solo i casi di mancata corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro, ma aumentano significativamente i risultati occupazionali, più di quanto avverrebbe con le procedure “standard” di assunzione: le imprese, specie le piccole (quelle più diffuse), sono aiutate a individuare i propri fabbisogni di risorse umane, i giovani (oggi sempre più disorientati) scoprono lavori che non sapevano esistere e spesso più motivanti degli stereotipi che si erano creati. Non di rado, incontrando i giovani, le imprese scoprono quel candidato (magari con caratteristiche non ricercate) che le aiuta in un percorso di innovazione a cui non avevano pensato.
Per una sfida così complessa l’“agente commerciale” diventa una “organizzazione esperta” che si consolida nelle sue competenze distintive, al di là dei singoli e che dovrebbe lavorare (almeno in parte) “salvo buon fine”, anche in base alle difficoltà locali (Bologna non è Napoli). In Italia siamo come “sistema” più indietro dei tedeschi ma forse siamo più avanti sulle buone pratiche. La logica dell’“impianto pilota” – che mette a punto un processo che funziona e che lo estende solo una volta testato – è virtuosa: il risultato è più lavoro con meno risorse e con risultati verificabili strada facendo. Altrimenti, è assistenzialismo e non ci sarà lavoro in più.
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Savino
E’ solo una questione di mentalità. Bisogna convincere anzitutto le famiglie di provenienza degli studenti e gli atenei ad uscire fuori dalla mentalità provinciale del “si è sempre fatto così”, perchè questa non è una risposta appropriata per il bene dei nostri ragazzi. Ho parlato delle famiglie perchè esse esercitano troppe pressioni sui propri figli per orientarli su interessi occupazionali ove ci sono in famiglia gli “agganci” giusti. Questo depaupera la creatività dei nostri ragazzi creando generazioni di scontenti, perchè persone portate verso altri sbocchi professionali, diversi da quelli intrapresi.
Claudio Resentini
Un paio di annotazioni critiche:
1) Mi sfugge il concetto. L’agente commerciale non dovrebbe essere uno che vende qualcosa? E in questo caso che cosa venderebbe? Il lavoratore o il servizio di intremediazione? Qual è il prodotto? E qual è il mercato? Il “mercato del lavoro”, poco più di una metafora, o il “mercato dei servizi per l’impiego”? Non è detto che misure ffinalizzate ad incrementare il business degli operatori attivi sul mercato dei servizi per l’impiego comportino necessariamente un migliore incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, anzi…
2) Sostenere che il fenomeno dei Neet sia dovuto all’assenza di una sistematica attività di accompagnamento al lavoro dei giovani nella fase finale degli studi è quantomeno opinabile. Il fenomeno dei Neet ha sicuramente origini e cause molto più complesse che hanno a che fare, ad esempio, con le aspirazioni e le aspettative dei giovani e delle loro famiglie o con lo scarso investimento sulla formazione del personale da parte del sistema produttivo.
Roberto
Non sono d’accordo. Diciamo le cose come stanno che sono quelle trite e ritrite.
La gente esce dalle università senza competenze, e una media, grande impresa cerca nel 99% dei casi gente con esperienza. Il problema sostanziale non è l’incontro fra la domanda e l’offerta ma il sistema ipercompetitivo in cui ci troviamo che rende impossibile formare le risorse e quindi chi ha le cosiddette ‘capacità’ ovvero la laurea.
Firmato: chi ha fatto un master post laurea estremamente pratico, perché col solo pezzo di carta stava ancora a casa da mammà. Saluti
Savino
Ci sono anche non laureati che fanno (male) lavori intellettuali per cui sono previste competenze nettamente maggiori. Ci sono persone col diploma che fanno ricorso al Tar perchè vogliono insegnare. Ci sono ragazze laureate in discipline pedagogiche a spasso e maestre d’asilo non laureate che maltrattano i bambini.
bob
Il fenomeno dei Neet si descrive osservando semplicemente 2 realtà: ci sono settori come edilizia. agricoltura, ristorazione dove gli italiani non sono più presenti. Tutti super istruiti? I dati dicono che siamo il paese con meno laureati, diplomati e con fasce di analfabetismo (letteralmente non sapere né leggere né scrivere) che in certi territori sfiora il 25%. Viene da chiedersi allora cosa fanno gli Italiani? Vi ricordate le paginate di inserzioni il Venerdì su Repubblica e Corriere della Sera..l’ Italia propositiva di chi cercava veramente lavoro è nata lì.
Roberto S.
Sì, bene, bello. Ma… fatto come? Si dà una descrizione generica ma su come funziona, su “come è fatto dentro”, sulle metodologie, i processi, niente di niente. Capisco che questa poteva non essere la sede adatta: poco spazio. Ma un link ad uno “studio” esterno, neanche quello? In pratica, ci viene fatto passare sotto il naso un piatto dall’apparenza e dal profumo appetitosi, ma “che cosa sia ” non si sa: “è roba buona”. Ok, rimaniamo con la fame; di “conoscenza”.